Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 23 settembre 2014 - Ricorsi n. 46154/11 - Valle Pierimpiè società agricola s.p.a. c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata da Rita Carnevali, assistente linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE  

CAUSA VALLE PIERIMPIÈ SOCIETÀ AGRICOLA S.P.A.
c. ITALIA

(Ricorso n. 46154/11)

SENTENZA
(Merito) 

STRASBURGO
23 settembre 2014

 

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.a. c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:

Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
András Sajó,
Nebojša Vučinić,
Helen Keller,
Egidijus Kūris,
Robert Spano, giudici,
e da Abel Campos, cancelliere aggiunto di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 2 settembre 2014,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

  1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 46154/11) proposto contro la Repubblica italiana con il quale una società per azioni di tale Stato, Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.a., («la ricorrente»), ha adito la Corte il 26 luglio 2011 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
  2. La ricorrente è stata rappresentata dall’avv. U. Ruffolo, del foro di Bologna. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.
  3. La ricorrente lamenta in particolare di essere stata privata del suo «bene» (una valle da pesca costiera, detta Valle Pierimpiè) senza ricevere alcun indennizzo.
  4. Il 18 giugno 2013 il ricorso è stato dichiarato parzialmente irricevibile e il motivo di ricorso relativo all’articolo 1 del Protocollo n. 1 è stato comunicato al Governo.

    IN FATTO
     
  5. Con atto notarile di compravendita la ricorrente acquistò anticamente un complesso immobiliare e produttivo detto Valle Pierimpiè, situato nella laguna della provincia di Venezia. Questo complesso faceva parte di quelle che localmente sono chiamate «valli da pesca», espressione che indica dei terreni con corpi idrici delimitati da argini. Da allora, la ricorrente pratica una particolare forma di piscicoltura.
  6. Il 24 giugno 1989, poi nuovamente il 10 giugno 1991 e il 27 aprile 1994, l'intendenza di finanza di Padova intimò alla ricorrente di lasciare i terreni da lei occupati in quanto questi ultimi appartenevano al demanio pubblico.

    A. Il procedimento di primo grado
     
  7. Il 24 giugno 1994 la ricorrente citò i ministeri delle Finanze, dei Trasporti, della Navigazione e dei Lavori pubblici dinanzi al tribunale di Venezia per far dichiarare giudizialmente la sua qualità di proprietaria della Valle Pierimpiè. Nei motivi della sua azione, la ricorrente dichiarava:
    • che da tempo immemorabile questa valle da pesca era stata trasmessa con atto di compravendita tra privati, come attestato dai titoli che risalivano al XV secolo;
    • che nel 1886 era stata messa in vendita dal tribunale civile di Venezia;
    • che era sempre stata una proprietà privata, come risultava dalla legislazione austriaca (il Veneto faceva parte dell'impero austro-ungarico fino al 1866) e dalle iscrizioni nella conservatoria dei registri immobiliari e nel catasto.
  8. Con sentenza del 18 marzo 2004, depositata il 24 maggio 2004, il tribunale dichiarò che la Valle da pesca Valle Pierimpiè apparteneva al demanio dello Stato; di conseguenza, il tribunale dichiarò la ricorrente debitrice nei confronti dell'amministrazione di una indennità di occupazione senza titolo di territorio del demanio pubblico per un importo da determinare con separato procedimento civile.
  9. Nei motivi il tribunale osservò innanzitutto:
    • che ai sensi dell’articolo 28 del codice della navigazione (di seguito il «CN»), il demanio pubblico marittimo («DPM») dello Sato era formato, tra l’altro, dalle lagune e dai bacini di acqua che, almeno durante una parte dell’anno, comunicano liberamente con il mare, e dai canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo;
    • che, in particolare, le lagune appartenevano allo Stato indipendentemente dal carattere pubblico o privato del loro uso, come confermato dalle disposizioni speciali riguardanti la laguna di Venezia, in particolare dall’articolo 1 del regio decreto-legge n. 1853 del 1936 e dall’articolo 1 della legge n.366 del 1963;
    • ma che queste leggi non precisavano la natura giuridica delle valli da pesca che erano dei bacini separati dalla laguna.
  10. Il tribunale notò tuttavia che la giurisprudenza aveva chiarito i parametri di valutazione della demanialità delle valli da pesca; per appartenere al demanio dello Stato, queste dovevano soddisfare le seguenti condizioni: a) fare fisicamente parte della laguna e dunque del mare, con il quale dovevano comunicare; b) essere idonee ad uno degli usi pubblici marittimi.
    In questo quadro, basandosi sul risultato di una perizia disposta nel corso del processo, il tribunale giunse alla conclusione:
    • che la valle da pesca Valle Pierimpiè non faceva parte della laguna di Venezia e quasi non comunicava con l’esterno;
    • ma che la valle comunicava con il mare all’epoca dell’entrata in vigore del CN (1942).
    Ora, notò il tribunale, l’appartenenza al demanio dello Stato non poteva cessare tacitamente: era indispensabile un atto formale dell’amministrazione.
    Rimaneva dunque da stabilire se, per la sua morfologia, la valle in questione fosse idonea agli usi pubblici del mare, ossia alla navigazione, alla pesca e alla balneazione.
    Su questo punto, il tribunale riconobbe che la navigazione e la balneazione erano de facto impossibili o difficili; ma osservò che invece la pesca di allevamento era correntemente esercitata nella valle. A suo parere, ciò era sufficiente per affermare che la Valle Pierimpiè faceva parte del DPM.

    B. L’appello
     
  11. La ricorrente interpose appello avverso questa sentenza.
  12. Con sentenza del 3 aprile 2008, depositata il 10 giugno 2008, la corte d’appello di Venezia confermò la decisione di primo grado.
  13. Nella motivazione, la corte d’appello osservò che, secondo il regolamento di polizia lagunare del 1841, la laguna di Venezia era considerata appartenere al demanio dello Stato, ivi comprese le valli da pesca. Pertanto, queste ultime non potevano essere oggetto di proprietà privata e non potevano essere utilizzate se non in virtù di un’autorizzazione amministrativa.
    In queste condizioni, concluse la corte, i trasferimenti di proprietà che la ricorrente si sforzava di provare dovevano essere considerati nulli e non realizzati in quanto essi avevano ad oggetto dei beni fuori commercio che non potevano essere acquisiti per usucapione: come aveva precisato la Corte di cassazione nella sua giurisprudenza (terza sezione, sentenza dell’8 marzo 1976), ogni iscrizione di trasferimento di proprietà nei registri immobiliari e in catasto doveva capitolare di fronte all’appartenenza del bene al DPM.
    La corte d’appello precisò che il fatto che prima del 1989 l’amministrazione non fosse mai intervenuta per rivendicare la Valle Pierimpiè e non si fosse opposta alle attività che vi venivano praticate, non cambiava nulla a tale stato di cose.
  14. Peraltro, giudicò la corte, le valli da pesca rispondevano ai criteri stabiliti dall’articolo 28 del CN. Si trattava in effetti di bacini d’acqua che, per almeno un periodo dell’anno, comunicavano liberamente con il mare, anche se ciò era possibile soltanto grazie alla messa in opera di meccanismi idraulici installati da alcuni privati. La chiusura della valle effettuata dopo la seconda guerra mondiale non aveva creato, secondo la corte, una effettiva e definitiva separazione rispetto al resto della laguna di Venezia.
  15. La corte d'appello sottolineò anche che le valli erano utilizzate per la pesca e che la navigazione era completamente esclusa (poteva essere praticata da barche di piccolo cabotaggio).
    Infine, considerò la corte, lo scopo della legislazione riguardante la laguna di Venezia era di preservarla e di proteggerne l'equilibrio ambientale precario. Il raggiungimento di tale scopo non permetteva, giudicò essa, di sottrarre alcuni spazi acquei lagunari all'interesse pubblico.
  16. Tuttavia, la corte d'appello precisò che facevano parte del DPM soltanto le parti della valle coperte dalle acque, e non le terre e le costruzioni che erano costruite su di essa.
    Per il resto, indicò la corte, l’intendenza di finanza aveva giustamente intimato alla ricorrente di lasciare la valle da pesca, in quanto l'inerzia precedente dell'amministrazione non incideva sulla legalità della sua azione.
    Per quanto riguarda l'importo dell'indennità di occupazione di cui la ricorrente era debitrice, la corte d'appello considerò che quest'ultimo poteva essere fissato soltanto nell'ambito di una procedura civile separata.

    C. Il ricorso per cassazione 
     
  17. La ricorrente propose ricorso per cassazione. La causa fu assegnata alle sezioni unite della Corte di cassazione.
  18. Con sentenza del 24 novembre 2010, depositata il 18 febbraio 2011, la Corte di cassazione respinse il ricorso, ritenendo che la corte d'appello avesse motivato in maniera logica e corretta tutti i punti controversi.
  19. Nei suoi motivi, la Corte di cassazione rammentò:
    • che ai sensi degli articoli 822 e 824 del codice civile («CC»), i beni del demanio pubblico dovevano necessariamente appartenere allo Stato, alle regioni, alle province e ai comuni;
    • che alcuni di questi beni erano tali soltanto per le loro intrinseche qualità (così detto demanio «necessario»: ossia il demanio marittimo, idrico e militare), o per il fatto di appartenere ad enti territoriali (così detto demanio «eventuale», che riguarda ad esempio le strade e gli immobili di interesse storico e artistico);
    • che l’articolo 823 CC prevedeva che i beni del demanio pubblico fossero inalienabili e non potessero formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano; il che vuol dire che essi non potevano essere oggetto di acquisizione per usucapione.
  20. La Corte di cassazione notò che ai sensi dell'articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione e che lo Stato aveva competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.
    Pertanto, giudicò la Corte, emergeva l’esigenza di interpretare la nozione di «beni pubblici», al di là di una visione puramente patrimoniale, ponendosi piuttosto in una prospettiva personale-collettivistica e avendo riguardo alla funzione di tali beni; dal momento che per le sue caratteristiche ambientali un bene era destinato alla realizzazione degli scopi costituzionali dello Stato, questo bene, prescindendo dal titolo proprietà, doveva essere considerato «comune» - vale a dire strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini.
    La Corte di cassazione notò anche che, certamente, la regola della non commerciabilità dei beni dello Stato non era assoluta e incontrava sempre più eccezioni.
  21. Ma nel caso di specie, considerò, le valli da pesca presentavano una funzionalità e una finalità pubblica-collettivistica; la loro appartenenza allo Stato implicava l’obbligo, per quest’ultimo, di destinarle in maniera effettiva ad un uso pubblico per realizzare i valori iscritti nella Costituzione.
    Richiamandosi alla propria giurisprudenza, la Corte di cassazione notò che con le sentenze nn. 1863 del 1984 e 1300 del 1999, essa aveva affermato che la condizione della «comunicazione libera con il mare», richiesta dall’articolo 28 del CN per stabilire se un bene facesse parte del demanio dello Stato, non doveva essere interpretata in maniera fisica e morfologica, ma in rapporto alla funzione del bene in questione. In particolare, era determinante stabilire se il bacino d’acqua potesse prestarsi agli «usi del mare».
    Citando anche la sentenza n. 1228 del 1990, la Corte di cassazione rammentò che l’inclusione di un bene nel demanio naturale dello Stato discende unicamente dalle sue caratteristiche intrinseche, come descritte dalla legge, senza che sia necessario l’intervento di un atto amministrativo ad hoc.
    Gli atti privatistici di trasferimento di questi beni erano nulli e non realizzati, ed eventuali comportamenti concludenti posti in essere dalla pubblica amministrazione che potevano essere interpretati come un riconoscimento di una proprietà privata su detti beni, indicò la Corte, erano contrari alla legge e dunque privi di importanza.
    Infine notò che la legge n. 366 del 1963 aveva previsto la tutela della laguna di Venezia e il collegamento funzionale tra valli e laguna veneta in relazione alla pesca.

    IN DIRITTO

    I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N. 1 ALLA CONVENZIONE

     
  22. La ricorrente lamenta di essere stata privata senza alcun indennizzo della valle da pesca che utilizzava e, al contrario, di essere stata riconosciuta debitrice nei confronti dello Stato di una indennità di occupazione senza titolo di quest’ultima, il cui importo potrebbe essere molto elevato.
    Essa invoca l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, così formulato:
    «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
    Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»
  23. Il Governo contesta di aver violato questa disposizione.

    A.Sulla ricevibilità

    1. Sulla compatibilità ratione materiae del motivo di ricorso con l’articolo 1 del Protocollo n. 1

    a) L’eccezione del Governo 

     
  24. Il Governo afferma che la ricorrente non è mai stata titolare di un «bene» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 ed espone che:
    • la Valle Pierimpiè era stata inclusa nella delimitazione della laguna di Venezia operata dal decreto del Senato della Repubblica di Venezia del 10 gennaio 1783, divenendo così un bene del demanio dello Stato, caratterizzato dalla sua indisponibilità;
    • nel 1791, furono posti i limiti per indicare i confini della laguna;
    • il fatto che la laguna e le sue valli facessero parte del demanio fu confermato dal regolamento di polizia lagunare del 1841, che sulla base di questa appartenenza allo Stato poneva il principio che nessun soggetto privato potesse esercitare il diritto di pesca in maniera esclusiva in una valle senza un regolare titolo abilitativo (in questo caso, una concessione dell’autorità);
    • la Valle Pierimpiè faceva parte della laguna sia secondo il catasto De Bernardi del 1843 che secondo la carta idrografica del 1932;
    • il CN del 1942 non ha cambiato nulla al riguardo e le leggi successive (in particolare la legge n. 366 del 5 marzo 1963 e il decreto del Ministero dei Lavori Pubblici del 9 febbraio 1990) hanno confermato la demanialità delle valli da pesca incluse nella laguna;
    • sulla base dei documenti prodotti dinanzi ad essi, i giudici italiani hanno ritenuto a giusto titolo che la valle in questione fosse una «valle aperta», ove la pesca fosse esercitata come nelle acque libere.
  25. Poiché la Valle Pierimpiè faceva quindi parte del DPM, come ha peraltro stabilito la Corte di cassazione nella sentenza del 24 novembre 2010, il Governo spiega che la ricorrente non poteva essere titolare di alcun diritto di proprietà su questo bene; in effetti, nessun diritto reale, compresi quelli acquisiti per usucapione, può essere iscritto sui beni del DPM, che sono fuori commercio.
    Le decisioni prese dal magistrato delle acque di Venezia, osserva il Governo, si riferivano non al «proprietario» ma all’«utente» della valle da pesca e riguardavano la sua conservazione e la realizzazione di opere in vista della loro gestione economica. Secondo la legge italiana, un «utente» di questo tipo può beneficiare di sovvenzioni e di altri contributi statali o comunitari.
  26. Il Governo rammenta che un DPM esiste in dodici dei sedici Stati costieri osservati dalla Corte nella sentenza Depalle c. Francia ([GC], n. 34044/02, §§ 52-53, 29 marzo 2010).
    Peraltro, nella misura in cui la ricorrente contesta la ricostruzione dei fatti e l’interpretazione del diritto interno dei giudici nazionali, le sue deduzioni sono secondo il Governo di competenza della quarta istanza. 
  27. Il Governo sostiene anche che non avendo ottenuto una concessione pubblica di uso (articolo 36 del CN) e non avendo pagato il canone previsto dalla legge (articolo 39 del CN), la ricorrente non può essere titolare di una «aspettativa legittima» di continuare ad utilizzare la valle da pesca.
    Inoltre, a suo parere, la ricorrente non può ora sollevare tale questione (quella della violazione di un preteso diritto di «utilizzare» la valle), perché non ha presentato richieste in tal senso dinanzi ai giudici nazionali (essa in effetti si è sempre limitata a proclamare un diritto di «proprietà»).
  28. Secondo il Governo, parecchi elementi permettono di distinguere la presente causa da quella Bölükbaş e altri c. Turchia ((merito) n. 29799/02, 9 febbraio 2010), invocata dalla ricorrente (paragrafo 33 infra). In particolare, spiega:
    a) che nel diritto italiano, contrariamente a ciò che prevede il diritto turco, l’iscrizione di una acquisizione nei registri immobiliari non «costituisce» un diritto di proprietà;
    b) che un bene fa parte del demanio dello Stato anche se non è stato iscritto come tale nel registro immobiliare, e che qualsiasi tolleranza dello Stato rispetto alla sua occupazione e alla sua utilizzazione da parte dei cittadini è senza importanza a tale riguardo.
    Il Governo deduce da ciò che l’inerzia dell’amministrazione, che non ha immediatamente rivendicato l’appartenenza del bene al DPM, non può aver creato nessuna aspettativa valida nella ricorrente. Ogni persona che agisce con normale diligenza era secondo lui in grado di sapere che il bene apparteneva al DPM dal 1783.
    A tale proposito, il Governo rammenta che il processo penale avviato contro i notai e i pubblici ufficiali responsabili di aver dato atto del trasferimento della valle da pesca si è concluso con un proscioglimento per assenza di dolo e non perché il fatto non sussista.
  29. Un bene cessa di appartenere al DPM soltanto con atto amministrativo formale ed esplicito di declassificazione. Nel caso di specie, un atto di questo tipo non è mai stato adottato. Inoltre, nel diritto italiano le imposte fondiarie sono pagate dalla persona che utilizza il bene (ad esempio, esse spettano all’usufruttuario, e non al nudo proprietario); l’assoggettamento a tali imposte non costituisce dunque una prova della proprietà.
  30. Per quanto riguarda l’affermazione della ricorrente (paragrafo 32 supra) secondo la quale lo Stato avrebbe riconosciuto come «proprietà private» altre valli da pesca, ossia le valli Dragojesolo e Scaranello, il Governo osserva che questo riconoscimento ha avuto luogo sulla base di aspetti fisici e morfologici che non sono paragonabili, secondo lui, a quelli della Valle Pierimpiè. La ricorrente non ha peraltro indicato dinanzi alla Corte di cassazione i due esempi che cita dinanzi alla Corte.
     
    b) Gli argomenti della ricorrente 
     
  31. La ricorrente osserva che i giudici italiani hanno dichiarato che la Valle Pierimpiè faceva parte del DPM, nonostante:
    • esistessero atti di cessione dal XV secolo;
    • persone private abbiano avuto il possesso continuo delle valli;
    • nella conservatoria dei registri immobiliari e in catasto fossero iscritti i titoli di proprietà
    • il comportamento dell'amministrazione, che aveva rilasciato autorizzazioni che indicavano implicitamente l’appartenenza della valle a proprietari privati;
    • la riscossione da parte dello Stato di tasse e imposte sulla proprietà, anche dopo la sentenza della Corte di cassazione del 24 novembre 2010; il fatto che secondo la perizia depositata nel corso del processo di primo grado, la valle non soddisfacesse le condizioni indicate dall'articolo 28 del CN (ossia, che essa non comunicava con il mare e non poteva prestarsi agli usi tipici del mare (la navigazione, la balneazione e la pesca di pesci liberi);
    • il fatto che secondo il regolamento di polizia lagunare del 1841, le valli erano possedute da privati e potevano essere acquisite per usucapione.
  32. La ricorrente afferma che lo Stato ha riconosciuto come «proprietà private» due valli da pesca (le valli «Dragojesolo» e «Scanarello») secondo lei del tutto analoghe a quella da lei rivendicata.
    Considerando che il Governo ammette (paragrafo 24 supra) che il CN del 1942 non ha cambiato la destinazione delle valli da pesca della laguna di Venezia, la ricorrente contesta tutti gli argomenti con i quali quest'ultimo afferma che le valli in questione farebbero parte del demanio dello Stato da un’epoca più antica.
    Essa sostiene così che la delimitazione della laguna di Venezia del 1783 era stata fatta per semplici ragioni amministrative (determinare la zona d'applicazione delle norme di polizia idraulica) e non si proponeva di delimitare il demanio dello Stato; essa fa valere come prova il fatto che alcune proprietà private erano situate all'interno del perimetro della laguna.
    Per quanto riguarda il regolamento di polizia lagunare del 1841, non si trattava di un atto avente forza di legge ma, spiega la ricorrente, di un semplice strumento di polizia lagunare; secondo lei non poteva costituire la base legale per la demanialità dei beni. Inoltre, questo regolamento non conteneva alcuna clausola che dichiarasse che i beni privati inclusi nella laguna erano acquisiti al demanio dello Stato; al contrario, esso si riferiva al «proprietario delle valli» e prevedeva la possibilità di espropriazione dietro versamento di una indennità.
    Lo stesso discorso vale per la legislazione successiva (legge n. 3706 del 1877, regi decreti nn. 1090 del 13 novembre 1882, 546 del 22 settembre 1905, 1853 del 18 giugno 1936, leggi nn. 1471 del 31 ottobre 1942 e 366 del 1963).
    Il governo austriaco aveva peraltro venduto a privati, secondo la ricorrente, la valle «Dogado». Comunque sia, la ricorrente indica che, a differenza di quanto è previsto nell’attuale CC italiano, nel sistema giuridico dell’Impero austro-ungarico tutti i beni dello Stato potevano essere venduti e acquisiti per usucapione.
  33. La ricorrente afferma che l’iscrizione di titoli di proprietà sulle valli da pesca nel catasto De Bernardi (1842-1843), successivo al regolamento austriaco del 1841, ha costituito una conferma del riconoscimento della possibilità, per i privati, di possedere questi beni.
    La presente causa sarebbe quindi analoga alle cause Bölükbaş e altri, sopra citata, e Köktepe c. Turchia ((merito) n. 35785/03, 22 luglio 2008), nelle quali l’imprescrittibilità e l’inalienabilità del demanio pubblico non hanno impedito alla Corte di concludere per l’esistenza di un «bene» nel senso dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, considerando che i privati potevano legittimamente ritenersi in situazione di «certezza del diritto» per quanto riguarda la validità dei loro titoli di proprietà iscritti nei registri fondiari e non contestati per molti anni.
    Le cause Depalle c. Francia e Hamer c. Belgio, citate dal Governo (paragrafi 26 supra e 59 infra) sarebbero invece non pertinenti, in quanto attengono rispettivamente a un bene la cui demanialità non era contestata e ad una costruzione edificata senza autorizzazione.
  34. La ricorrente contesta l’affermazione del Governo (paragrafo 25 supra) secondo la quale gli atti dell’amministrazione riguardanti le valli da pesca qualificherebbero i loro destinatari come «utenti» - e non come «proprietari» - di queste ultime.
    La circostanza per la quale l’amministrazione ha concesso delle autorizzazioni a una persona designata come «proprietaria» dimostra, secondo lei, che il possesso esercitato da quest’ultima e dai suoi aventi diritto era riconosciuto come legittimo.
    Quanto all’affermazione del Governo secondo la quale l’appartenenza del bene al demanio dello Stato avrebbe potuto essere accertata attraverso atti di «ordinaria diligenza », la ricorrente fa osservare che nulla di questo è stato rilevato dalle decine di notai, magistrati e funzionari pubblici che hanno dovuto occuparsi delle valli da pesca nel corso degli anni.
    E’ vero che, ammette la ricorrente, il processo penale avviato contro i notai e i pubblici ufficiali responsabili di aver certificato il trasferimento della valle da pesca si è concluso con un proscioglimento per mancanza di dolo (paragrafo 27 supra); tuttavia, replica, risulta dagli atti di questo processo che la situazione di fatto e di diritto aveva indotto gli accusati a credere nella legalità dei trasferimenti di «proprietà» sulle valli da pesca, e che l’equivalenza tra «demanialità» e «inclusione nella laguna di Venezia», difesa dal Governo, non è stata presa in considerazione dai giudici interni.
  35. La valle da pesca in contestazione sarebbe stata sempre amministrata come bene produttivo di una impresa privata, e in un «atto di riconoscimento» del 27 settembre 2011, dunque successivo alla sentenza della Corte di cassazione del 24 novembre 2010, il magistrato delle acque ha indicato che la Valle Pierimpiè era, alla data di entrata in vigore dell’articolo 28 del CN, una valle da pesca «legittimamente arginata»
  36. Infine, per quanto riguarda l’argomento del Governo (paragrafo 27 – supra) secondo il quale dinanzi ai giudici nazionali la ricorrente si sarebbe limitata a proclamare il suo diritto di «proprietà», e non quello di continuare a «utilizzare» la valle da pesca, l'interessata ribatte che il divieto di utilizzare e di gestire un bene è una facoltà inerente al diritto di proprietà.

    c) Valutazione della Corte

    i. Principi generali 
     
  37. La Corte rammenta che la nozione di «beni» evocata nella prima parte dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 ha una portata autonoma che non si limita alla proprietà di beni materiali ed è indipendente dalle qualificazioni formali del diritto interno: anche alcuni altri diritti e interessi che costituiscono degli attivi possono essere considerati «diritti patrimoniali» e dunque «beni» ai fini di questa disposizione. In ogni causa è importante esaminare se le circostanze, considerate nel loro insieme, abbiano reso il ricorrente titolare di un interesse sostanziale protetto da questo articolo (Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 54, CEDU 1999-II; Beyeler c. Italia [GC], n. 33202/96, § 100, CEDU 2000-I; eDepalle, sopra citata, § 62). L'articolo 1 del Protocollo n. 1 non garantisce un diritto ad acquisire dei beni (Slivenko e altri c. Lettonia [GC] (dec.), n. 48321/99, § 121, CEDU 2002-II); tuttavia, il fatto che un diritto di proprietà sia revocabile in alcune condizioni non impedisce che lo stesso sia considerato come un «bene» nel senso di tale disposizione, almeno fino alla sua revoca (Beyeler, sopra citata, § 105, e Moskal c. Polonia, n. 10373/05, §§ 38 e 40, 15 settembre 2009).
  38. La Corte rammenta anche che la nozione di beni può ricomprendere sia beni attuali che valori patrimoniali, compresi i crediti, in virtù dei quali il ricorrente può pretendere di avere almeno un’«aspettativa legittima» di ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà (si vedano, tra altre, Pressos Companía Naviera S.A. c. Belgio, 20 novembre 1995, § 31, serie A n. 332; Kopecký c. Slovacchia [GC], n 44912/98, § 35, CEDU 2004-IX; e Association nationale des pupilles de la Nation c. Francia (dec.), n. 22718/08, 6 ottobre 2009).
    L’aspettativa legittima di poter continuare a godere del bene deve avere una «base sufficiente nel diritto interno», ad esempio quando è confermata da una giurisprudenza consolidata dei tribunali o quando è fondata su una disposizione legislativa o su un atto legale riguardante l’interesse patrimoniale in questione (Kopecky, sopra citata, § 52; Depalle, sopra citata, § 63; e Saghinadze e altri c. Georgia, n. 18768/05, § 103, 27 maggio 2010). Una volta acquisito ciò, può entrare in gioco la nozione di «aspettativa legittima» (Maurice c. Francia [GC], n. 11810/03, § 63, CEDU 2005-IX).
  39. Al contrario, la Corte ritiene che l’aspettativa di vedere riconosciuto un diritto di proprietà che si è nella impossibilità di esercitare effettivamente non possa essere considerato come un «bene» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, e che lo stesso principio valga per un credito condizionato che si estingue per la mancata realizzazione della condizione (Malhous c. Repubblica ceca (dec.), n. 33071/96, CEDU 2000-XII; Prince Hans-Adam II c. Germania [GC], n. 42527/98, § 5, CEDU 2001-VIII; e Nerva c. Regno Unito, n. 42295/98, § 43, 24 settembre 2002).
  40. Allo stesso modo, la Corte precisa che il diritto di abitare in una determinata casa, di cui non si è proprietari, non costituisce un «bene» ai sensi dell’articolo summenzionato (Panchenko c. Ucraina, n. 10911/05, § 50, 10 dicembre 2010; H.F. c. Slovacchia (dec.), n. 54797/00, 9 dicembre 2003; Kovalenok c. Lettonia (dec.), n. 54264/00, 15 febbraio 2001; e J.L.S. c. Spagna (dec.), n. 41917/98, 27 aprile 1999).
    Tuttavia, nella causa Saghinadze e altri sopra citata (§§ 104-108), essa ha qualificato come «bene» il diritto di utilizzare una piccola casa, notando che questo diritto era stato esercitato in buona fede e con la tolleranza delle autorità per più di dieci anni, nonostante l’assenza di un titolo di proprietà regolarmente registrato.
  41. La causa Bölükbaş e altri riguardava alcuni terreni che facevano parte del demanio forestale dello Stato. La Corte ha ritenuto che i ricorrenti non fossero titolari di un «bene» per quanto riguardava la parte di terreno oggetto di un semplice «possesso» perché secondo la Costituzione turca i terreni che facevano parte del demanio forestale non potevano essere acquisiti mediante prescrizione acquisitiva (Bölükbaş e altri, sopra citata, § 26; si veda anche Kadir Gündüz c. Turchia (dec.), n. 50253/99, 18 ottobre 2007). Essa è invece giunta a conclusioni opposte per quanto riguardava la parte di terreno sulla quale l’ascendente dei ricorrenti vantava un titolo di proprietà. In particolare, essa ha osservato che il bene in questione era rimasto iscritto a nome del de cujus, che il titolo di proprietà redatto a suo nome non era mai stato annullato e che i suoi eredi avevano continuato ad utilizzare il terreno a scopi agricoli; in tali circostanze, i ricorrenti potevano legittimamente credere di trovarsi in situazione di «certezza del diritto» per quanto riguardava la validità del titolo di proprietà in questione (Bölükbaş e altri, sopra citata, §§ 27 e 30-32; si veda anche Rimer e altri c. Turchia, n. 18257/04, § 36, 10 marzo 2009).
  42. Nella causa Depalle (sopra citata, §§ 65-68), la Corte ha osservato che, nonostante il rilascio di autorizzazioni di occupazione, la ricorrente non poteva ignorare che la sua casa era edificata su una particella appartenente al DPM, il che faceva sorgere dei dubbi in merito all’esistenza di una ragionevole aspettativa di poter continuare a godere del bene. Essa ha tuttavia rammentato che il fatto che le leggi interne di uno Stato non riconoscano un particolare interesse come «diritto», e soprattutto come «diritto di proprietà», non impedisce che l’interesse in questione possa comunque, in talune circostanze, essere considerato un «bene» nel senso dell’articolo 1 del Protocollo n. 1. Nel caso di specie, essa ha concluso per l'applicabilità di questa disposizione sottolineando, in particolare, che il tempo trascorso aveva fatto sorgere un interesse patrimoniale sufficientemente riconosciuto e importante a godere della casa.
    Nella sentenza Hamer c. Belgio (n. 21861/03, § 76, 27 novembre 2007), la Corte ha ritenuto che la casa delle vacanze controversa poteva essere considerata un «bene» della ricorrente, rilevando che l'interessata aveva pagato le imposte gravanti su questa casa, la quale esisteva già da ventisette anni prima che venisse accertato che era stata costruita in violazione della legge urbanistica.
  43. Infine, nella causa Köktepe (sopra citata, § 82), la Corte ha notato che, secondo il diritto turco, il detentore di un titolo di proprietà valido e per il quale non risultava alcuna annotazione nei registri fondiari poteva «aspirare ad avere un bene senza restrizioni fino al momento in cui la delimitazione apportata a seguito dei lavori delle commissioni catastali fosse divenuta definitiva in virtù di una sentenza definitiva in materia». Essa ha dunque concluso che il ricorrente, che aveva acquistato nel 1993 un terreno che la commissione catastale aveva incluso nel demanio forestale pubblico nel 1990 senza riportare questa decisione nei registri fondiari, era titolare di un «bene».

    ii. Applicazione di questi principi al caso di specie 
     
  44. La Corte osserva innanzitutto che le parti si sono concentrate sulla questione di stabilire se la dichiarazione dell'appartenenza della Valle Pierimpiè al DPM fosse basata su una corretta interpretazione dei testi pertinenti, ossia gli atti del Senato della Repubblica di Venezia, il regolamento di polizia lagunare del 1841, il catasto De Bernardi del 1843, il CN del 1942 e le leggi successive.
    Di fronte a questo dibattito, la Corte rammenta che non le spetta esaminare gli errori di fatto o di diritto asseritamente commessi da un giudice interno, a meno che e nella misura in cui questi errori avrebbero leso i diritti e le libertà tutelati dalla Convenzione (Khan c. Regno Unito, n. 35394/97, § 34, CEDU 2000-V), e che per principio spetta ai giudici nazionali valutare i fatti e interpretare e applicare il diritto interno (Pacifico c. Italia (dec.), n. 17995/08, § 62, 20 novembre 2012).
  45. Nel caso di specie, si trattava di interpretare dei testi complessi, alcuni dei quali molto antichi e adottati nel quadro di un sistema giuridico diverso da quello dell'Italia contemporanea, e di armonizzarli tra loro alla luce delle disposizioni che definiscono il DPM. In tali circostanze, in assenza di una manifesta arbitrarietà, la Corte non può sostituire la sua valutazione a quella dei tribunali interni.
  46. Comunque sia, essa ritiene che tale questione non sia determinante ai fini dell'applicabilità dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.
    In effetti, come risulta dalla giurisprudenza sopra citata, è possibile avere un «bene» nel senso di questa stessa disposizione in caso di revoca di un titolo di proprietà, a condizione che la situazione di fatto e di diritto precedente a questa revoca abbia conferito al ricorrente un’aspettativa legittima, collegata a interessi patrimoniali, sufficientemente importante per costituire un interesse sostanziale tutelato dalla Convenzione (si veda, ad esempio e mutatis mutandis, Di Marco c. Italia ((merito), n. 32521/05, § 53, 26 aprile 2011).
  47. La Corte osserva che parecchi elementi, non contestati dal Governo, dimostrano che nel caso di specie la ricorrente era titolare di un interesse di questo tipo.
  48. In primo luogo, l'interessata era titolare di un titolo formale di proprietà, ricevuto da un notaio e registrato nei registri immobiliari. Essa poteva dunque legittimamente pensare di trovarsi in una situazione di «certezza del diritto» per quanto riguarda la validità del titolo di proprietà in questione (si veda, mutatis mutandis, Bölükbaş e altri, sopra citata, § 32).
    La Corte non può peraltro attribuire importanza decisiva alla circostanza, richiamata dal Governo (paragrafo 28 supra), che un bene possa appartenere al DPM anche in assenza di una iscrizione ad hoc nei registri immobiliari. A tale proposito, essa si limita a osservare che fino alla revoca del titolo di proprietà, l'assenza di tale iscrizione non poteva che confortare il privato cittadino nella sua convinzione di godere di un bene privo di restrizioni (si veda, mutatis mutandis, Köktepe,sopra citata, § 82).
  49. In secondo luogo, la ricorrente poteva fondare la sua aspettativa legittima sulla prassi esistente da lunga data, in quanto risalente al XV secolo, che consiste nel riconoscere ai privati dei titoli di proprietà sulle valli da pesca e nel tollerare da parte loro un possesso e un utilizzo continui di questi beni.
    Inoltre, la ricorrente pagava le imposte fondiarie gravanti sulla Valle Pierimpiè e fino al 24 giugno 1989 (paragrafo 6 supra), il fatto che essa occupasse la valle e si comportasse come proprietario non aveva mai suscitato reazioni da parte delle autorità
  50. Infine, la Corte nota che il sito è il centro dell'attività di impresa della ricorrente, in questo caso una particolare forma di piscicoltura, poiché il profitto che essa ne trae costituisce la sua fonte primaria di reddito. Fino alla dichiarazione definitiva dell'appartenenza della Valle Pierimpiè al DPM, la ricorrente aveva l'aspettativa legittima di poter continuare a esercitare questa attività (si veda mutatis mutandis, Di Marco, sopra citata, § 52).
  51. Secondo la Corte, le circostanze sopra elencate, considerate nel loro insieme, hanno reso la ricorrente titolare di un interesse sostanziale tutelato dall'articolo 1 del Protocollo n. 1 (si vedano, ad esempio, Bozcaada Kimisis Teodoku Rum Ortodoks Kilisesi Vakfi c. Turchia, nn. 37639/03, 37655/03, 26736/04 e 42670/04, § 41, 3 marzo 2009, e Plalam S.P.A. c. Italia (merito), n. 16021/02, § 37, 18 maggio 2010).
  52. Ne consegue che tale disposizione è applicabile al caso di specie e che l'eccezione del Governo relativa alla incompatibilità ratione materiae del ricorso con la stessa deve essere rigettata.

    2. Sulle altre condizioni di ricevibilità 
     
  53. Il Governo sostiene che, dinanzi ai giudici nazionali, la ricorrente non aveva sollevato il suo argomento relativo al diritto per lei di «utilizzare» la Valle Pierimpiè (paragrafo 27 supra). Nella misura in cui questa affermazione potrebbe essere considerata una eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, la Corte osserva che l’interessata ha presentato un’azione giudiziaria volta ad ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà sulla valle da pesca in causa (paragrafo 7 supra) e l’ha proseguita per tre gradi di giudizio. Essa ha così sollevato, almeno in sostanza, il suo motivo di ricorso in base all’articolo 1 del Protocollo n. 1.
    Peraltro, poiché il diritto di disporre di un bene è una delle facoltà del proprietario, sostenendo che esisteva in suo favore un diritto di proprietà, la ricorrente ha implicitamente invocato anche il diritto alla gestione economica della valle da pesca.
  54. In queste condizioni, la Corte ritiene che l’interessata abbia fatto un uso normale dei ricorsi verosimilmente efficaci, sufficienti e accessibili, offrendo quindi allo Stato convenuto l’occasione di prevenire o di correggere la dedotta violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 prima che tale deduzione venisse sottoposta agli organi della Convenzione (si vedano fra molte altre, Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 74, CEDU 1999-V, e Sofri e altri c. Italia (dec.), n. 37235/97, CEDU 2003-VIII). Questo motivo di ricorso non può dunque essere dichiarato irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
  55. La Corte constata peraltro che il presente motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione, e che non incorre in nessun altro motivo di irricevibilità. Lo dichiara dunque ricevibile.

    B. Sul merito

    1. Argomenti delle parti

    a) La ricorrente 
     
  56. Secondo la ricorrente, se lo Stato voleva acquisire la valle da pesca, avrebbe dovuto avviare una procedura di espropriazione, con versamento di una indennità adeguata.
    Scegliendo di dichiarare l’appartenenza della valle al DPM, lo Stato ha secondo lei rotto il giusto equilibrio che deve essere mantenuto tra la tutela del diritto al rispetto dei beni dei privati e il perseguimento dell’interesse pubblico.
    Secondo lei, lo scopo invocato della tutela ambientale avrebbe potuto essere soddisfatto senza che fosse revocato il suo titolo di proprietà, semplicemente assoggettando l’attività esercitata nella valle alle restrizioni di polizia necessarie.
  57. La ricorrente osserva di essere stata privata di un bene essenziale per la sua attività di impresa, l’allevamento ittico, e di essere stata dichiarata debitrice nei confronti dello Stato di una indennità di occupazione senza titolo del DPM, la quale potrebbe ammontare a 20 milioni di euro (EUR) e comporterebbe il suo fallimento.
    Secondo lei non le può essere imputato alcun errore, come dimostrerebbe il fatto che il suo procuratore è stato prosciolto dall’accusa di occupazione senza titolo di un bene del DPM.
  58. La ricorrente rileva anche che, secondo la Corte di cassazione, la demanialità della valle da pesca si deduceva dal fatto che si supponeva in comunicazione con il mare; tuttavia, questa premessa sarebbe stata in seguito smentita dal magistrato delle acque, che, nel suo atto di riconoscimento del 27 settembre 2011, ha dichiarato che la Valle Pierimpiè era alla data di entrata in vigore del CN una valle da pesca «legittimamente arginata» (paragrafo 35 supra).
    Infine, la ricorrente contesta l’idea che le valli da pesca contribuiscano all’equilibrio idraulico della laguna riferendosi, su questo punto, ad una perizia disposta d’ufficio dal tribunale di Venezia nel corso del procedimento di prima istanza.

    b) Il Governo
     
  59. Il Governo sostiene in primo luogo che non vi è stata alcuna ingerenza nel diritto di proprietà della ricorrente, e che quest’ultima è libera di ottenere un’autorizzazione per l’utilizzo della valle da pesca. Per il resto espone che questa valle è essenziale per l’ecosistema della laguna e che la sua utilizzazione deve essere regolamentata dall’amministrazione.
    I giudici interni hanno stabilito che la Valle Pierimpiè comunicava con il mare e con la laguna ed era idonea ad un uso pubblico. La ricorrente occupava quindi senza autorizzazione – e dunque abusivamente – un bene del DPM; secondo il Governo, qualunque ne sia stata la durata, questo comportamento non può conferirle un diritto di proprietà o un diritto alla coltivazione né, di conseguenza, renderla beneficiaria di un compenso economico (si veda, in particolare, Hamer, sopra citata, § 85).
    Secondo il Governo l’amministrazione ha imposto giustamente alla ricorrente il pagamento di una indennità di occupazione, di natura compensativa, da calcolare a partire dal momento in cui l’amministrazione ha dichiarato l’appartenenza del bene al DPM (non è dovuto nulla, invece, per il periodo precedente al 1984, per il quale vi è prescrizione del diritto dello Stato a percepire la suddetta indennità). La ricorrente ha in effetti continuato a occupare la valle da pesca anche dopo questa data. Una occupazione di questo tipo avrebbe dovuto comportare il pagamento di un contributo.
  60. Il Governo espone anche che l’affermazione della demanialità della laguna è l’espressione della sovranità dello Stato sul suo territorio e che nel caso di specie lo Stato era tenuto a preservare gli interessi della collettività, dell’ambiente e dell’ecosistema lagunare.
    Per quanto riguarda il giusto equilibrio tra la finalità pubblica perseguita e gli interessi delle persone coinvolte, il Governo rammenta che nel 1991, l’amministrazione aveva proposto alla ricorrente di esercitare la sua attività nella valle da pesca previo pagamento di un contributo equo, senza ricevere risposta.
  61. In tali circostanze, il Governo contesta l’idea che la ricorrente abbia dovuto sopportare un onere eccessivo o sproporzionato: altre società agricole concorrenti della ricorrente hanno esercitato la loro attività senza occupare il DPM, o occupandolo in base ad una autorizzazione condizionata al pagamento di un contributo.

    2. Valutazione della Corte

    i. Sulla questione di stabilire se vi sia stata ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto del suoi beni 
     
  62. La Corte rileva che il 24 giugno 1989, poi il 10 giugno 1991 e il 27 aprile 1994, l’intendenza di finanza di Padova ha intimato alla ricorrente di lasciare la valle da pesca da lei occupata in quanto quest’ultima apparteneva al demanio pubblico (paragrafo 6 supra). In seguito, la ricorrente si è rivolta ai tribunali interni per ottenere il riconoscimento della sua qualità di proprietaria della Valle Pierimpiè (paragrafo 7 supra). La sua istanza è stata rigettata dal tribunale di Venezia, che ha dichiarato che la Valle Pierimpiè apparteneva al demanio dello Stato e che la ricorrente era di conseguenza debitrice nei confronti dell’amministrazione, per occupazione senza titolo di questa valle, di una indennità il cui ammontare avrebbe dovuto essere stabilito con un procedimento separato (paragrafo 8 supra). Questa decisione è stata confermata in appello (paragrafo 12 supra) e in cassazione (paragrafo 18 supra).
  63. Il bene della ricorrente è stato dunque acquisito dallo Stato e l’interessata ha perduto ogni possibilità di far valere un titolo. Per poter continuare ad esercitare la sua attività di allevamento ittico nella Valle Pierimpiè, essa sarà costretta a chiedere un’autorizzazione e, nel caso la ottenesse, dovrebbe pagare un canone o una indennità.
    Vi è stata dunque ingerenza nel diritto dell’interessata al rispetto dei suoi beni, che costituisce una «privazione» della proprietà ai sensi della seconda frase del primo comma dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (si veda, mutatis mutandis, Bölükbaş e altri, sopra citata, § 33).

    ii. Sulla giustificazione dell’ingerenza 
     
  64. L’articolo 1 del Protocollo n. 1 esige, prima di tutto e soprattutto, che una ingerenza dell’autorità pubblica nel godimento del diritto al rispetto dei beni sia legale: la seconda frase del primo comma di questo articolo autorizza una privazione della proprietà soltanto «nelle condizioni previste dalla legge»; il secondo comma riconosce agli Stati il diritto di regolamentare l’uso dei beni mettendo in vigore delle «leggi». Inoltre, la preminenza del diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è inerente a tutti gli articoli della Convenzione (Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 50, Recueil des arrêts et décisions 1996-III, e Iatridis, sopra citata, § 58).
  65. Nel caso di specie, dopo aver studiato, alla luce delle relazioni peritali, le caratteristiche morfologiche e funzionali della Valle Pierimpiè, i giudici interni hanno concluso che quest’ultima era un bacino d’acqua che comunicava con il mare ed era idoneo agli usi pubblici di quest’ultimo, e che faceva dunque parte del DPM in virtù dell’articolo 28 del CN (paragrafi 9, 10, 14, 15 e 21 supra). La dichiarazione di demanialità del «bene» della ricorrente aveva dunque una base legale sufficiente nel diritto italiano.
  66. In secondo luogo, una siffatta ingerenza è giustificata soltanto se persegue un interesse pubblico legittimo. Grazie ad una conoscenza diretta della loro società e dei suoi bisogni, le autorità nazionali si trovano per principio meglio collocate rispetto al giudice internazionale per stabilire ciò che è di «utilità pubblica». Nel meccanismo di tutela creato dalla Convenzione, spetta di conseguenza alle autorità nazionali pronunciarsi per primi sull’esistenza di un problema di interesse generale. Pertanto, esse godono di un certo margine di apprezzamento, come in altri campi ai quali si estendono le garanzie della Convenzione (Ex-Re di Grecia e altri c. Grecia [GC], n. 25701/94, § 87, CEDU 2000-XII).
  67. Nel caso di specie, sia le autorità giudiziarie nazionali (paragrafi 15, 20 e 21 supra) sia il Governo (paragrafo 60 supra) hanno indicato che l’inclusione della Valle Pierimpiè nel DPM si prefiggeva di preservare l’ambiente e l’ecosistema lagunare e di assicurare la sua effettiva destinazione all’uso pubblico. Secondo la Corte, si tratta senza dubbio di uno scopo legittimo di interesse generale (si veda mutatis mutandis, Ali Taş c. Turchia, n. 10250/02, § 33, 22 settembre 2009, e Şatır c. Turchia, n. 36192/03, § 33, 10 marzo 2009).
  68. Resta da stabilire se l’ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto dei suoi beni fosse proporzionata.
  69. A tale proposito, la Corte rammenta che una misura di ingerenza deve mantenere un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. In particolare, deve esistere un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito da ogni misura applicata dallo Stato, ivi comprese le misure che privano una persona della sua proprietà (Pressos Compania Naviera S.A. e altri, sopra citata, § 38; Ex-Re di Grecia e altri, sopra citata, § 89-90; Scordino c. Italia (n. 1) [GC], n. 36813/97, § 93, CEDU 2006-V).
  70. Nel controllare il rispetto di tale esigenza, la Corte riconosce allo Stato un grande margine di apprezzamento sia per scegliere le modalità di attuazione che per giudicare se le loro conseguenze siano legittimate, nell'interesse generale, dalla preoccupazione di raggiungere l'obiettivo della legge in causa (Chassagnou e altri c. Francia [GC], nn. 25088/94, 28331/95 e 28443/95, § 75, CEDU 1999-III). Essa non può per questo rinunciare al suo potere di controllo, in virtù del quale le compete verificare che l'equilibrio richiesto sia stato mantenuto in maniera compatibile con il diritto del ricorrente al rispetto dei suoi beni (Jahn e altri c. Germania [GC], nn. 46720/99, 72203/01 e 72552/01, § 93, CEDU 2005-VI).
  71. Al fine di stabilire se la misura in causa rispetti il «giusto equilibrio» richiesto e, soprattutto, se non faccia pesare sul ricorrente un onere sproporzionato, si devono prendere in considerazione le modalità di indennizzo previste dalla legislazione interna. Senza il versamento di una somma ragionevolmente rapportata al valore del bene, una privazione della libertà costituisce normalmente un pregiudizio eccessivo. La totale mancanza di indennizzo può essere giustificata sul terreno dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 soltanto in circostanze eccezionali (I santi monasteri c. Grecia, 9 dicembre 1994, § 71, serie A n. 301-A; Ex-Re di Grecia e altri, sopra citata, § 89; Turgut e altri c. Turchia, n. 1411/03, §§ 86-93, 8 luglio 2008; e Şatır, sopra citata, § 34).
    Tuttavia, l'articolo 1 del Protocollo n. 1 non garantisce in tutti i casi il diritto a un risarcimento integrale (James e altri c. Regno Unito, 21 febbraio 1986, § 54, serie A n. 98, e Broniowski c. Polonia [GC], n. 31443/96, § 182, CEDU 2004-V).
  72. Se è vero che in numerosi casi di espropriazione lecita, come l'espropriazione di un terreno per la costruzione di una strada o per altri scopi «di pubblica utilità », soltanto un indennizzo integrale può essere considerato ragionevole in rapporto al valore del bene, questa regola non è tuttavia priva di eccezioni (Ex-Re di Grecia e altri c. Grecia (equa soddisfazione) [GC], n. 25701/94, § 78, 28 novembre 2002). Gli obiettivi legittimi «di pubblica utilità», come quelli che possono essere perseguiti dalle misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono essere argomenti a favore di un rimborso inferiore al pieno valore di mercato (James e altri, sopra citata, § 54, e Scordino (n. 1), sopra citata, § 97).
  73. Occorre anche sottolineare che l'incertezza - legislativa, amministrativa o relativa alle pratiche delle autorità - è un fattore da prendere in considerazione per valutare la condotta dello Stato. In effetti, quando è in gioco una questione di interesse generale, i pubblici poteri sono tenuti a reagire in tempo utile, in maniera corretta e con la massima coerenza (Vasilescu c. Romania, 22 maggio 1998, § 51, Recueil 1998-III, e Arcidiocesi cattolica di Alba Iulia c. Romania, n. 33003/03, § 90, 25 settembre 2012).
  74. Nella presente causa, poiché è già stabilito che l'ingerenza in questione soddisfaceva la condizione di legalità e non era arbitraria, un risarcimento non integrale non renderebbe illegittima di per sé la presa di possesso del bene della ricorrente da parte dello Stato.
    Detto ciò, resta da verificare se, nel quadro di tale privazione di proprietà lecita, la ricorrente abbia dovuto sopportare un onere sproporzionato ed eccessivo (Di Marco, sopra citata, § 62;si veda anche, mutatis mutandis, Scordino (n. 1), sopra citata, § 99).
  75. La Corte nota che nel caso di specie alla ricorrente non è stato offerto alcun indennizzo per la privazione del suo bene. Al contrario, essa è stata condannata al pagamento di una indennità di occupazione senza titolo della Valle Pierimpiè.
    Anche se l'importo di tale indennità dovrà essere fissato con procedimento civile separato, la ricorrente sostiene che potrebbe ammontare a 20 milioni di EUR, fatto che comporterebbe il suo fallimento (paragrafo 57 supra). Il Governo non lo contesta, e ha affermato che l'indennità dovrebbe essere calcolata partire dal 1984 (paragrafo 59 supra), per cui si può pensare che il suo importo sarà molto elevato.
    Peraltro, non occorre dimenticare che nel caso di specie l’acquisizione del bene al DPM non era ispirata da misure di riforma economica o di giustizia sociale (si veda, mutatis mutandis, Di Marco, sopra citata, § 64).
  76. Inoltre, non risulta dal fascicolo che le autorità abbiano tenuto conto del fatto che il trasferimento della valle al DPM ha comportato la perdita dello «strumento di lavoro» della ricorrente in quanto questa valle era la sede della sua attività lucrativa, da lei legalmente esercitata (si vedano, mutatis mutandis, Di Marco, sopra citata, § 65, eLallement c. Francia, §§ 20-24, n. 46044/99, 11 aprile 2002).
    È vero che dal 1989 l’interessata era venuta a conoscenza del fatto che lo Stato affermava l’appartenenza della Valle Pierimpiè al demanio pubblico marittimo (paragrafo 6 supra), fatto che le ha permesso di considerare una diversa localizzazione della sua attività, e che non è neanche escluso che, previo pagamento di un contributo, le venga lasciata la possibilità di continuare l’esercizio della sua attività in questa valle da pesca. Resta il fatto che è probabile che l’acquisizione di un altro bacino per la piscicoltura risulti difficile e che, come il versamento di tale contributo, possa comportare dei costi significativi. Le autorità non hanno adottato alcuna misura per ridurre l’impatto economico dell’ingerenza.
    Questo sembra ancor più vessatorio se si pensa al fatto che nella fattispecie nulla permette di dubitare della buona fede della ricorrente.
  77. In queste circostanze, la Corte ritiene che l’ingerenza, effettuata senza indennizzo e imponendo alla ricorrente degli oneri supplementari, fosse manifestamente non proporzionata allo scopo legittimo perseguito.

    iii. Conclusione 
     
  78. Alla luce di quanto è stato esposto sopra, la Corte considera che lo Stato non abbia mantenuto un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco e che la ricorrente abbia dovuto sopportare un carico eccessivo e sproporzionato. Pertanto vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.

    II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE 
     
  79. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
    «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa».

    A. Danno
     
  80. La ricorrente chiede che lo Stato sia condannato a riconoscere il suo diritto di proprietà sulla Valle Pierimpiè e, di conseguenza, a non esigere il pagamento di indennità di occupazione.
    Nel caso in cui questa richiesta non fosse accolta, in via sussidiaria, la ricorrente chiede le venga riconosciuto un compenso per il danno materiale subìto, il cui ammontare dovrebbe essere calcolato tenendo conto dei seguenti elementi:
    • il valore venale della Valle Pierimpiè, che secondo la perizia prodotta dalla ricorrente ammonterebbe a 16.000.000 EUR, sulla base di un prezzo di 38.500 EUR per ettaro;
    • il deprezzamento della restante parte della sua proprietà, sulla quale non è pensabile un esercizio separato della sua attività, valutata in 2.154.223 EUR;
    • gli investimenti fatti dalla ricorrente per esercitare la piscicoltura e che rischiano di andare persi;
    • la somma che la ricorrente potrà essere condannata a pagare a titolo di indennità di occupazione irregolare (secondo le indicazioni dell’interessata, lo Stato reclamerebbe almeno 20.000.000 EUR a questo titolo, importo a cui dovrebbero essere aggiunti gli interessi legali e una somma per compensare gli effetti dell’inflazione a partire dal 1985);
    • il mancato guadagno provocato dalla cessazione dell’attività d’impresa della ricorrente;
  81. La ricorrente chiede inoltre la riparazione del danno morale che ritiene di aver subito, il cui importo dovrebbe essere fissato in via equitativa. Inoltre chiede alla Corte di tener conto dei seguenti fatti:
    • la violazione denunciata ha praticamente avuto l’effetto di ridurre il suo patrimonio a zero;
    • l’eventuale indennità di occupazione potrà condurre al suo fallimento;
    • il suo procuratore è stato oggetto di un lungo processo penale.
  82. Il Governo osserva che la ricorrente chiede innanzitutto piena e intera soddisfazione delle sue richiesta dinanzi alle autorità giudiziarie nazionali, fatto che secondo lui non può essere accettato.
    Per quanto riguarda altre soluzioni proposte dalla ricorrente a titolo sussidiario, il Governo le ritiene «incoerenti».
  83. La Corte considera che, nelle circostanze della causa, la questione dell’applicazione dell’articolo 41 non sia istruita per poter decidere sul danno materiale, vista la complessità della causa e l’eventualità che le parti trovino una forma di riparazione a livello nazionale.
    Pertanto, si deve riservare tale questione e fissare la procedura successiva tenendo conto di un eventuale accordo tra lo Stato convenuto e la ricorrente (articolo 75 § 1 del regolamento).
  84. Per quanto riguarda il danno morale, la Corte, decidendo in via equitativa, ritiene opportuno accordare alla ricorrente la somma di 5.000 EUR.

    B. Spese
     
  85. In base alla nota spese dei suoi avvocati, la ricorrente chiede anche 107.901,88 EUR per le spese sostenute per i procedimenti interni. Giustifica questo importo con il fatto che la causa ha esaurito i tre gradi di giudizio e che le questioni giuridiche sottostanti erano molto complesse, come dimostra il fatto che la causa è stata esaminata dalle sezioni unite della Corte di cassazione (paragrafo 17 supra).
  86. Il Governo non ha presentato osservazioni su questo punto.
  87. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle sue spese solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità e il loro importo sia ragionevole. Nel caso di specie, tenuto conto dei documenti in suo possesso, della sua giurisprudenza e del fatto che a livello interno la causa ha superato tre gradi di giudizio, la Corte ritiene ragionevole nel complesso la somma di 25.000 EUR e la accorda alla ricorrente.

    C. Interessi moratori 
     
  88. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ

  1. Dichiara il resto del ricorso ricevibile;
  2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione;
  3. Dichiara
    1. che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva in virtù dell’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
      1. 5.000 EUR (cinquemila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposte, per danno morale;
      2. 25.000 EUR (venticinquemila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta dalla ricorrente per le spese;
    2. che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  4. Dichiara che la questione dell’articolo 41 della Convenzione non è istruita per la decisione sul danno materiale, di conseguenza,
    1. la riserva a tale proposito;
    2. invita il Governo e la ricorrente a metterla a conoscenza, entro sei mesi, di qualsiasi accordo cui potranno giungere;
    3. riserva la procedura e delega al presidente l’onere di fissarla all’occorrenza;
  5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 23 settembre 2014, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Abel Campos
Cancelliere aggiunto

Işıl Karakaş
Presidente