Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 9 settembre 2014 - Ricorso n. 33756/09 - Alfio Briani e Giulia Briani contro l’Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata da Rita Carnevali, assistente linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.
Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC.

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE
DECISIONE

Ricorso n. 33756/09
Alfio BRIANI e Giulia BRIANI
contro l’Italia

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita il 9 settembre 2014 in una camera composta da:

  • Işıl Karakaş, presidente,
  • Guido Raimondi,
  • András Sajó,
  • Nebojša Vučinić,
  • Egidijus Kūris,
  • Robert Spano,
  • Jon Fridrik Kjølbro, giudici,

e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato presentato il 19 giugno 2009,
Dopo aver deliberato, rende la seguente decisione:

IN FATTO

  1. I ricorrenti, sig. Alfio Briani e sig.ra Giulia Briani, sono cittadini italiani nati rispettivamente nel 1954 e nel 1987 e residenti a Torino. Dinanzi alla Corte sono stati rappresentati dagli avvocati A. Barca e L. Carpaneto, del foro di Genova.
  2. I fatti della causa, così come sono stati esposti dai ricorrenti, possono riassumersi come segue.
  3. I ricorrenti sono padre e figlia. La ricorrente, affetta da encefalite di Rasmussen con epilessia secondaria resistente ai trattamenti farmacologici e caratterizzata da numerose crisi quotidiane, è stata riconosciuta invalida civile al 100% in quanto necessita di un’assistenza continua.
  4. Il ricorrente è tenente-colonnello nell’esercito italiano. Nel 2000 venne preso in esame per la promozione al grado di colonnello. Gli fu attribuito il punteggio di 27,38 e si collocò al 236° posto nella graduatoria generale. Ora, soltanto i primi 75 candidati potevano ottenere la promozione in questione.
  5. Il ricorrente impugnò gli atti relativi alla sua mancata promozione dinanzi al tribunale amministrativo regionale (il «TAR») del Lazio. Egli sosteneva che il numero di punti che gli era stato attribuito era sbagliato, che, secondo una precedente graduatoria, la sua promozione non era in dubbio, che non vi erano circostanze eccezionali per giustificare un cambiamento della sua posizione in graduatoria e che tre persone che avevano ottenuto la promozione possedevano titoli inferiori ai suoi.
  6. Con sentenza del 10 luglio 2007, il TAR del Lazio rigettò il ricorso del ricorrente. In particolare, il TAR indicava che l’interessato non aveva dimostrato che il suo cambiamento di posizione nella graduatoria fosse intervenuto senza l’inserimento di nuovi documenti nei fascicoli degli interessati, né che i titoli di tre persone promosse fossero stati valutati in modo difforme dalla competente commissione di avanzamento. Egli precisava che quest’ultima godeva peraltro di ampia discrezionalità quando di trattava di valutare le performance e le capacità degli ufficiali superiori.
  7. Il ricorrente interpose appello.
  8. Con sentenza del 2 dicembre 2008, depositata il 24 dicembre 2008, il Consiglio di Stato rigettò l'appello del ricorrente.
  9. Il Consiglio di Stato osservava che, nella valutazione del ricorrente per l'anno 2000, il giudizio riguardante la sua «attitudine al comando» era stato considerevolmente rivisto al ribasso - 22,09 punti nel 2000 contro 25,60 punti e 26,40 punti rispettivamente nel 1998 e nel 1999 -, fatto che avrebbe portato all'arretramento in graduatoria dell'interessato. Secondo il Consiglio di Stato – e il ricorrente lo avrebbe sottolineato -, un «peso decisivo» era stato attribuito alla dichiarazione resa per iscritto dall'interessato in data 31 agosto 1999, nella quale egli afferma di non essere disponibile all’impiego in attività di comando e di ritenere di poter essere efficacemente reimpiegato nell'area scolastico-addestrativa. Sempre secondo il Consiglio di Stato, il ricorrente era stato informato il 18 gennaio 1999 che era stato predesignato per l’incarico di comandante del 6° reggimento dei bersaglieri di Bologna e che egli aveva dichiarato di non gradire tale incarico.
  10. Secondo il Consiglio di Stato, questi elementi non potevano non avere un'incidenza negativa sulla valutazione attitudinale del ricorrente, dal momento che, a suo dire, si riteneva che i dirigenti dell'esercito dovessero dare prova di una dedizione al servizio superiore a quella che poteva essere richiesta agli altri ufficiali.
  11. Il Consiglio di Stato si dichiarava consapevole delle ragioni, gravi e documentate, che avevano indotto il ricorrente ad agire in questo modo. Tuttavia, indicava che, anche se le ragioni in questione rivelavano un'attitudine più che ammirevole dal punto di vista umano, esse non potevano vincolare l'amministrazione militare, deputata alla cura di interessi essenziali per il paese.

    MOTIVI DI RICORSO
  12. Invocando l'articolo 8 della Convenzione, i ricorrenti contestano il rifiuto di attribuire al ricorrente la promozione che quest'ultimo chiedeva.
  13. Invocando poi l'articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l'articolo 8 della Convenzione, essi lamentano di essere stati vittime di una discriminazione basata sulla disabilità della ricorrente.
  14. Invocando infine l'articolo 13 della Convenzione, essi ritengono di essere stati privati di un ricorso effettivo che avrebbe permesso di far valere il loro motivo di ricorso relativo all'articolo 8 della Convenzione.

    IN DIRITTO

    A.  Il motivo di ricorso relativo all'articolo 8 della Convenzione

     
  15. I ricorrenti sostengono che il ricorrente è stato retrocesso dalla 36a alla 236a posizione nella graduatoria formata per ottenere un grado superiore e che ciò ha pregiudicato il suo avanzamento di carriera.
    Essi invocano l'articolo 8 della Convenzione, così formulato:
    «1.  Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
    2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»
  16. I ricorrenti sostengono che il motivo del contestato arretramento nella graduatoria era la dichiarazione con la quale il ricorrente aveva affermato di non essere disponibile ad assumere funzioni di comando per via dello stato di salute della ricorrente. Gli interessati ritengono in primo luogo che l'esercizio di tali funzioni non sia una condizione essenziale per la promozione al grado di colonnello e che la presenza di un figlio disabile non dovrebbe essere un motivo di discriminazione. Quindi sostengono che, all'epoca della sua dichiarazione, il primo ricorrente non era stato informato delle possibili conseguenze di quest'ultima. Essi rimproverano allo Stato di non aver adottato le misure positive che sarebbero state necessarie nel caso di specie per garantire la vicinanza tra il ricorrente e sua figlia, dichiarata invalida al 100%, e per preservare le possibilità di fare carriera del ricorrente. Essi ritengono che quest'ultimo sia stato penalizzato dalla necessità, secondo loro oggettiva, di non allontanarsi dal luogo di residenza per poter assicurare a sua figlia la presenza e l'assistenza che la sua condizione avrebbe richiesto. A tale proposito, essi indicano che, per il Consiglio di Stato, questa circostanza non poteva prevalere sulla finalità dell'amministrazione che consisterebbe nella tutela degli interessi fondamentali del paese. Aggiungono, inoltre, che nessuna disposizione legislativa imponeva di mettere sul piatto della bilancia interessi concorrenti, e ciò dimostrerebbe che la posizione adottata dalle autorità non aveva una base legale; che, al contrario, la Costituzione protegge la famiglia e che la legge n. 104 del 1992 contiene disposizioni volte a tutelare le persone handicappate e la loro piena integrazione nelle famiglie. Inoltre, secondo i ricorrenti, ai sensi dell'articolo 33, comma 5, di questa legge, il genitore ha il diritto di scegliere, per quanto possibile, il luogo di lavoro più vicino alla propria abitazione e non può essere trasferito senza che vi abbia acconsentito.
  17. I ricorrenti invocano infine l'articolo 26 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.
  18. Nel caso di specie, la Corte è chiamata a decidere se il diritto invocato dai ricorrenti rientri nell'ambito della nozione di «rispetto» della «vita privata e familiare» contenuta nell'articolo 8 della Convenzione.
  19. La Corte rammenta che la sfera della vita privata, così come essa la concepisce, comprende l'integrità fisica e morale di una persona; la garanzia offerta dall'articolo 8 della Convenzione è destinata principalmente ad assicurare lo sviluppo, senza ingerenze esterne, della personalità di ogni individuo nelle relazioni con i suoi simili (Botta c. Italia, 24 febbraio 1998, § 32, Recueil des arrêts et décisions 1998-I).
  20. Nel caso di specie, la Corte nota che il ricorrente contesta sostanzialmente non un atto dello Stato, ma l'inerzia dello Stato, al quale rimprovera di non aver adottato le misure positive necessarie per garantire la vicinanza tra lui e la figlia dichiarata invalida e le sue possibilità di fare carriera. Ora, la Corte rammenta, se l'articolo 8 della Convenzione si prefigge essenzialmente di proteggere l'individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, esso non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da tali ingerenze: a questo impegno negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata o familiare, che possono implicare l'adozione di misure volte al rispetto della vita privata fin nelle relazioni degli individui tra loro (X e Y c. Paesi Bassi, 26 marzo 1985, § 23, serie A n. 91, e Von Hannover c. Germania (n. 2) [GC], nn. 40660/08 e 60641/08, § 98, CEDU 2012). La nozione di rispetto manca pertanto di chiarezza: per stabilire se esistono tali obblighi, occorre tener conto del giusto equilibrio da mantenere tra l'interesse generale e gli interessi dell'individuo, in quanto lo Stato gode comunque di un margine di apprezzamento (Botta, sopra citata, § 33, e Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], n. 28957/95, § 72, CEDU 2002-VI).
  21. La Corte rammenta anche di aver concluso per l'esistenza di questo tipo di obblighi a carico di uno Stato quando ha constatato la presenza di un legame diretto e immediato tra, da una parte, le misure richieste da un ricorrente e, dall'altra parte, la vita privata e/o familiare di quest'ultimo (Botta, sopra citata, § 34).
  22. Inoltre, la Corte rammenta che, nella causa Sidabras e Džiautas c. Lituania (nn. 55480/00 e 59330/00, §§ 46-50, CEDU 2004-VIII), ha ritenuto che il divieto di essere impiegato nei diversi rami del settore privato aveva colpito in sommo grado la capacità dei ricorrenti di allacciare rapporti con il mondo esterno e aveva causato loro gravi difficoltà quanto alla possibilità di guadagnarsi da vivere, fatto che aveva avuto evidenti ripercussioni sulla loro vita privata. La Corte ha dunque ritenuto che in questo caso i fatti rientrassero nel campo di applicazione dell'articolo 8 della Convenzione, soprattutto perché la restrizione in causa rischiava di pregiudicare la capacità degli interessati di condurre una vita personale normale.
  23. La Corte ritiene tuttavia che si debba fare una differenza tra un divieto generale di avere un impiego e l'impossibilità o la difficoltà di ottenere una promozione. Nel caso di specie, essa rileva che il ricorrente ha mantenuto il suo posto di lavoro nel luogo di residenza e non ha subito alcuna restrizione all'accesso ad altri impieghi. L'unica circostanza rappresentata dal rifiuto di un avanzamento di carriera non può, da sola, avere ripercussioni sullo sviluppo della sua personalità o sulla sua capacità di allacciare contatti con il mondo esterno tali da colpire i suoi diritti alla vita privata e/o familiare in una misura o a un punto tale che possa essere stabilito un nesso diretto tra le misure richieste dallo Stato e i diritti garantiti dell'articolo 8 della Convenzione.
  24. La presente causa si distingue anche dalle cause Okpisz c. Germania (nn. 59140/00, § 32, 25 ottobre 2005), Niedzwiecki c. Germania (n. 58453/00, § 31, 25 ottobre 2005), Fawsie c. Grecia (n. 40080/07, § 28, 28 ottobre 2010), e Saidoun c. Grecia (n. 40083/07, § 29, 28 ottobre 2010), nelle quali la Corte ha dichiarato che l'attribuzione dell'assegno per famiglia numerosa permetteva allo Stato di «testimoniare il suo rispetto per la vita familiare» e che ricadeva dunque sotto l'articolo 8 della Convenzione (si vedano anche Petrovic c. Austria, 27 marzo 1998, §§ 27-29, Recueil 1998-II – a proposito di un assegno di congedo parentale –, e Weller c. Ungheria,  n. 44399/05, § 29, 31 marzo 2009 – a proposito di un assegno di maternità (. A tale riguardo, è sufficiente osservare che l'eventuale promozione del ricorrente e i vantaggi economici che ne sarebbero derivati non hanno un legame diretto con la sua situazione familiare o con la disabilità di sua figlia. Il conseguimento o meno di una promozione non può dunque rientrare nel campo di applicazione dell'articolo 8 della Convenzione.
  25. Ne consegue che questo motivo di ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) e che deve essere rigettato, in applicazione dell’articolo 35 § 4 .

    B. Motivo di ricorso relativo all'articolo 14 della Convenzione
  26. I ricorrenti ritengono anche di essere stati vittime di una discriminazione basata sulla disabilità della ricorrente. Al riguardo, invocano l'articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l'articolo 8.
    L'articolo 14 della Convenzione è così formulato:
    «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.»
  27. I ricorrenti sostengono che la loro situazione presentava delle specificità che avrebbero richiesto un trattamento differenziato, ossia una valutazione della «attitudine al comando» del ricorrente che tenesse conto delle particolari esigenze della sua vita familiare.
  28. Come la Corte ha costantemente dichiarato, l'articolo 14 della Convenzione completa le altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli. Questo articolo non ha una esistenza indipendente, in quanto vale unicamente per «il godimento dei diritti e delle libertà» che esse garantiscono. Certamente, esso può entrare in gioco anche in assenza di una inosservanza delle loro esigenze e, in questa misura, possiede portata autonoma, ma non può trovare applicazione se i fatti della controversia non ricadono almeno sotto una delle suddette clausole (si veda, fra molte altre, Van Raalte c. Paesi Bassi, 21 febbraio 1997, § 33, Recueil 1997-I, Petrovic, sopra citata, § 22, Zarb Adami c. Malta, n. 17209/02, § 42, CEDU 2006-VIII, e Cusan e Fazzo c. Italia, n. 77/07, § 54, 7 gennaio 2014).
  29. Nel caso di specie, la Corte ha appena constatato che le misure richieste dai ricorrenti, ossia quelle che permettono al ricorrente di ottenere un avanzamento di carriera, non avevano alcun legame diretto con i diritti tutelati dall'articolo 8 della Convenzione. Di conseguenza, i fatti della controversia non ricadono sotto questa disposizione e l'articolo 14 della Convenzione non può essere applicato al caso di specie.
  30. Ne consegue che questo motivo di ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) e che deve essere rigettato, in applicazione dell'articolo 35 § 4.

    C.  Il motivo di ricorso relativo all'articolo 13 della Convenzione
     
  31. I ricorrenti considerano infine di non aver avuto a loro disposizione un ricorso interno effettivo con il quale avrebbero potuto far valere il loro motivo di ricorso relativo all'articolo 8 della Convenzione. A tale proposito essi invocano l'articolo 13 della Convenzione, così formulato:
    «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
  32. I ricorrenti sostengono che, privilegiando il potere discrezionale dell'amministrazione, i giudici italiani hanno rifiutato di riconoscere i diritti di cui essi avrebbero beneficiato in virtù della legislazione interna e del diritto internazionale.
  33. La Corte rammenta che l'articolo 13 non può essere interpretato nel senso di esigere un ricorso interno per ogni contestazione, per quanto ingiustificata sia, che un individuo può sollevare ai sensi della Convenzione: deve trattarsi di un motivo difendibile rispetto quest'ultima (Boyle e Rice c. Regno Unito, serie A n. 131, § 52, 24 aprile 1988). Nella presente causa, la Corte ha appena concluso che il motivo di ricorso dei ricorrenti relativo alla clausola normativa «sostanziale» formata dall'articolo 8 della Convenzione è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della stessa.
  34. Gli elementi di fatto considerati sopra dalla Corte per rigettare le affermazioni dei ricorrenti secondo il punto di vista della clausola sostanziale invocata la inducono, di conseguenza, a concludere, dal punto di vista dell'articolo 13 della Convenzione, che non si era in presenza di un motivo difendibile (si vedano, fra molte altre, e mutatis mutandis, Al Shari e altri c. Italia (dec.), n. 57/03, 5 luglio 2005, Walter c. Italia (dec.), n. 18059/06, 11 luglio 2006, Schiavone c. Italia (dec.), n. 65039/01, 13 novembre 2007, Zeno e altri c. Italia (dec.), n. 1772/06, 27 aprile 2010, e Cariello e altri c. Italia (dec.), n. 14064/07, § 94, 30 aprile 2013). L'articolo 13 non può dunque essere applicato al caso di specie.
  35. Ne consegue che questo motivo di ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) e che deve essere rigettato, in applicazione dell'articolo 35 § 4.

Per questi motivi, la Corte, all'unanimità,
Dichiara il ricorso irricevibile.

Stanley Naismith
Cancelliere

Işıl Karakaş
Presidente