Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 1° luglio 2014 - Ricorso n. 61820/08 - Guadagno e altri c. Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione eseguita da Martina Scantamburlo, funzionario linguistico e Rita Carnevali, assistente linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

CAUSA GUADAGNO E ALTRI c. ITALIA

(Ricorso n. 61820/08)

SENTENZA

STRASBURGO
1° luglio 2014


Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’artico 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

 
Nella causa Guadagno e altri c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:

Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
Nebojša Vučinić,
Helen Keller,
Paul Lemmens,
Egidijus Kūris,
Robert Spano, giudici,
e da Abel Campos, cancelliere aggiunto di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 3 giugno 2014,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

  1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 61820/08) proposto contro la Repubblica italiana con cui tre cittadini di tale Stato, i sigg. S. Guadagno, F. Minichini e F. Portoghese («i ricorrenti»), hanno adito la Corte il 15 dicembre 2008 in applicazione dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
  2. I ricorrenti sono stati rappresentati dagli avv. P. Troianello, G. Scalese e F. Maiello, del foro di Roma. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, P. Accardo.
  3. L’8 giugno 2010 il ricorso è stato comunicato al Governo.

    IN FATTO

    I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
     
  4. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1947, 1941 e 1950 e sono residenti a Salerno.
  5. I ricorrenti sono magistrati amministrativi. L’11 giugno 1991 ottennero lo status di «consigliere di Stato».
  6. Con atto notificato alla loro amministrazione il 23 dicembre 1992 e depositato presso la cancelleria del tribunale amministrativo regionale (TAR) della Basilicata, i ricorrenti chiesero l’adeguamento del loro salario in applicazione dell’articolo 1 della legge n. 265 dell’8 agosto 1991 (che faceva riferimento all’articolo 4, comma 3, del decreto legge n. 681 del 27 settembre 1982 convertito, con modifiche, nella legge n. 869 del 20 novembre 1982).
    Ritenevano di avere diritto, in virtù di tali disposizioni, allo stesso stipendio ottenuto da altri consiglieri di Stato che, pur avendo un’anzianità inferiore alla loro, godevano di un trattamento stipendiale più elevato.
  7. Con decreto dell’11 marzo 1993 il presidente del TAR trasmise gli atti al TAR di Salerno. Con atto depositato il 26 marzo 1993, i ricorrenti si costituirono in giudizio.
  8. Con sentenza del 6 dicembre 1995, depositata il 12 marzo 1996, il TAR accolse la domanda dei ricorrenti.
  9. La presidenza del Consiglio dei ministri interpose appello.
    Con la decisione n. 3017 del 6 maggio 2006 il Consiglio di Stato respinse l’appello in quanto non era stato notificato correttamente.
  10. Tuttavia, l’amministrazione non diede esecuzione alla sentenza del TAR.
  11. I ricorrenti avviarono un giudizio di ottemperanza dinanzi al TAR della Campania.
    L’amministrazione si oppose alla loro richiesta affermando:
    - che, in seguito all’entrata in vigore della legge n. 388 del 23 dicembre 2000 (o «legge n. 388/2000»), i ricorrenti non potevano più far valere il diritto all’adeguamento;
    - che, di fatto, l’articolo 50 della legge vietava ormai, con effetto retroattivo, di procedere al pagamento dei crediti stabiliti in materia da decisioni giudiziarie diverse da quelle che erano già divenute definitive alla data della sua entrata in vigore.
  12. Con sentenza resa il 10 gennaio 2008, il TAR ordinò all’amministrazione di dare esecuzione alla sua sentenza del 6 dicembre 1995. Nelle loro motivazioni, i giudici considerarono: 
    - che poiché l’appello dell’amministrazione era stato dichiarato irricevibile dal Consiglio di Stato, tale sentenza era passata in giudicato al più tardi il 28 aprile 1997;
    - che l’articolo 50 della legge n. 388/2000 non era dunque applicabile nel caso di specie, poiché la sentenza era divenuta definitiva prima della sua entrata in vigore.
  13. L’amministrazione interpose appello.
    Con sentenza resa il 6 maggio 2008, depositata il 16 giugno 2008, il Consiglio di Stato accolse l’appello e giudicò legale la non esecuzione della sentenza del TAR. Per decidere in tal senso, l’alta giurisdizione considerò:
    – che in virtù dell’articolo 324 del codice di procedura civile, la sentenza del TAR era passata in giudicato solo allo scadere dei termini entro i quali l’amministrazione poteva presentare ricorso per cassazione contro la sentenza resa dal Consiglio di Stato in appello o per chiederne la revoca;
    – che, in ogni caso, la sentenza non era ancora definitiva al momento dell’entrata in vigore della legge n. 388/2000;
    – e che, di conseguenza, trovava applicazione l’articolo 50 di tale legge.

    II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
  14. L’articolo 50 della legge n. 388 del 23 dicembre 2000 recita:
    «Il nono comma dell'articolo 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata.
    In ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti».

    IN DIRITTO

    I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 DELLA CONVENZIONE

     
  15. I ricorrenti affermano che l’entrata in vigore della legge n. 388 del 23 dicembre 2000 avrebbe influenzato la decisione del Consiglio di Stato, e vedono in ciò una violazione del principio della preminenza del diritto e dell’equità del procedimento. Denunciano una violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, che recita:
    «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (…)»
  16. Il Governo contesta questa tesi.

    A. Sulla ricevibilità
  17. La Corte constata che il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 della Convenzione, e osserva peraltro che esso non incorre in altri motivi di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.

    B. Sul merito

    1. Argomenti delle parti
     
  18. I ricorrenti affermano che la sentenza del TAR di Salerno doveva essere considerata come divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore della legge finanziaria n. 388 del 23 dicembre 2000 e che, di conseguenza, l’articolo 50 della stessa non era applicabile.
  19. I ricorrenti ritengono di non avere beneficiato delle garanzie di un equo processo a causa della non esecuzione della sentenza del TAR del 6 dicembre 1995, a seguito dell’applicazione retroattiva delle legge n. 388 del 23 dicembre 2000.
  20. Essi affermano che non vi è alcun motivo imperativo di interesse generale che possa giustificare l’ingerenza di cui sono stati vittime nella gestione del contenzioso giudiziario.
    L’unico scopo invocato dal Governo, sostengono, era «evitare una disparità di trattamento» tra i magistrati a livello di retribuzione. Tale scopo, secondo loro, è stato avanzato dal Governo in altre cause pendenti dinanzi alla Corte che hanno ad oggetto leggi retroattive intervenute nel corso del procedimento.
    Secondo i ricorrenti, tuttavia, il vero e unico scopo della legge controversa era di ordine economico.
  21. Con l’emanazione di una legge retroattiva per influire sull’esito dei procedimenti giudiziari avviati nei suoi confronti, lo Stato ha secondo loro violato il principio della parità delle armi.
    Intromettendosi nell’amministrazione della giustizia, lo Stato avrebbe anche pregiudicato l’autonomia della funzione giurisdizionale.
  22. Il Governo spiega che la disposizione abrogata dall’articolo 50 della legge finanziaria n. 388 del 23 dicembre 2000 trovava la sua ragione di essere nell’esistenza di magistrati del Consiglio di Stato e della Corte dei conti entrati in tali giurisdizioni per nomina del governo e che, al momento della loro integrazione, mantenevano il trattamento di cui godevano in precedenza, che poteva essere molto più elevato di quello dei loro nuovi colleghi già in servizio. Per evitare tali disparità la legge aveva previsto per questi ultimi il diritto di ottenere la stessa retribuzione dei nuovi entrati.
  23. Il Governo osserva che la perequazione così prevista non era automatica, ma subordinata a una richiesta da parte dell’interessato, che doveva indicare il trattamento del collega al quale voleva equipararsi: in pratica, ne derivava un’assenza di parametri generali e certi. Inoltre, con l’apertura di tale possibilità, la retribuzione dei magistrati amministrativi era, in generale, notevolmente aumentata.
    In tal modo dopo varie critiche di questo sistema – chiamato in italiano «galleggiamento» –, l’articolo 50 comma 4 della legge finanziaria n. 388 del 23 dicembre 2000 ha:
    – stabilito un sistema di perequazione di tutti i trattamenti,
    – deciso che sarebbe stato attribuito, a partire dal 10 gennaio 2001, a coloro che non avevano beneficiato di un adeguamento dello stipendio, un livello retributivo omogeneo, corrispondente a quello dei magistrati della Corte di Cassazione, dal momento in cui essi avessero ottenuto il titolo di «consigliere» o di «avvocato dello Stato».
    Questa disposizione ha, al tempo stesso, abrogato le disposizioni del comma 9 dell’articolo 4 della legge n. 425 del 6 agosto 1984, con effetto a decorrere dall’entrata in vigore del decreto legge n. 333 del 1992, convertito nella legge n. 359 del 1992.
    Così facendo, ritiene il Governo, la legge ha stabilito dei criteri omogenei di remunerazione.
  24. Il Governo ritiene che la legge finanziaria n. 388 del 23 dicembre 2000 abbia realizzato uno scopo sociale necessario e lodevole. Secondo il Governo era indispensabile porre fine all’istituzione del «galleggiamento», che portava a risultati iniqui.
  25. Il Governo afferma che, secondo l’interpretazione comunemente ammessa, conforme ai principi della Corte costituzionale, la disposizione della legge finanziaria n. 388 del 23 dicembre 2000 che vietava di eseguire pagamenti derivanti da una decisione giudiziaria incompatibile con questa nuova legge riguarda le decisioni non ancora passate in «giudicato».
    Tuttavia, il Governo spiega, per quanto riguarda la questione di stabilire se, in un determinato caso di specie, sia già intervenuto il giudicato, che la risposta spetta al giudice (nazionale).
    Nella fattispecie, per il Governo i ricorrenti hanno avuto la possibilità di esercitare i loro diritti sanciti dall’articolo 6 della Convenzione; quel che è avvenuto è che, alla fine, il giudice ha stabilito che la sentenza cui facevano riferimento non era ancora passata in giudicato alla data in questione.
  26. Il Governo aggiunge che, pur avendo perduto i vantaggi del «galleggiamento», i ricorrenti hanno acquisito, grazie alla nuova legge, degli aumenti stipendiali di applicazione generale per la loro categoria; di conseguenza, il sacrificio è stato limitato e, secondo esso, proporzionato agli scopi perseguiti dal legislatore.

    2. Valutazione della Corte
  27. A titolo preliminare, la Corte non ritiene necessario rimettere in discussione la conclusione cui è giunto il Consiglio di Stato sul momento in cui la decisione del TAR è divenuta definitiva. Anche supponendo che la decisione del TAR non fosse ancora definitiva alla data di entrata in vigore della legge n. 388 del 2000, come afferma il Consiglio di Stato, la Corte si pone la questione di sapere se l’intervento del legislatore, con l’effetto retroattivo cui è conseguita la ratifica della posizione dello Stato nell’ambito dei procedimenti avviati nei suoi confronti e all’epoca pendenti dinanzi alle autorità giudiziarie, sia compatibile con l’articolo 6 § 1 della Convenzione.
  28. La Corte ribadisce che, se in linea di principio al potere legislativo non è vietato, in materia civile, precisare con nuove disposizioni retroattive la portata dei diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’articolo 6 si oppongono, salvo imperiosi motivi di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la conclusione giudiziaria di una controversia (Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, § 49, serie A n. 301 B; Zielinski e Pradal e Gonzalez e altri c. Francia [GC], nn. 24846/94 e da 34165/96 a 34173/96, § 57, CEDU 1999 VII).
    La Corte rammenta inoltre che l’esigenza della parità delle armi implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte una possibilità ragionevole di presentare la propria causa in condizioni tali che non pongano una parte in una situazione nettamente sfavorevole rispetto alla parte avversa (si vedano le sentenze Dombo Beheer B.V. c. Paesi Bassi del 27 ottobre 1993, § 33, serie A n. 274, e Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis, sopra citata, § 46).
  29. La Corte è portata a pronunciarsi nel caso di specie sulla questione di sapere se l’intervento della legge del 18 dicembre 2003 abbia pregiudicato l’equità del procedimento e, in particolare, la parità delle armi, esercitando, in pendenza di lite, una influenza sull’esito della controversia.
  30. In alcune cause che sollevano problemi simili a quello della presente causa, la Corte ha rilevato che l’intervento del legislatore si era verificato in un momento in cui era pendente un procedimento giudiziario in cui lo Stato era parte. Essa ha così concluso che, intervenendo in maniera decisiva per orientare a suo favore l’esito imminente del procedimento in cui era parte, lo Stato ha violato i diritti dei ricorrenti sanciti dall’articolo 6 (si veda, in particolare, Zielinski e Pradal e Gonzalez e altri c. Francia [GC], nn. 24846/94 e da 34165/96 a 34173/96, § 57, CEDU 1999 VII, SCM Scanner de l’Ouest Lyonnais e altri c. Francia, n. 12106/03, § 28, 21 giugno 2007, e Agrati e altri c. Italia, nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09, 7 giugno 2011).
  31. La Corte osserva, peraltro, che prima dell’entrata in vigore della legge del 23 dicembre 2000, i ricorrenti potevano legittimamente attendersi un aumento della loro retribuzione. Ora, questa legge ha vietato, con effetto retroattivo, di procedere al pagamento di alcuni crediti originati da decisioni giudiziarie mentre queste ultime non erano ancora diventate definitive alla data della sua entrata in vigore.
  32. Escludendo dal suo campo di applicazione soltanto le decisioni giudiziarie passate in giudicato, la disposizione contestata della legge finanziaria n. 388 del 23 dicembre 2000 fissava definitivamente, in maniera retroattiva, i termini della discussione sottoposta ai giudici nei procedimenti in corso.
    Nel caso di specie, le azioni avviate dai ricorrenti dinanzi ai giudici interni erano allora pendenti. L’adozione di tale legge, che regolava il merito della controversia, rendeva vana ogni prosecuzione dell’esecuzione della sentenza non definitiva emessa in loro favore.
  33. Resta da verificare se la retroattività della legge fosse basata su motivi imperativi di interesse generale. Il Governo si riferisce alla necessità di eliminare la disparità di trattamento a livello di retribuzione dei magistrati, ma non indica le ragioni che gli avrebbero imposto di intervenire nei procedimenti pendenti.
  34. La Corte nota a tale proposito che il Governo non ha neanche tentato di spiegare quali motivi imperativi, ai sensi della sua giurisprudenza, potessero giustificare un intervento legislativo retroattivo in pendenza del procedimento. Nessuno degli argomenti presentati dal Governo convince la Corte della legittimità e della proporzionalità dell’ingerenza. Tenuto conto di quanto sopra esposto, l’intervento legislativo, che regolava definitivamente, retroattivamente, il merito della controversia che opponeva i ricorrenti allo Stato dinanzi ai giudici interni, non era giustificato da motivi imperativi di interesse generale.
  35. Pertanto la Corte conclude per la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

    II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
     
  36. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
    «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

    A. Danno
  37. Producendo i relativi documenti giustificativi, i ricorrenti chiedono in primo luogo 532.951 euro (EUR) ciascuno per il danno materiale che avrebbero subito fino al 31 dicembre 2008.
    Per gli anni successivi, essi aggiungono 1.000.000 EUR per il primo ricorrente, 950.000 EUR per il secondo ricorrente e 800.000 EUR per il terzo ricorrente, senza fornire alcuna spiegazione sul calcolo eseguito per giungere a questi importi.
    Infine, essi richiedono 550.000 euro ciascuno per danno morale.
  38. Il Governo si oppone a queste pretese e sostiene che si tratta di importi stabiliti senza parametri reali e che non tengono conto degli aumenti retributivi previsti dalla nuova legge e di cui beneficeranno anche i ricorrenti, in quanto sono di applicazione generale.
  39. La Corte rileva che, nella fattispecie, l’unica base da cui partire per riconoscere un’equa soddisfazione risiede nel fatto che i ricorrenti non hanno potuto beneficiare delle garanzie dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.
    Senza dover supporre quale sarebbe stato l’esito del processo in caso contrario, la Corte non ritiene irragionevole pensare che gli interessati abbiano subito una reale perdita di chance (si vedano, in particolare, Zielinski e Pradal e Gonzalez e altri, sopra citata, § 79; Lecarpentier c. Francia, n. 67847/01, 14 febbraio 2006, § 61; Arras e altri c. Italia n. 17972/07, 14 febbraio 2012 § 88). Essa tiene a sottolineare che, nel caso di specie, la giurisprudenza, prima dell’adozione della legge contestata, era favorevole alla posizione dei ricorrenti. Così, se non si fosse prodotta alcuna violazione, la situazione dei ricorrenti sarebbe stata verosimilmente diversa, dal momento che sarebbe stato possibile riconoscere loro il diritto all’adeguamento dello stipendio. Pertanto, la Corte ritiene che la violazione della Convenzione constatata nel caso di specie possa aver causato ai ricorrenti un danno materiale.
  40. Per quanto riguarda il periodo successivo al 2008, la Corte constata che l’ammontare delle perdite è necessariamente ipotetico in quanto dipende soprattutto da parametri non conosciuti, che non possono essere esaminati dalla Corte. Tali questioni dovrebbero essere eventualmente riservate alla competenza dei giudici nazionali.
  41. Tenuto conto di quanto sopra esposto e della sua giurisprudenza in materia, la Corte accorda 87.000 EUR al primo ricorrente, 104.000 EUR al secondo ricorrente e 95.000 EUR al terzo ricorrente per danno materiale.
  42. Quanto al danno morale, la Corte ritiene che la constatazione di violazione alla quale è giunta costituisca di per sé un’equa soddisfazione per il danno morale subito dai ricorrenti.

    B. Spese
  43. Senza produrre documenti giustificativi, i ricorrenti chiedono anche 79.810,72 EUR per le spese del procedimento dinanzi alla Corte.
  44. La Corte nota che la richiesta delle spese per il procedimento svoltosi dinanzi ad essa non è sufficientemente dettagliata e suddivisa per voci, né accompagnata da documenti giustificativi pertinenti. Rigetta quindi la richiesta formulata dai ricorrente a questo titolo.

    C. Interessi moratori
  45. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.


PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE,

  1. Dichiara, all’unanimità, il ricorso ricevibile;
  2. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione;
  3. Dichiara, all’unanimità,
    1. che lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti, entro tre mesi dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per danno materiale:
      1. 87.000 EUR (ottantasettemila euro) al sig. Guadagno;
      2. 104.000 EUR (centoquattromila euro) al sig. Minichini;
      3. 95.000 EUR (novantacinquemila euro) al sig. Portoghese;
    2. che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  4. Rigetta, con cinque voti contro due, la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 1° luglio 2014, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Abel Campos
Cancelliere aggiunto

Işıl Karakaş
Presidente

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata dei giudici Lemmens e Kūris.

A.I.K.
A.C.

OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEI GIUDICI LEMMENS E KŪRIS

  1. Siamo d’accordo con i nostri colleghi nel concludere che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. Ci rammarichiamo, tuttavia, di non poter aderire alla posizione della maggioranza per quanto riguarda l’equa soddisfazione da accordare ai ricorrenti.
  2. La maggioranza ritiene, per quanto riguarda il danno morale, che i ricorrenti «abbiano subito una reale perdita di chance», e che, «se non si fosse prodotta alcuna violazione della Convenzione, la [loro] situazione sarebbe stata verosimilmente diversa, dal momento che sarebbe stato possibile riconoscere loro il diritto all’adeguamento dello stipendio» (paragrafo 39 della sentenza).
  3. A nostro avviso i ricorrenti non hanno soltanto perduto delle «chance»: essi hanno perduto il beneficio di una decisione giudiziaria reale, quella del tribunale amministrativo regionale di Salerno del 6 dicembre 1995, che accolse la loro istanza e che riconobbe il loro diritto all’adeguamento retributivo. Questa sentenza non è stata annullata. Del resto, il ricorso del Consiglio dei Ministri avverso questa sentenza è stato rigettato (con la sentenza del Consiglio di Stato del 6 maggio 2006). La sentenza aveva autorità di cosa giudicata sostanziale (secondo l’articolo 2909 del codice civile italiano), e ciò a cui avevano diritto i ricorrenti era chiaro per tutti.
  4. Tuttavia, nel frattempo, il legislatore era intervenuto tramite l’adozione dell’articolo 50, comma 4, della legge n. 388 del 23 dicembre 2000. Secondo questa norma di legge, i trattamenti dei magistrati dovevano essere generalmente rivisti. La norma di legge sulla quale i ricorrenti avevano basato la loro richiesta fu abrogata, con effetto retroattivo. Le sentenze che avevano riconosciuto ad alcuni magistrati, in particolare ai ricorrenti, il diritto all’adeguamento retributivo secondo il vecchio sistema, perdevano il loro carattere esecutivo, e non potevano più essere eseguite.
  5. Gli effetti di questo intervento legislativo si sono fatti sentire quando i ricorrenti hanno avviato la procedura di esecuzione della sentenza emessa nel 1995. In primo grado, il tribunale amministrativo della Campania ritenne che la sentenza del 1995 avesse acquisito valore di cosa giudicata formale, secondo l’articolo 324 del codice di procedura civile al massimo il 28 aprile 1997, e che secondo i principi applicabili era al riparo da qualsiasi intervento del legislatore. Tuttavia, su ricorso dell’amministrazione, il Consiglio di Stato decise che la sentenza del 1995 non era ancora passata in giudicato al momento dell’entrata in vigore della legge n. 388/2000, e che l’articolo 50 di tale legge era ancora applicabile.
  6. Risulta, secondo noi, che i ricorrenti hanno subito un danno ben preciso: essi hanno perduto il beneficio dell’adeguamento retributivo che è stato riconosciuto con la sentenza del 1995. È per questa ragione che riteniamo che la Corte dovrebbe accordare loro un’equa soddisfazione per un importo equivalente al valore dell’adeguamento della loro retribuzione così come è stato riconosciuto. Il periodo da prendere in considerazione sarebbe quello durante il quale si è fatto sentire l’effetto retroattivo della legge n. 388/2000, ossia dopo il deposito della sentenza del 1995 e fino alla data di entrata in vigore della suddetta legge. Agli importi mensili dovrebbero aggiungersi gli interessi di mora calcolati secondo il tasso legale vigente.
  7. Procedere al calcolo esatto degli importi che, secondo noi, dovrebbero essere accordati è privo di interesse nel quadro della presente opinione dissenziente. Senza esserne certi, supponiamo che questi importi siano più elevati di quelli effettivamente accordati dalla Corte. È per questa ragione che abbiamo votato contro il punto 4 del dispositivo.