Il rischio che la pena si trasformi in delitto - M.Ruotolo - Ristretti orizzonti 3/2015

Marco Ruotolo, docente di Diritto costituzionale, parla del senso della pena, legandolo al concetto di dignità e di possibilità di esprimere la propria personalità: “Per negare il delitto attraverso la pena è necessario che quest’ultima sia conforme al diritto, anzitutto rispettosa della dignità del detenuto e idonea a consentire l’espressione della sua personalità anche in vista del reinserimento sociale. Altrimenti è la pena stessa a trasformarsi in delitto, in quanto contraria al diritto”. Ma nel dialogo con le persone detenute emerge la testimonianza di un carcere che invece, sempre più spesso, la personalità la comprime fino ad annullarla.Il rischio che la pena si trasformi in delitto
 

I "pre-giudizi"penitenziari - Il carcere, che dovrebbe essere il luogo del post-giudizio, dell’esecuzione della condanna, ci appare sempre più il luogo del pre-giudizio. Non solo perché in carcere si finisce spesso prima del giudizio definitivo (nella forma della custodia cautelare), ma perché non riesce a passare l’idea che, anche dopo la sentenza di condanna, ad entrare in carcere è la persona e non il reato che ha commesso.
Proprio sui pre-giudizi – chiaramente evocati nel titolo pirandelliano del nostro incontro (prima di giudicare la mia vita metti le mie scarpe) - vorrei soffermarmi nella prima parte del mio intervento.
Il pre-giudizio si annida già nell’idea stessa di pena, nella antica discussione circa la sua funzione retributiva (del male commesso) o preventiva (nel senso di rivolta a prevenire la reiterazione del reato, a permettere la risocializzazione del reo). Ed è spesso in base all’adesione all’una o all’altra idea di pena che si valutano le specifiche previsioni normative riguardanti la sua esecuzione o la sua stessa astratta previsione. Il Costituente cercò di sciogliere il dilemma nella nota formula dell’art. 27 Cost.: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un compromesso che traduceva palesemente il tentativo di porsi fuori dalla polemica tra pena-retributiva e pena-preventiva e dai relativi presupposti ideologici, che avevano trovato affermazione in contrapposte Scuole di pensiero del diritto penale (Scuola Classica e Scuola positiva). In base all’art. 27 Cost. si dovrebbe infatti escludere sia la natura esclusivamente retributiva sia la natura esclusivamente preventiva della pena. Come ha scritto un noto penalista (F. Mantovani), la pena sembra presentare, alla luce del dettato costituzionale, natura “retributivo-generalpreventiva”, essendo da un lato edittalmente fissata in proporzione alla gravità del reato, dall’altro concretamente determinata in ragione delle esigenze risocializzative del soggetto.
Il finalismo rieducativo non è insomma un mero accessorio, ma elemento qualificante della pena, dalla sua astratta previsione alla sua concreta esecuzione. Il fatto che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” si traduce, dunque, in un obbligo che grava tanto sul legislatore, quanto sul giudice (sia della cognizione sia dell’esecuzione) e sull’amministrazione penitenziaria (sent. n. 303/1990 della Corte costituzionale.). Altrettanto significativa è la pretesa di un trattamento conforme al senso di umanità, che implica il necessario rispetto della personalità, della dignità del detenuto. Queste non sono vuote formule, ma sono statuizioni che implicano precise conseguenze giuridiche, la prima delle quali è il necessario rispetto e la concreta possibilità di esercizio di tutti quei diritti che non siano incompatibili con lo stato di detenzione e con le esigenze di ordine del carcere. Come ha scritto la Corte costituzionale nella sent. n. 349 del 1993, «chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale».
Anche qui, invece, si annida spesso un pregiudizio, che vuole il detenuto privato di tutti i suoi diritti e non solo della libertà di locomozione. La prospettiva non può che essere invertita – come richiede la Costituzione, la legge penitenziaria e i più importanti documenti internazionali sui diritti umani –: tutte le restrizioni all’esercizio dei diritti che non siano puntualmente giustificate da esigenze di ordine e sicurezza devono ritenersi contrarie alla previsione dell’art. 27 Cost. Lo sviluppo della personalità di ciascuno si rende possibile principalmente attraverso l’esercizio dei diritti e la rimozione degli ostacoli che si frappongano alla piena espressione delle potenzialità di ciascuno. Ai sensi degli artt. 2 e 3 della Cost. ciò vale per tutti, senza distinzioni di sorta. E, con riguardo ai detenuti, ha riscontrati effetti benefici sul piano del positivo reinserimento sociale. Basti guardare ai dati sul tasso di recidiva che cala sensibilmente per quei detenuti che abbiano avuto la possibilità, nel corso dell’espiazione della pena, di svolgere attività di formazione, lavorative e culturali. Perché? La ragione a mio giudizio è semplice e sta nel fatto che quei detenuti hanno avuto la possibilità di riappropriarsi della vita, di sviluppare la propria personalità, di assumersi responsabilità.
Una pena che non permetta al detenuto di assumersi le sue responsabilità, trattandolo come un infante, è una pena che non serve a nulla o meglio che non serve all’obiettivo costituzionale del reinserimento sociale. Rende il detenuto vittima, contribuisce a trasformare la pena del delitto nel delitto della pena o, se volete, la pena del misfatto nel misfatto della pena. A chi e a cosa serve tutto ciò? A rassicurare il sentimento di chi vorrebbe che la pena si traduca nel gettare via la chiave per tutta la durata della sua espiazione, non già a chi vuole che la pena contribuisca a produrre una società più sicura. Mi sembra banale ma forse è utile sottolineare che la sicurezza è certamente meglio garantita se il soggetto che sconta la pena è messo nelle condizioni di non ricadere nel reato. Eppure è proprio in quest’ambito - quello della sicurezza – che si annidano importanti pre-giudizi. È in nome della sicurezza che si invoca una sempre maggiore penalizzazione (abbiamo superato la soglia di 35.000 fattispecie incriminatrici!), che si contesta ogni tentativo di depenalizzazione dei reati minori o meglio di applicazione di pene alternative al carcere. Anche qui scatta un pre-giudizio che identifica la pena con il carcere. Non sono forse pene anche quelle alternative al carcere? Non sono sanzioni l’affidamento in prova al servizio sociale o la detenzione domiciliare? Dovremmo piuttosto pretendere che le sanzioni alternative siano effettive, che le modalità con le quali debbono essere espiate siano idonee ad assicurare le funzioni sia di reinserimento sociale sia di retribuzione. Il fatto che ciò non sempre accada (specie per i personaggi noti) non può indurre a sottovalutare le potenzialità di queste sanzioni. E non dimentichiamo, per favore, che quando la Costituzione pretende il trattamento conforme al senso di umanità e la tendenza alla rieducazione declina il termine pena al plurale. Sono le pene e non solo il carcere che il nostro Costituente ha ritenuto idonee a svolgere le predette funzioni. E poi non guasterebbe tornare a parlare più della sicurezza dei diritti che non del diritto alla sicurezza. Se guardiamo a chi sta in carcere e per quali reati potremmo avere la migliore dimostrazione del fallimento delle politiche sociali nel nostro Paese e il riscontro dei danni che l’arretramento su questo piano è in grado di determinare anche con riguardo alla commissione dei reati.
Perché la pena affermi il diritto è necessario che la sua esecuzione sia conforme al diritto - La sicurezza dei diritti è tema che riguarda non solo la società libera ma anche la comunità penitenziaria. Assicurare l’effettiva possibilità di esercizio dei diritti da parte dei detenuti, così come pretendere l’adempimento dei doveri che su di loro  incombono, è compito fondamentale dei soggetti preposti all’esecuzione della pena. Ad entrare in campo è il concetto di legalità, che non può rimanere fuori dalle mura degli istituti penitenziari. Il carcere deve essere il luogo della legalità, almeno se si crede che possa essere strumento per la ricostruzione di un legame sociale che si presume essere stato interrotto dalla commissione del reato. Come ha scritto Valerio Onida, “pur con tutte le difficoltà che le situazioni di fatto possono offrire, è essenziale mantenere chiaro – e battersi per attuarlo – il principio per cui il carcere non deve essere luogo di sopraffazione o degradazione della personalità, ma luogo in cui persone, rispettate come tali, scontano una pena legalmente inflitta, sono messe in grado di cercare e di percorrere la via del loro riscatto e del loro reingresso nella comunità dei liberi. È necessario, prima di tutto, crederci. La legalità, e la cultura della legalità, sono una premessa perché ciò possa avvenire”.
Questo punto è essenziale se ci poniamo in una prospettiva che guarda alla pena come strumento per l’affermazione del diritto. Hegel scriveva che il delitto nega il diritto, la pena nega il delitto e quindi la pena afferma il diritto. E’ un’equazione che merita di essere precisata, se volete integrata, nei seguenti termini: perché la pena affermi il diritto è necessario che la sua esecuzione sia conforme al diritto! Se il fine della pena non è solo quella della retribuzione, si deve pretendere che sia idonea a consentire l’espressione della personalità del detenuto anche in vista del reinserimento sociale. Il che vuol dire – lo ripeto – non solo vietare i trattamenti inumani e degradanti, ma assicurare la possibilità di esercizio dei diritti, con conseguente predisposizione, tra l’altro, di strumenti idonei di tutela giurisdizionale ove ciò non accada.
Il diritto violato dal delitto non giustifica mai una sua ulteriore violazione, come invece sembra auspicare chi ritiene che nei confronti del colpevole debba riprodursi il modello dell’arbitrio e della forza che spesso proprio nel delitto si manifesta (Onida). Questo dobbiamo pretendere se è vero che il carcere è (deve essere) luogo della legalità, pena legale (e non arbitraria) per un delitto.
Mi avvio alla conclusione, proponendo qualche riflessione sul ruolo del giornalista rispetto alla trattazione delle questioni penitenziarie e più in generale giudiziarie, sul modo in cui può contribuire alla rimozione dei predetti pregiudizi. È tema ampio e delicato, che coinvolge da vicino la questione del rispetto della dignità della persona detenuta o anche solo indagata.
Su questo tema c’è un’ottima relazione del Prof. Giostra, reperibile in rete, dal titolo “Processo penale e mass media”, che mette a fuoco i principali problemi del giornalismo giudiziario (relazione che segue la monografia del 1989 su “Processo penale e informazione”) e che in parte riprenderò nelle mie sintetiche osservazioni sul punto.
L’orizzonte culturale lungo il quale si muove il lavoro di Giostra è da me pienamente condiviso, così come le preoccupazioni determinate dal crescente favor per il processo celebrato sui mezzi di informazione. Un processo che tende a confondersi, nella percezione dell’opinione pubblica, con il processo giurisdizionale, come se fosse appunto il processo mediatico, con i suoi modi, tempi e linguaggi, ad essere il “vero” processo. Al tempo lungo del processo giurisdizionale si contrappone il tempo (spesso) breve del processo mediatico: la notizia di ieri rischia di essere deteriorata da quella di oggi e resa effimera da quella di domani. Occorre sapere tutto e subito, per cui l’informazione acquisita (per lo più da fonti giudiziarie) è proposta spesso come verità accertata. È un gioco delle parti. L’una, la fonte, è portata a giustificare la “fuga di notizie” in nome della trasparenza, l’altra, il giornalista, a motivare la tempestiva diffusione in nome del dovere di pubblicare tutto ciò di cui viene a conoscenza. Ragioni spesso apparenti dietro le quali possono celarsi, rispettivamente, esigenze di auto legittimazione (più evidenti rispetto
mediatico) alterando pure il significato dei termini del vero processo: informazione di garanzia=imputazione; rinvio a giudizio=condanna di primo grado; misura cautelare in carcere=esecuzione di pena. A questa percezione, mirabilmente descritta da Giostra, contribuisce pure il processo vero, la cui durata finisce per determinare una diversa equazione, facendoci spesso dire che la pena si identifica con il processo. Non solo: il tempo lungo del processo favorisce l’applicazione della prescrizione, che sembra ergersi a misura clemenziale nascosta!
Non vorrei, a questo punto, essere travisato. Da costituzionalista so bene quale sia l’importanza della libertà di stampa, della libertà di pensiero. So che la democrazia si regge sulla conoscenza, sulla capacità di sviluppare un pensiero critico. Di più: so quanto sia importante l’educazione, la sua diffusione, il suo perfezionamento – che giustamente Beccaria considerava il migliore ma più difficile modo per prevenire i delitti -. Sappiamo tutti che la criminalità, la delinquenza, attecchisce meglio in un contesto culturalmente arretrato. Più facile in una simile situazione è il trionfo dell’impostore, sia pure in presenza di un contesto apparentemente democratico, segnato dal consenso popolare espresso attraverso il voto. Anche qui viene in soccorso Beccaria: «un ardito impostore (…) ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato»!
Assai meglio, insomma, un giornalismo fazioso, purché plurale, che un giornalismo di regime. Come ha scritto Giostra, l’unico antidoto ad un’informazione inadeguata o manipolatrice delle coscienze è un’informazione libera e plurale, è il “pluralismo delle faziosità”!
Non si può pensare di cancellare i mali della libertà di stampa comprimendola. Si inietterebbe nel sistema un virus in grado di produrre mali maggiori di quelli che si intende debellare. Il principio della massima espansione delle libertà – sotteso alle disposizioni costituzionali in tema di diritti – non potrebbe mai tollerare che in nome della maggiore fruizione di un diritto (ad es. alla riservatezza) un altro venga completamente sacrificato. La logica del bilanciamento tra i diritti costituzionali non può mai giustificare il superamento del punto che determini il totale sacrificio di uno degli interessi in gioco.
La divulgazione deve essere l’esito di un vaglio critico, altrimenti il giornalista finisce per essere mero megafono della sua fonte, incapace di apprezzare e interpretare le notizie che riceve, peraltro quasi mai in modo disinteressato -  Cosa fare, allora? Di nuovo la cultura, la diffusione della conoscenza è l’antidoto migliore ad un’informazione inadeguata. Questa volta nei termini di una specifica attrezzatura culturale del giornalista, che se intende operare in ambito giudiziario non può non avere un’adeguata cultura giuridica. Bisogna pretenderlo nell’interesse del lettore, ma anche, per così dire, nell’interesse della categoria. La divulgazione deve essere l’esito di un vaglio critico, altrimenti il giornalista finisce per essere mero megafono della sua fonte, incapace di apprezzare e interpretare le notizie che riceve, peraltro quasi mai in modo disinteressato. Se non si possiede questa capacità critica – agevolata da una solida preparazione giuridica – le pur importanti regole deontologiche servono a ben poco. Se viceversa la si possiede, quelle regole (penso anzitutto a quelle contenute nella Carta di Milano) serviranno a molto, riuscendo più facilmente ad attecchire in un contesto che comunque non può che rimanere plurale. Regole condivise in quanto non limitative della libertà e della conseguente diversità delle opinioni. Una diversità che va protetta e valorizzata contro il conformismo dilagante, accettando il rischio di rimanere tra i pochi e di esser sempre meno tollerati. Provando, magari, a mettere in discussione i propri pre-giudizi, a mettere le scarpe di chi si intende giudicare, a ripercorrere il cammino che ha percorso. Conservando sempre una sana incredulità, premessa essenziale per un sincero esercizio della facoltà di critica. Come ha scritto un altro grande siciliano, Leonardo Sciascia, “I devoti di ogni devozione, son tanti; e sempre pronti ad accendere il fuoco sotto chi non si conforma alla loro devozione; e gli increduli, coloro che su ogni cosa esercitano la facoltà di critica, che nulla accettano se non per vaglio di ragione, son pochi e non tollerati”.
È proprio quella incredulità a permetterci di valutare criticamente il percorso di chi pretendiamo di giudicare, cercando di comprendere (il che non vuol dire giustificare) le ragioni della sua caduta e di apprezzare meglio il tentativo di rialzarsi, ove effettivamente compiuto. Magari anche rispettando – come proprio la Carta di Milano invita a fare – il diritto all’oblio di chi con grande sforzo è riuscito a rialzarsi, a reinserirsi nella società.
(Intervento del prof. Ruotolo al seminario di formazione per giornalisti organizzato dalla redazione di Ristretti  orizzonti e dall'Ordine giornalisti del Veneto il 20 gennaio 2015 e pubblicato sul n.3/ 2015 di Ristretti orizzonti).