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Commissione Riccio - per la riforma del codice di procedura penale (27 luglio 2006) - Relazione

Sommario

  1. La genesi della riforma in senso accusatorio del codice di procedura penale
  2. Il primo approccio ai nuovi bisogni di riforma del codice
  3. Le ragioni della scelta a favore della legge-delega
  4. La modifica genetica del processo e le più recenti cause della crisi della giustizia
  5. Le ragioni di natura “politica” ed il nuovo art. 111 della Costituzione
  6. La “deriva giudiziaria” quale effetto delle decisioni della Corte europea dei Diritti dell’Uomo
  7. L’acculturamento sulle categorie fondamentali del processo quale premessa ontologica dell’opera riformista
  8. Le linee generali del nuovo impegno di riforma
  9. Il valore garantista delle regole per il processo
  10. Il modello logico “potere-atto-scopo” quale premessa per la determinazione del sistema sanzionatorio processuale penale
  11. La prescrizione processuale
  12. La giurisdizione
  13. Gli atti
  14. La prova
  15. La libertà personale
  16. Le indagini preliminari
  17. Il coordinamento investigativo
  18. Azione penale ed archiviazione
  19. L'udienza di conclusione delle indagini
  20. Le implicazioni decisorie: applicazione di pena concordata e condanna su richiesta
  21. I giudizi: il dibattimento
  22. Le altre forme di giudizio: considerazioni preliminari
  23. Il giudizio abbreviato
  24. Le citazioni dirette
  25. Il procedimento per decreto
  26. Il procedimento innanzi al Tribunale per i minorenni
  27. Il procedimento innanzi al giudice di pace
  28. Il regime delle impugnazioni
  29. Il giudice della pena
  30. I rapporti giurisdizionali con autorità straniere: princìpi generali in tema di cooperazione a fini di giustizia penale
  31. L'assistenza giudiziaria
  32. L'estradizione
  33. Il riconoscimento di sentenze penali di altri Stati ed esecuzione all'estero di sentenze penali italiane
  34. L'attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei rapporti con gli altri Stati membri dell'Unione europea  

 

1. La genesi della riforma in senso accusatorio del Codice di Procedura penale

La riforma – alla fine degli anni ‘80 – del Codice di Procedura penale – pur in un clima di resistenza istruttoria soprattutto da parte di taluni “operatori” – realizzò un’opera rivoluzionaria nella misura in cui realizzò la netta rottura con una tradizione ultracentenaria di continuità inquisitoria.

Ebbene, ripercorrere le tappe di quell’itinerario riformista – sia pure in sintesi – può sembrare eccessivo e superfluo in questa sede, rivolta ad una radicale revisione di quel Codice e, quindi, concentrata sul rilevamento delle cause strutturali del suo “fallimento”. Epperò, mettere a fuoco quel percorso, il dibattito che lo sosteneva e le consequenziali realizzazioni normative appare utile – non solo in punto di metodo – per cogliere lo stato della cultura giuridica sul tema e le radici di talune resistenze sull’opera in corso.

Avvertito immediatamente dopo l’emanazione della Costituzione, il bisogno riformista era sostenuto da una situazione intellettuale che alimentava le esigenze del “garantismo difensivo” e da una Corte costituzionale, che sin dai primi anni di vita, non perdeva occasione per segnalare l’eccessiva fragilità del tasso di tutela dell’individuo nel processo penale e la incerta presenza dei modi di esercizio dei diritti procedurali dell’imputato.
Invero l’impatto del Codice del 1930 con la Costituzione – alla fine degli anni ‘40 – fu devastante ed avviò riflessioni “parallele” sulla funzione del processo e sulla necessità di por mano alla modifica delle strutture per la realizzazione dei diritti della persona imposte dall’entrata in vigore del nuovo Statuto; invertendo, questo, il rapporto Stato-individuo, eguale inversione doveva essere realizzata per tutelare nell’ordito codicistico le situazioni soggettive procedurali.
Peraltro, l’idea di riscrivere il Codice di rito penale nacque, anche, dall’attribuzione allo Stato di compiti solidaristici. La Costituzione, approdata all’idea secondo la quale lo Stato “riconosce” i diritti di cui è portatore l’individuo, segnò, nella sua prima parte, le garanzie minime per la tutela della persona nel processo penale, che la dottrina successiva portò ad unità razionale racchiusa nella formula “Preambolo penalistico della Costituzione”; formula che raccoglie le singole componenti costituzionali per costruire – e riconoscere – la filosofia di sintesi del sistema che l’Assemblea aveva coltivato.
Specificamente per quanto riguarda il Preambolo penalistico, invero, sin dai primi anni di emersione della sua funzione di sintesi dell’impegno del Costituente sui temi della procedura penale, risultò evidente: che esso manifesta una netta predilezione per il processo accusatorio contro quello inquisitorio allora vigente; che privilegia il processo partecipato contro il processo monologico del giudice; che predispone il metodo dialogico non quello monologico e che, quindi, il contraddittorio è (= deve essere) metodo cognitivo irrinunciabile nella e per la giurisdizione; che le garanzie della persona sono (= devono essere) la premessa del processo e l’obiettivo per il legislatore.
Peraltro va annotato che su questo terreno la Costituzione si riconosce nel pensiero liberale della Scuola classica. Invero, a leggere, tra altre, le pagine di Francesco Carrara è decisa la denunzia «per l’”insano” consenso alla legislazione francese» dell’epoca di un insopportabile arretramento, nel codice di procedura penale, delle guarentigie di difesa, che capovolgeva la funzione stessa della procedura penale ed il senso della scienza processuale, precipuamente rivolta alla «protezione del diritto in tutti ed avverso tutti; e così anche il diritto del suddito in faccia al legislatore: ed il diritto del suddito, tanto se egli è innocente, quanto se egli è colpevole: perché anche il colpevole per essere tale non ha perduto la sua personalità giuridica; e la sua colpa lascia permanente in lui il diritto di non essere punito oltre il giusto».
Dalla “antitesi” delle due situazioni riferite, il Carrara ricavava la forza garantista della procedura penale «quando prescrive stretta adesione alle competenze; leale, completa, e tempestiva contestazione dell’accusa; temperanza nella custodia preventiva; pienezza di prove; cautele per la veridicità dei testimoni; condizioni per la legalità delle confessioni; ostracismo di ogni suggesto, di ogni frode, di ogni subdolo artifizio che possa dare al falso la sembianza del vero; critica imparziale nella valutazione degli indizi; liberissimo campo all’esercizio del patronato; favori per la difesa; forme sacramentali per la sentenza; rimedii di appello o di revisione; in una parola, da capo a fondo in quanto essa comanda come assoluta condizione di legittimità del procedimento, e del giudizio».
Sicché, il capovolgimento della premessa filosofica tra diritto e procedura rappresenta la ratio del giure penale, essendo esso rivolto ad affermare «la eccezionale qualità di colpevole in alcuno; e la necessità dell’affermazione conduce alla necessità di un affermatore».
Peraltro, questa dimensione filosofica della procedura ed il fine politico delle forme procedurali acquistano convergente direzione – anche rispetto al ruolo del giure penale – di rasserenare “la fiducia pubblica” intorno alla giustizia del giudicato, che non è altro che «la fiducia nella sapienza ed integrità dell’uomo che giudicò, e questa può non aversi da tutti; ma quando le forme furono osservate, la fiducia pubblica ha un cardine razionale in siffatta osservanza».
Emerge, così, nel pensiero di Carrara – in forma embrionale – il ruolo sociale della legalità del processo, che condivide la dimensione garantista del rito procedurale con la presunzione di non colpevolezza.
In siffatto contesto assumono significativa pregnanza i temi della imputazione, della contestazione dell’accusa e della prova, che costituiscono, poi, la spia del sistema a cui Carrara aderiva, e, allo stesso tempo, la originalità del suo pensiero in materia. Esemplificando, quanto alla imputazione, il Carrara soleva dire che «nel cerchio del fallo commesso [dal reo;] e nel rapporto della meritata repressione costui è un colpevole; ma rispetto al di più di colpa che gli si vuole apporre, o al di più di castigo che a lui vuolsi infliggere, esso è innocente, ed in questa sua innocenza relativa ha sacro il diritto ad essere difeso; e fa opera di giustizia chi lo protegge». Per cui «lo studio delle regole relative alla più esatta definizione del titolo, niente giovando a sottrarre il delinquente dalla pena veramente meritata, saranno dettate e praticamente invocate a protezione di un colpevole, ma per proteggerlo nella fase della sua innocenza relativa».
L’Autore delinea, così, i momenti essenziali del giudizio penale, negli atti che, sotto uno od altro norme o forma, debbono ritrovarsi sempre nel giudizio penale: la contestazione dell’accusa; la prova; la difesa, la sentenza; condizioni essenziali alla riforma del giudizio in qualsiasi metodo esso si manifesti e che «rispondono ai quattro atti essenziali che sono impenetrabili in ogni ricerca che voglia istituirsi in conformità della buona logica – 1° esporre il dubbio – 2° raccogliere gli argomenti che possono chiarire il vero – 3° discutere gli argomenti raccolti – 4° decidere».
In questo insieme acquista sostanza la legalità delle forme. E nella progressione logica e sistematica dei quattro momenti del giudizio Carrara intravede altrettanta progressiva strumentalità, essendo, il primo contenuto e limite dell’ultimo.
Peraltro, nella versione carrariana, la contestazione dell’accusa è «la concertazione e manifestazione del problema presentato alla giustizia», momento imprescindibile che caratterizza il sistema.
La contestazione dell’accusa, cioè, «(affinché non si converta in una farisaica simulazione di rito) deve aver sempre due condizioni – 1° deve essere completa – 2° deve essere tempestiva», perché necessaria al «fine di mettere in grado l’imputato di esercitare utilmente il diritto di difesa, senza la quale mai può aversi fidanza che il giudizio criminale abbia condotto al conoscimento della verità, la quale interessa non solo al giudicabile, ma tutta la società; ed è così di ordine pubblico primario». E perciò, per Carrara, “la utilità della contestazione risiede nel fatto che essa contenga tutte le condizioni indispensabili affinché l’imputato possa opporre efficacemente i suoi mezzi defensionali a conflittare i mezzi introdotti contro di lui dall’accusa.
Dalla specificazione del contenuto, dunque, si ricava la oggettiva centralità della imputazione, intesa come descrittiva specificazione del fatto del quale il soggetto viene accusato.
Perciò, completezza della accusa e tempestività della contestazione risultano essere le caratteristiche di essenza del sistema probatorio e «[P]roclamando come necessità la prova anche nei giudizi penali, onerando di tal prova l’attore, ed elevando a dogma scientifico e pratico anche in criminale la regola actore non probante reus adsolvendus […], non lice più dubitare che la prova sia uno degli atti essenziali di cui non può fare a meno il giudizio penale. Può questo fatto della prova riuscire incompleto, ed il risultato del giudizio sarà allora l’assoluzione. Ma supporre un giudizio senza neppure un tentativo di prova, sarebbe un assunto ridicolo».
In questa circolarità tra imputazione, contestazione e prova si coglie la originalità del pensiero carrariano in materia di procedura penale. La interrelazione tra prova e giudizio – oltrechè tra accusa e difesa – connota, poi, la Scienza della Procedura di Francesco Carrara di una singolare e stupefacente modernità, spesso sottovalutate se non – addirittura – ignorata da molti autori moderni e contemporanei.
Questo humus – reso principio di essenza del nuovo Stato democratico e Repubblicano – alimentò la riforma del 1988, sostenuta da un confluente dibattito sul “garantismo difensivo”, che vinse la cultura “istruttoria”, ancora presente nel Paese, con un processo il cui punto di resistenza democratica fu costituito, appunto, dalla “regola per il giudizio”.
In retrospettiva, poi, bisogna rilevare che il capovolgimento del rapporto tra Costituzione e Codice – che storicamente ha visto la preventiva nascita di questo e, quindi, una sua successiva opera di adeguamento ai dettati costituzionali – si alimentò attraverso dubbi di illegittimità, operazione ermeneutica spesso metodologicamente compromessa dal vecchio approccio ai temi processuali.
Storicamente l’operazione si giustificava, rispetto al codice del 1930, perché lì viveva una presunzione di illegittimità costituzionale, prima, della disposizioni più marcatamente in disaccordo con la Carta e, poi, di tutto il sistema. Epperò, il fenomeno si è riproposto e – stranamente – aggravato con il nuovo Codice di Procedura penale – quello oggi in vigore – nonostante la presunzione opposta – di legittimità costituzionale – letteralmente programmata nel preambolo dell’art. 2 della legge-delega del 1987.
Ed è questa una delle caratteristiche costanti dell’esperienza processuale penale nel nostro Paese, che eleva – in questo settore – la Corte costituzionale a ruolo comprimario con il Parlamento, soprattutto quando essa, considerando i tempi della legislazione, si “avventura” sul terreno delle pronunce additive. Questa specifica funzione “politica” della Corte ed i compiti via via assunti da “giudice delle leggi” a “giudice dei diritti” la pongono al centro dell’attenzione riformatrice, non solo perché è indispensabile raccogliere gli indirizzi da essa espressi, ma anche – in prevenzione – per evitare debordamenti dalla semantica dei principi dalla stessa messa a punto.
E, dunque, se, storicamente, con la promulgazione della Costituzione entrò in crisi la filosofia del processo e, con essa, l’idea stessa di processo con istruzione e, quindi, la struttura stessa adottata nel 1930, il tema oggi è solo parzialmente difforme, anche se il Codice del 1988 realizzò un tendenziale processo di parti ed una struttura accusatoria garantita da disomogeneità fasica e dalla tendenziale centralità del giudizio.
E dunque, ricostruire le tappe di questo itinerario sessantennale significa cogliere – nei diversi contesti sociali e giuridici – le ragioni della riforma del 1987-89 e, contestualmente, la permanenza della sua filosofia e della sua struttura generale, non dei microsistemi che hanno prodotto la crisi di sistema attualmente rilevata.
Ebbene, negli anni ‘60 e ‘70 l’attenzione riformista non poteva che concentrarsi sulle linee strutturali del processo, via via prendendo atto della inconsistenza e della parzialità operativa della paventata riforma solo dell’istruzione, rivolta a garantire la presenza delle parti alle attività istruttorie, non essendo questo il luogo deputato alla dialettica probatoria, qualunque ne sia l’ “attore” e costituendo essa la mortificazione funzionale del dibattimento, relegato così a compiti residuali. Ed anche quando si faceva strada l’idea secondo cui le attività “istruttorie” avrebbero dovuto costituire appannaggio del pubblico ministero e si sarebbero dovute svolgere in contraddittorio con la difesa dell’imputato, pure allora si avvertì il senso di impotenza del dibattimento e la totale discrasia del “progetto” con più incisive e radicali proposte innovative, quale quella espressa nella cd. “bozza Carnelutti”, che ipotizzava la recisione dei rapporti tra dibattimento e fase ad esso precedente. Secondo tale ultima proposta, infatti, qualsiasi riforma avrebbe dovuto prendere le mosse da una ridefinizione dei ruoli processuali, necessaria a distinguere le attività “processuali” da quelle “procedimentali”.
Perciò, se, all’inizio, il variegato panorama di posizioni culturali e di orientamenti politici rendevano palese il bisogno di ammodernamento del processo al fine di rendere reali ed efficaci le garanzie dell’imputato – esigenze molto ben sintetizzate, ad esempio, nel Convegno svolto a Bellagio nell’aprile del 1953 – col tempo si manifestarono le due sponde del problema: da una parte si auspicava una riforma dell’istruzione di tipo accusatorio; dall’altra si sottolineava che l’efficacia del processo di cognizione dipende in prima linea dal rispetto della distinzione tra il giudice e le parti e che nel processo penale è “collaborante” con il giudice non solo il pubblico ministero ma anche il difensore.
Di qui la doppia strada: della novellazione – percorsa soprattutto sotto la spinta della Corte costituzionale – e della “riforma”, che si avviava sull’impervio cammino delle radicali modifiche di struttura, condizione indispensabile per la reale operatività dei diritti procedurali dell’individuo.
Sul primo fronte, la prima significativa riforma si ebbe con la “novella” 18.6.1955, n. 517, nel segno dell’abbandono delle scelte più illiberali del c.p.p. 1930 (soprattutto in tema di rapporti tra polizia giudiziaria e autorità giudiziaria, di libertà personale, di invalidità processuale, di impugnazioni, valorizzatrice di un deciso rafforzamento dell’autodifesa e della difesa tecnica).
Sul secondo, la dottrina più avvertita della nuova sensibilità costituzionale contrastava la pretesa intangibilità del processo con istruzione; tutta proiettata sul bisogno di effettività della giurisdizione. Essa ontologicamente negava ingresso ai diritti di difesa, di prova, di contraddittorio e, quindi, ad un “processo di parti”, che viceversa costituiva la non condivisa aspirazione della cultura giuridica post-costituzionale e, allo stesso tempo, la strada obbligata per la realizzazione del disegno costituzionale in materia.
Ma per realizzare tale progetto bisognava superare, dal punto di vista soggettivo, la concezione del pubblico ministero-parte imparziale e, dal punto di vista oggettivo, la pretesa prevalenza della potestà punitiva dello Stato – anche in chiave di difesa sociale – rispetto ai bisogni di tutela dell’individuo. La resistenza di questa idea – attestata sulla funzione allora attribuita al processo penale quale luogo privilegiato per la effettività della giurisdizione, a cui si attribuivano compiti di “lotta” al crimine; e ciò legittimava la predominanza del giudice-istruttore e la segretezza della fase di raccolta della prova – coltivava la convinzione secondo cui la tutela dell’individuo non collidesse con la struttura del processo con istruzione.
L’inversione di siffatta tendenza culturale fu affidata a due slogans, che, a distanza di tempo, rappresentano ancora oggi lo humus della cultura giuridica contemporanea: “una nuova struttura per i diritti procedurali” e “contraddittorio per la prova, non sulla prova”. Le formule costituirono, allora, la sintesi del passaggio dal diritto ai diritti e la premessa ontologica e pregiuridica del progressivo accantonamento del processo con istruzione.
Fu proprio la “bozza Carnelutti” a veicolare il versante normativo della nuova idea di processo ed a mettere in crisi la coeva cultura processuale maggioritaria. E se, all’epoca, il processo lì ipotizzato fu considerato come un’eccessiva fuga in avanti, tuttavia la “bozza” servì a “stanare” la resistente cultura istruttoria e, col tempo, ad evidenziare la progressiva debolezza e la inconciliabilità tra strutture inquisitorie e diritti della persona secondo una nuova filosofia democratica e solidaristica. Ne è testimonianza il fallimento del Progetto del 1978; che, però, non ebbe seguito perché ibrido nella struttura, debole nelle soluzioni operative, inattuale rispetto alle esperienze maturate anche sul fronte della coeva “legislazione dell’emergenza”.
L’abbandono di quel Progetto non arrestò il lento cammino riformista; anzi, di quella esperienza, rimane – ancora oggi attuale – il punto politico della questione manifestato nel preambolo dell’art. 2 della legge-delega dell’8 aprile 1974: “attuare la Costituzione; uniformarsi alle leggi sovranazionali; attuare il sistema accusatorio”. 
 

2. Il primo approccio ai nuovi bisogni di riforma del Codice
La storicizzazione di questo programma – non compiutamente realizzato con il Codice del 1988 – è la premessa del nuovo progetto riformista. E se oggi non ci si domanda più se il codice di fine anni ‘80 determinò la radicale modifica di struttura per dare vita all'effettivo e reale esercizio dei diritti della persona e per modulare il contraddittorio sulla prova, non può negarsi che – certo non per colpa di chi ne fu intelligente artefice – esso, sul piano sociale, non ha invertito il trend della perenne crisi della Giustizia. Non può negarsi, invero, che esso fu “tradito” su più piani, qui evocabili solo per titoli, anche quali opportuni indirizzi di futuri impegni: l'abbandono della direttiva di delega che ne prevedeva due anni di sperimentazione; la resistenza, non solo culturale, rispetto ad un prodotto che interrompeva una continuità “istruttoria” ultracentenaria; la giurisprudenza costituzionale soprattutto d'inizio anni ‘90 (Corte cost., 31 gennaio 1992, n. 24; Id., 3 giugno 1992, n. 254; Id., 3 giugno 1992, n. 255; Id., 26 marzo 1993, n. 111), che innestò reazioni a catena sul fronte legislativo – anche costituzionale – che, al fine di recuperare funzionalità all'originale struttura del processo, hanno finito con alterare il sistema fino alla “doppia inquisitorietà” (vedi: le “investigazioni difensive”) ed all'inserimento di momenti di stasi processuali (vedi: “legge Carotti”); il cedimento della funzione “collaborativa” e “solidaristica” delle indagini preliminari (artt. 358 u.p.; 375; 376; 405 c.p.p.) sul piano delle prassi e, ancora a questo livello, la pratica dei maxiprocessi, la cui abolizione costituiva il punto di forza operativo di quel sistema; la debole multischematicità, aggregata sul “consenso incrociato”, non sulla “volontà della parte”.
La domanda, dunque, è quali cause – oltre quelle enunciate – e quali ragioni costringono oggi il legislatore ad operare, non un restyling del tessuto normativo in vigore, ma la radicale e totale rivisitazione del Codice. E se non v'è dubbio che le cause e le ragioni dell'attuale stato di crisi della giurisdizione sono molteplici e soprattutto di natura sovrastrutturale (e tra queste quelle di carattere organizzativo e di carenza di risorse), tuttavia esse solo in una visione strumentalmente deformata possono essere ricondotte esclusivamente a vicende esterne al tessuto normativo.
Senza pretesa di completezza, le tappe riorganizzative che hanno imposto al potere politico l'iniziativa riformista non possono non tener conto che il Codice del 1988 fu processo senza sperimentazione. Perciò, la imprevedibilità degli approdi interpretativi e pratici hanno costituito il banco di prova di una operazione codicistica rivoluzionaria e – si è detto – di radicale discontinuità col passato. Anzi, le resistenze culturali, da una parte, e la creazione di circuiti viziosi soprattutto in materia di esercizio di poteri processuali, dall'altra, hanno attivato, per un verso, una inaspettata quantità di pronunce costituzionali e, per altro verso, continui ritocchi normativi; talvolta su strutture essenziali e precipue del modello del 1988.
In linea generale e seguendo schematizzazioni di stampo tradizionale, il mancato approfondimento sistematico ha prodotto l'idea che anche il processo nato a fine anni ‘80 fosse di tipo misto, così alterando il senso normativo di talune disposizioni. Il pensiero corre alla denuncia di inquisitorietà delle cc.dd. strutture premiali (“patteggiamento” e “giudizio abbreviato”, nonostante le presenza, nel primo, del riferimento all'art. 129 c.p.p., ed, in entrambi, del potere di richiesta della parte e del consenso), ma anche dall'attribuzione al giudice di poteri probatori letti come una intromissione del giudice nella vicenda, non – come è – quali indispensabili supporti operativi per chi in ogni caso è chiamato ad emettere un giudizio, e, quindi, congeniali alla funzione.
Questo preteso connotato di “inquisitorietà” ha alimentato interpretazioni difformi e prassi devianti su cui il nuovo legislatore non può non riflettere e non solo sul terreno della tecnica normativa.
Nello specifico, poi, sul primo versante, quello degli interventi di legittimità, si ricordano le troppo note pronunce della Corte costituzionale n. 222 del 1992 e le già menzionate sentenze nn. 255 del 1992 e 111 del 1993, che elevando a regola costituzionale il principio di non dispersione della prova, hanno prodotto l'effetto di mortificare la regola del contraddittorio, che costituiva il nucleo centrale ed originale del codice nel 1998.
Sull'altro, quello legislativo – spesso indotto da quelle poco accorte pronunce costituzionali – si è realizzata una progressiva alterazione della originaria struttura processuale fino alla previsione di un binario investigativo a parti contrapposte che ha alterato il senso primario del “procedimento” peraltro senza realizzare contraddittorio.
Gli errori interpretativi, le prassi devianti e le “pretese partecipative”, alla fine, hanno stravolto il modello processuale, al punto della perdita della filosofia che lo generò, fino alla realizzazione di una opposta ma disarticolata struttura di ambigua razionalità.
In questa prospettiva si collocano l'istituzione della Procura nazionale Antimafia (d.l. n. 367 del 1991), che apre la stagione di crescita esponenziale della legislazione processuale extracodicistica, non disgiunta da un deciso rafforzamento della tendenza a prevedere una tipologia di procedimenti costruita su specifici nomina delicti, tendenza che riduce notevolmente il campo di applicazione del codice di procedura penale ed induce autorevole dottrina a parlare di “decodificazione”. Da lì a poco, invero, verranno emanati il d.l. n. 306 del 1992 e – nonostante qualche anelito in senso garantista (l. 8-8-1995, n. 332 e l. 7-12-2000, n. 397) e qualche ritorno alle linee originarie del codice 1988 (16-12-1999, n. 479), il trend percepibile è però per un livellamento verso il basso: da un lato, infatti, la normativa sul c.d. “giudice unico” (d.lgs. n. 51 del 1998) ridimensiona drasticamente la garanzia della collegialità; dall'altro, innovazioni d'indubbio rilievo quali quelle contenute nella normativa regolatrice del “giudice di pace” segnano il permanere di forme processuali, ma anche il loro affidamento ad un giudice non tecnico. Infine la normativa sul c.d. patteggiamento allargato (l. 12-6-2003, n. 134) disincentiva ulteriormente l'esperienza dibattimentale, rendendone marginali i corollari di massima garanzia e di massima espressione del rito accusatorio e spostando ancor di più il baricentro processuale sulle indagini preliminari.
Su questo terreno si misurano le testimonianze di quanti, con responsabilità istituzionale, hanno rappresentato l'attuale crisi del processo (cfr. l'audizione dei dottori Claudio Castelli e Arcibaldo Miller, in data 27-9-2006, quanto all'individuazione dei punti di crisi dell'organizzazione giudiziaria che rallentano il naturale svolgimento del processo; l'audizione del dott. Claudio Castelli, in data 28-9-2006, al fine di avere chiarimenti circa i lineamenti e potenzialità del c.d. “processo telematico”; lo stato dell'organizzazione delle cancellerie e delle segreterie; l'assetto delle notificazioni, anche nell'ottica della creazione di agenzie ad hoc; l'audizione dell'Associazione Familiari Vittime della Strage di Bologna, in data 16 novembre 2006, volta ad approfondire «il problema della considerazione delle vittime del reato nelle varie articolazioni del processo penale»; l'audizione del dott. E. Barbe, magistrato di collegamento in Italia per la Francia, in tema di rapporti giurisdizionali con autorità straniere; l'audizione dei Rappresentanti dell'Unione Camere Minorili, in data 13 marzo 2007, relativamente alle linee-guida della riforma del processo minorile e l'organizzazione del tribunale per i minori; l'audizione dei Presidenti dei Tribunali di sorveglianza di Roma, Venezia e Perugia, anche al fine di valutare i margini di “manovra” per la costruzione di un processo bifasico).
Sullo stesso versante normativo, non può non tenersi in conto la persistenza di contrasti giurisprudenziali, che, soprattutto in materia di poteri processuali, hanno disorientato e disorientano le prassi di merito e discordanti scelte in materia di utilizzabilità degli atti.
Su questo terreno, ancora, non possono ignorarsi gli effetti della mancata realizzazione di strumenti processuali idonei a realizzare – in concreto – il ruolo nomofilattico della Cassazione, causa del disorientamento rilevato in precedenza.
Ed invero, una illuministica interpretazione dell'art. 101 comma 2 Cost. – che comporta la resistenza di una irrazionale indipendenza del giudice nel tema interpretativo – ha prodotto un cedimento della Cassazione, neutralizzando la funzione del “precedente” idoneo a realizzare, contestualmente, certezza del diritto, uniformità dell'interpretazione ed eguaglianza tra cittadini.
Sul punto è bene chiarire che la premessa ontologica della istituzione della Corte di cassazione quale organo unico, collegiale e supremo ne determina la unità in ragione della specifica funzione ad essa affidata, in cui vive la ragione stessa della Corte. Epperò, se ragioni organizzative comportano la pluralità di sezioni, la “responsabilità esterna” – quanto alla funzione – è nella unità stessa della cassazione, come è stato detto applicando la teoria dei frattali, che identifica la parte col tutto.
Per questa suprema responsabilità collegiale la Sezione non può non attenersi al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, risultando, questo, il senso del raccordo tra funzione dell'organo e indipendenza del giudice previsto nel secondo comma dell'art. 101 Cost.


3. Le ragioni della scelta a favore della legge-delega
Ulteriore dimostrazione del bisogno riformista è dato dalla presenza in Parlamento (S 1075; C 323) di due Disegni di legge di riforma del Codice di procedura penale, quale ulteriore testimonianza della indifferibilità dell’opera di riforma.
Epperò, va chiarito – in punto di metodo ed al di là delle critiche di contenuto – che la riforma di un codice non può non essere preceduta dalla individuazione delle linee guida e dei principi ispiratori tradotti in direttive di delega, che di quell’operazione manifestino cause, ragioni, prospettive, filosofia ed impianto, proprio ai fini della comprensione del filo rosso di razionalizzazione e di razionalità del sistema.
Peraltro, la scelta del metodo è determinata dall’ampiezza dell’operazione (riforma non modifiche) e dalle cause che hanno prodotto la crisi del sistema.
Quanto alla prima, già la dottrina più accorta ne ha avvertita la necessità.
Si dice, invero, che la tardiva opera del precedente Guardasigilli – che ‹‹aveva cercato di correre ai ripari, nominando una Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale›› – e la ammirevole tempestività di questa non eludono la convinzione che la sola via per siffatte operazioni è quella dell’approvazione preventiva di una legge-delega modellata sui principi e criteri direttivi del progetto, destinato poi a dare corpo ai decreti delegati.
E si aggiunge che, più tempestivamente, il nuovo Ministro ‹‹ha provveduto sin dall’inizio della legislatura in corso a nominare una nuova Commissione di studio›› i cui compiti sono definiti in termini piuttosto generici: ‹‹considerato che appare indifferibile un’opera di revisione del codice di procedura penale e delle norme che disciplinano il processo dinanzi al tribunale per i minorenni ed al giudice di pace, che si orienti sul corretto equilibrio tra “giusto processo” e “ragionevole durata del processo” e che, quindi, valuti l’opportunità di ampliare le alternative al processo e al dibattimento››, si stabilisce che ‹‹quest’opera di revisione debba tener conto, inoltre, dei principi e delle norme comunitarie, nonché delle pronunce delle Corti di giustizia europee. Si impegna, perciò, la Commissione a provvedere alla elaborazione di uno schema di disegno di legge-delega e, successivamente, alla redazione del testo dei necessari decreti legislativi››.
Il mandato poggia, dunque, sull’idea guida di una revisione organica del codice, condotta con particolare attenzione ai principi introdotti dalla riforma dell’art. 111 Cost., alle fonti internazionali e agli indirizzi delle Istituzioni europee. Un lavoro da svolgere con precisi impegni di forma e contenuto.
Su questo terreno, certamente non può essere seguito l’auspicio di chi manifesta nostalgia per i soli 227 articoli della “bozza Carnelutti”: allora si scommetteva sull’affidamento al giudice al quale oggi viceversa si vorrebbe sottrarre “discrezionalità”. E, poi, il nuovo corpus ingloba – non solo per ragioni estetiche – settori della giurisdizione penale inopportunamente esclusi dal Codice. Ci si riferisce alla legge sul processo penale per i Minorenni ed a quella per il procedimento innanzi al Giudice di pace, la cui collocazione topografica risponde – nel primo caso – al bisogno di eliminare atteggiamenti paternalistici e “scorie inquisitorie” – lì sì fortemente presenti – a favore del recupero della funzione del processo penale e – nel secondo – all’ampliamento delle funzioni della giurisdizione penale e, quindi, all’esigenza di predisporre nuovi itinerari mediativi e/o collaborativi e riparatori.
Quanto all’altro profilo speculativo, non può essere ignorato che l’attuale crisi della Giustizia – anche se amplificata da avvenimenti esterni al tessuto normativo – è, come detto, in buona parte da esso prodotta, sì a causa della “legislazione della disuguaglianza” coltivata nel primo quinquennio del 2000, ma anche a ragione degli interventi novellistici prodotti alla fine degli anni ‘90.
Peraltro, a voler esaminare i settori a cui mettere mano si scorge che l’elenco è così lungo e nutrito da dimostrare, esso stesso, il bisogno di una riforma organica e complessiva. Infatti, anche per le cose che si diranno in seguito, i settori da rivedere – ma l’elencazione è viziata per difetto – sono: i modelli di giurisdizione; le “finestre di giurisdizione” durante le indagini; il sistema delle prove per far fronte alla tipizzazione di nuovi mezzi “invasivi” delle libertà della persona; la rilevabilità dei vizi di competenza, degli atti, delle sanzioni processuali, delle notificazioni e, queste, anche al fine di eliminare il processo in contumacia e, tutti, nell’ottica della realizzazione della “ragionevole durata del processo”; la procedimentalizzazione dell’avviso di conclusione delle indagini capace di far confluire, in un’unica udienza, scelte processuali e anticipazione della condanna richiesta dall’imputato, per eliminare la inattuale moltiplicazione delle procedure; il sistema delle impugnazioni; ecc., il tutto in direzione della armonizzazione tra garanzie e tempi del processo e con netta cesoia tra forme e formalismi, costituendo, le prime, il processo penale nel suo divenire e, le seconde, orpelli di facciata, ostentati nel codice fascista per coprirne l’intima essenza autoritaria (= inquisitoria).
Perciò, nelle relazioni introduttive ai lavori della Commissione l’ampiezza dell’opera è apparsa nella sua reale dimensione di contributo rivolto al chiarimento ontologico delle categorie essenziali del processo, quale indispensabili premesse per l’opera riformatrice.
Dunque, appare inopportuna e metodologicamente errata la resistenza di quella parte che contesta la scelta (Unione Camere Penali Italiane; Consiglio delle Camere penali Delibera n. 2/07 del 3.3.2007; Documento della Giunta e del Centro Marongiu sul testo del DDL Mastella su “Disposizioni in materia di accelerazione e razionalizzazione del processo penale, prescrizione dei reati, confisca e criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie”. Contra Relazione del Presidente nel verbale del 2 maggio 2007): se è crisi di sistema è il sistema che va rimodulato; e se è così ne va esplicata la filosofia e la conseguente ricaduta modulare e strutturale.
Dunque è riforma e si riparte con legge-delega, unico strumento utile per riscrivere percorsi processuali efficienti nel rispetto delle garanzie dell’individuo. E deve essere delega soprattutto in ragione del mutamento della filosofia costituzionale a seguito della modifica dell’art. 111 Cost., che propone una nuova ed originale razionalizzazione del sistema-processo secondo rinnovate linee di efficienza complessiva del “pianeta-Giustizia”.
Piuttosto va chiarita la ragione di una delega così abbondante di direttive.
Essa è semplice e palese.
L’innesto delle novità in un tessuto normativo noto, diversamente dal 1987, ha imposto che la novità – anche tecnica e particolare – fosse visibile rispetto all’apparentemente omologa previsione codicistica. E poi, la Commissione ha ritenuto opportuno misurarsi sulla praticabilità della singola direttiva spingendosi sulla via della possibili traduzione normativa del principio enunciato, sì che la valutazione Parlamentare sia compiuta anche quanto allo sbocco codicistico della singola direttiva.
Certo. Il metodo restringe l’area di autonomia del legislatore delegato. Epperò esso assume pregnante valore politico proprio per quella restrizione, perché affida al Parlamento in prevenzione il dominio sul prodotto legislativo finale, che fu viceversa – in non poche occasioni – vulnerato nella interpretazione delle direttive da parte del legislatore delegato (cfr., tra le altre, Corte cost., 23 aprile 1991, n. 176).
Perciò, l’aspirazione ad un corpo normativo delegante molto sobrio – la dottrina ha già fatto riferimento ai soli 227 articoli della “bozza Carnelutti” – non si è potuta coltivare, anche perché la delega oggi accorpa contesti normativi esterni all’attuale codice (legge per il processo innanzi al Tribunale per i minorenni e per il procedimenti innanzi al Giudice di pace), arricchendosi – pure – di previsioni normative dettate da convenzioni e/o protocolli internazionali, quali, specificamente, quelli in materia di cooperazione giudiziaria.
Per questa ampiezza sarebbe auspicabile che il potere politico affermasse, in conclusione di delega, la riserva di codice, che nella fattispecie non riduce le scelte politiche future sugli itinerari processuali ma impedisce – solo – la moltiplicazione di procedure extra ordinem, causa di disorientamento giurisprudenziale e, spesso, fonte di disparità di trattamento se non di vulnera costituzionale quando ci si spinge sulla strada dell’aggiramento dei tempi della restrizione della libertà personale.
Peraltro, la riserva di codice consentirebbe al legislatore delegato di prevedere una norma transitoria e/o una disposizione di attuazione del codice che faccia pulizia dei distinguo processuali contenenti in una miriade di leggi speciali, in gran parte ignota anche ai cc.dd. operatori giudiziari. 
 

4. La modifica genetica del processo e le più recenti cause della crisi della Giustizia
Ancora. La “storicizzazione” del preambolo delle leggi-delega del 1974 e del 1987 costituisce, contestualmente, presupposto culturale e premessa di metodo del nuovo assetto normativo perché essa si muove:
a) sul fronte delle fonti – e non solo in senso formale – che distingue il luogo dei diritti (= la Costituzione) dal luogo dei poteri (=la legge ordinaria);
b) sul fronte della politica processuale, ove l’appartenenza del Paese ad una nuova comunità (= l’Europa) chiede di adeguare alle decisioni-quadro, convenzioni, protocolli, il nostro complesso ordinamento processuale;
c) sul fronte della struttura, che richiede la tenuta del sistema accusatorio, nei suoi pre-concetti e nelle sue linee portanti. Anzi, l’identità del verbo – “attui” – sul primo e sul terzo fronte dimostra l’irremovibile contestualità tra Costituzione e sistema processuale spesso predicata proprio per attirare il processo penale – e i diritti, poteri e facoltà che lo disegnano – nell’orbita della Costituzione.
Su questo ultimo fronte, anzi, la duttilità modulare del sistema accusatorio va contrapposta alla rigidità del sistema opposto e va esaltata, costituendo essa un valore capace di adeguare le strutture normative ai bisogni del Paese ed alle mutazioni delle dinamiche sociali. Nel senso, che, pur nel rispetto della genuinità della funzione del processo come luogo dell’accertamento – non altro –, tuttavia quei bisogni e quelle dinamiche aggiornano lo strumentario operativo del processo, facendo progredire le forme dell’accertamento su più stabili novità, frutto del progresso scientifico e culturale della società. Anzi, proprio quella “duttilità” consente, oggi, di agevolare il passaggio da un “processo-parlato” ad un “processo-documentato”, fenomeno in atto ma poco coltivato dal punto di vista della produzione normativa.
La sintesi di quella storicità manifesta, ora, i bisogni riformisti e, contestualmente, la intangibilità della struttura portante del Codice del 1988 (azione vs giudizio).
Questo, in ragione di quel progetto, operò felici scelte radicalmente innovative ma dall’elevata problematicità operativa, che alla lunga non ha tenuto proprio in ragione della forza innovativa delle scelte; rispetto alle quali, poi, poco consone sono risultate novellazioni e rattoppi.
Perciò, la nuova opera, che raccoglie il testimone di quel progetto deve adeguarsi al nuovo contesto delle fonti e, soprattutto, avvalersi della “sperimentazione accusatoria” per eliminare i punti critici e le “scorie inquisitorie”, nelle quali quel codice era necessariamente e/o inevitabilmente incorso. Invero, la raffinata opera giuridica compiuta in quegli anni (1987-1989) cercò il punto di equilibrio tra efficienza e garanzie nella moltiplicazione delle procedure, che, però, ne hanno costituito il punto di crisi, per una molteplicità di ragioni: dall’atteggiamento culturale (= molti hanno ritenuto i “riti premiali” un “ripiegamento inquisitorio”), alle premesse operative (il mito della “completezza” delle indagini, sorretta da una mai praticata idea “collaborativa” del procedimento), alla imprevedibilità degli esiti in ragione di comportamenti non sempre “responsabili” (= il dissenso del pubblico ministero) e, quindi, lo spostamento dell’asse da un soggetto (= imputato) all’altro (= pubblico ministero). Su questi temi, peraltro, la ricerca di un più stabile punto di equilibrio è risultata vana, se le manipolazioni normative successive rappresentano oggi il più elevato punto di crisi in termini di “tempo del processo” e se, ancora oggi, il rito più pregnante (= l’abbreviato) si regge su contraddittorie sentenze additive della Corte costituzionale (n. 23 del 1992 vs n. 169 del 2003, a seconda delle evenienze, non avendo potuto, l’ultima pronuncia, tener conto del variegato panorama in cui si innesta quel rito: dal giudizio direttissimo al giudizio innanzi al tribunale come organo monocratico).
Ma esistono ulteriori cause che alimentano l’attuale crisi e che aiutano a comprendere che affrontare il tema della riforma del Codice di procedura penale non significa – solo – porsi problemi di metodo; significa approfondire le ragioni – anche sociali – che hanno spinto il potere politico ad una iniziativa solitamente epocale, che, viceversa si colloca a meno di venti anni dalla “rivoluzionaria” operazione codicistica del 1988; significa porre le premesse, di diverso genere, che deve guidare l’opera, prima ancora di tratteggiare le linee di riforma; significa – soprattutto – entrare in uno spirito di consonanza con le attese del Paese.
E per sintetizzare – ma solo per titoli –, le cause più recenti della crisi della giustizia, esse vanno ricercate:
> nel tramonto dell’eguaglianza, che ha caratterizzato la politica penale di questo Paese negli ultimi anni secondo le linee di una tentata restaurazione dello Stato liberale di stampo ottocentesco (cfr. le leggi n. 134 del 2003 (c.d. patteggiamento allargato); n. 271 del 2004 (in tema di immigrazione), n. 251 del 2005 (c.d. legge Cirielli) e n. 46 del 2006);
> nel conseguente rilancio dell’illusione repressiva, operata, però, solo sul terreno del. cd. ordine pubblico; con contraddittoria linea di tendenza negli altri settori (cfr. le leggi n. 92 (contrabbando) e 128 (pacchetto sicurezza) del 2001; il d.l. n. 374 del 2001 (terrorismo internazionale); le leggi n. 189 (Bossi-Fini) e 279 (modifiche all’ordinamento penitenziario) del 2002; n. 95 del 2004 (controllo sulla corrispondenza dei detenuti); n. 210 (violenza negli stadi) e 251 (Cirielli) del 2005, n. 59 del 2006 (legittima difesa);
> nella crescita dei reati senza danno, che ha prodotto una pericolosa “evanescenza” delle fattispecie (cfr. le leggi n. 189 del 2002 (Bossi-Fini) ed il d.l. n. 144 del 2005, in materia di terrorismo internazionale);
> nella fine del monopolio della giurisdizione, a cui ha fatto da sostegno la perenne tendenza a ritenere che l’assetto normativo del processo debba essere condizionato dalla disponibilità delle risorse – anche umane – e dai problemi organizzativi; non – come sarebbe naturale – il contrario.
L’analisi sembra riguardare i profili problematici del diritto penale sostanziale. Epperò, va annotato, viceversa, che è sotto gli occhi di tutti il disorientamento della giurisdizione e della giurisprudenza per effetto delle più recenti leggi, soprattutto processuali; che, peraltro, hanno richiesto ripetuti interventi della Corte costituzionale (v., ex plurimis, Corte cost., 24 aprile 2002, n. 135, in tema di video riprese; Id., 21 novembre 2006, n. 381, in relazione all’art. 197-bis c.p.p.; Id., 6 febbraio 2007, n. 26, che ha vanificato la legge Pecorella; Id., 9 febbraio 2007, n. 33; Id., 5 aprile 2007, n. 117, in tema di processo contumaciale; Id., 16 marzo 2007, n. 79, sui meccanismi penitenziari della legge Cirielli);
Peraltro la dottrina sin dal primo momento ha denunziato il difetto genetico del codice del 1989, quello della non contestualità della riforma dei due Codici; vizio che è stato causa di grande sofferenza per la giurisdizione e che ora si rimuove secondo opportune linee di coordinamento sistematico e strumentale, non solo per realizzare una inefficiente contestualità temporale.
Sul punto, il bisogno di contemporaneità della riforma con quella del Codice Penale, consente un recupero di razionalità sistematica, elimina contraddizioni di settore apre la strada a felici combinazioni in tema di sanzioni (= misure cautelari), di prescrizione (= tempi del processo), di ampliamento dei casi di archiviazione (= tenue offensività), ecc.;
Dunque, come si è detto, l’attuale crisi della Giustizia – anche se amplificata da avvenimenti esterni al tessuto normativo – è in buona parte da esso prodotta, sì a causa della “legislazione della disuguaglianza” prima richiamata, ma anche a ragione degli interventi novellistici prodotti alla fine degli anni ‘90. La filosofia della “completabilità” delle indagini preliminari – su cui fonda la “legge Carotti” (n. 479 del 16 dicembre 1999) –, se allo stato fa fronte al bisogno di conoscenza del processo ai fini della tutela della persona (art. 415-bis c.p.p.) e razionalizza gangli essenziali del processo (es. giudizio abbreviato), ha, già essa, aggravato una crisi risalente, determinando insopportabili stasi processuali – come è risultato chiaro dalle audizioni – nonché la perdita di credibilità da parte della giurisdizione e della effettività della pena.
Perciò oggi si affronta il problema – anche per la ovvia interferenza della efficienza della giurisdizione in materia di sicurezza – con visione globalizzante, mettendo in campo l’opera riformista in tutti i settori che ne costituiscono coessenziali componenti (v., senza pretese di completezza e limitatamente ai d.d.l. d’iniziativa governativa, C. 2664 (Disposizioni per l’accelerazione e la razionalizzazione del processo penale, nonché in materia di prescrizione dei reati, recidiva e criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie); S. 1512 (Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali e di pubblicità degli atti di indagine) S. 1448 (Disposizioni per l’ adempimento di obblighi derivanti dall’ appartenenza dell’Italia alle Comunità europee); C. 2169 (Misure di sensibilizzazione e prevenzione, nonché repressione dei delitti contro la persona e nell’ ambito della famiglia, per l’orientamento sessuale, l’ identità di genere ed ogni altra causa di discriminazione); C. 1967 (Modifiche al codice di procedura penale per il compimento su persone viventi di prelievi di campioni biologici o accertamenti medici); C. 1857 (Disposizioni in materia di contrasto al favoreggiamento dell’ immigrazione clandestina e modifiche al codice di procedura penale).
Per queste ragioni è finalmente venuta l’era riformista democratica e repubblicana.


5. Le ragioni di natura “politica” ed il nuovo art. 111 della Costituzione
Ma esistono ragioni più profondamente di natura politica che non possono essere ignorate e che, anzi, debbono guidare l’opera di riforma.
La prima è data dall’ampliamento delle fonti comunitarie e dalle risoluzioni del Consiglio d’Europa, che, in più occasioni, ha richiamato il nostro Paese ad adeguare la normativa interna a quella comunitaria e/o della CEDU.
Tra queste fonti hanno particolare rilievo:
a) quella sulla “mediazione”, che comporta l’allargamento dei modelli di giurisdizione e delle alternative al processo. La necessità di disciplinare la mediazione giudiziaria minorile deriva da molte ragioni: da un lato, infatti, la legislazione internazionale ne auspica l’introduzione nelle legislazioni nazionali in ambito sia penale (articolo 11 delle Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile, New York 29 novembre 1985; articolo 40, paragrafo 3, lettera b), della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176; raccomandazione n. 87(20) sulle risposte sociali alla delinquenza minorile, del Consiglio d’Europa, del 17 settembre 1987) sia civile (articolo 13 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei bambini, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, resa esecutiva ai sensi della legge 20 marzo 2003, n. 77); dall’altro lato, presso alcuni tribunali per i minorenni si sono già costituiti uffici per la mediazione, e ciò accentua la necessità di una disciplina dell’istituto e della sua rilevanza nell’ambito processuale. Infine, nella nostra legislazione è sostanzialmente mancata, finora, qualunque forma di tutela della vittima del reato. La necessità di introdurre forme di mediazione penale, peraltro, pone una prima base per realizzare la giustizia conciliatrice. Questo tipo di giustizia non è, del resto, estraneo al nostro ordinamento. È anzi previsto da varie norme sia penali sia civili: gli articoli 9 e 28 del d.p.r. n. 448 del 1988, nell’ambito penale ordinario e minorile, e gli articoli 1 e 4 della legge n. 898 del 1970 sul divorzio, in materia civile familiare, impegnano espressamente il giudice o i servizi sociali a effettuare un tentativo di conciliazione.
b) quella sulle “vittime del reato” (Dec. 2001/220/GAI del 15 marzo 2001), relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale – che eleva l’attenzione della partecipazione della stessa quale portatrice della pretesa determinata dall’offesa, non quale soggetto che azione la richiesta risarcitoria. Alla vittima dal reato, infatti, non è garantita – allo stato – una piena tutela processuale, venendo spesso percepita come un ostacolo alla rapida definizione del processo. Nondimeno, l’esigenza di una piena tutela delle vittime del reato è fortemente avvertita ai vari livelli e alle diverse istanze della nostra società, anche perché la parte danneggiata, la parte offesa e la parte civile costituita ricoprono un ruolo e rappresentano un interesse che molte volte non è erroneo definire di natura pubblica o collettiva. Emblematico è il caso delle vittime del terrorismo, quello delle vittime delle stragi, quello degli infortuni-malattie mortali a causa del lavoro, quello delle vittime della criminalità, quello delle vittime di reati a sfondo sessuale soprattutto su minori, quello delle vittime di aggiotaggio o di reati societari-bancari, quello dei reati di disastro ambientale. In tali fattispecie, è evidente che, accanto ad una pretesa formalmente risarcitoria come richiesto dalla legge ordinaria (qualche volta magari per un risarcimento puramente simbolico), assumono maggior rilievo e importanza, anche a livello sociale, la richiesta di verità (anche processuale) e l’interesse alla individuazione e alla punizione del colpevole. Anche a livello internazionale tale esigenza emerge in tutta evidenza sia dalla trattazione che ne fa la Convenzione europea dei diritti umani sia dal contenuto dei provvedimenti frutto dell’attività giurisprudenziale della Corte di giustizia di Strasburgo, la quale ha riconosciuto specifici doveri di «penalizzazione» da parte dei singoli Stati, che hanno trovato una loro collocazione formale nella «Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 15 marzo 2001» pubblicato nella Gazzetta Ufficiale CE L82 del 22 marzo 2001. In questo atto del Consiglio si precisa cosa debba intendersi per «vittima» del reato e le si garantisce la possibilità di essere sentita durante il procedimento (articolo 3). Le si riconosce il diritto di accesso alle informazioni rilevanti ai fini della tutela dei suoi interessi (tra cui quella al patrocinio gratuito), con particolare riferimento al seguito riservato alla sua denuncia e ad essere informata, nei casi in cui esista un pericolo per la vittima, del rilascio dell’imputato o della persona condannata (articoli 4 e 6). Si riconosce il diritto al rimborso a favore della vittima, sia essa parte civile o testimone, delle spese sostenute a causa della legittima partecipazione al processo penale (articolo 7). Si riconosce il diritto alla protezione sua, a quella dei suoi familiari e alle persone ad essi assimilabili, ove si accerti l’esistenza di una seria minaccia di atti di ritorsione o di intromissione nella sfera della vita privata, protezione da garantire anche come riservatezza e tutela della sfera privata e dell’immagine, sia negli edifici giudiziari e di polizia che al loro esterno (articolo 8). Si prevede una normativa che incoraggi l’autore del reato a risarcire la vittima (articolo 9). Infine, sono previsti la cooperazione tra Stati, finalizzata alla protezione degli interessi della vittima nel procedimento penale, nonché la costituzione di servizi specializzati e di organizzazione della assistenza alle vittime.
c) quelle in materia di cooperazione giudiziaria, con le quali è indispensabile un coordinamento normativo oltre che di ricorso operativo. Invero, la conservazione della tradizionale regola di prevalenza sul diritto processuale interno delle norme di diritto internazionale, convenzionale e generale, è imposta da fondamentali, intrinsecamente chiare ed altrimenti non tutelabili ragioni di coerenza sistematica e di organicità dei processi di adeguamento della legislazione nazionale agli obblighi assunti dalla Repubblica nei rapporti con la comunità internazionale. È così ribadito, ma depurato da ogni improprio riferimento a specifiche fonti convenzionali, il principio secondo il quale le relazioni con le competenti autorità di altri Stati o con organi di giurisdizione giustizia internazionale a fini di giustizia penale sono disciplinate dalle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale e che le norme contenute nel codice di procedura penale e in altre leggi dello Stato si applicano soltanto se le norme internazionali anzidette manchino o non dispongano diversamente. Peraltro, nelle procedure di cooperazione giudiziaria va assegnato valore generale al consenso dell’interessato, quando è considerato necessario per l’espletamento di determinati atti, imponendosi la fissazione di condizioni uniformi, compatibili con la serietà e la stabilità degli impegni di cooperazione.
Il problema è reso più complesso dall’ampliarsi di un diritto giurisprudenziale che rende insicura l’opera del giudice nazionale. Invero, la prevalenza della teoria della unità dell’ordinamento comunitario – contrastato all’inizio dalla Corte costituzionale e poi riconosciuto con la teoria del “nucleo essenziale di valore”, contenuto nelle garanzie costituzionali relative ai diritti inviolabili (sulla quale cfr. Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183; Id., 10 ottobre 1979, n. 125; Id., 22 dicembre 1980, n. 188; Id., 21 aprile 1989, n. 232) – e la convinzione che il giudice non possa sottrarsi ai pronunciati della Corte europea sui diritti dell’Uomo, a cui va, dunque, attribuito riconoscimento “automatico” (C. eur., 18 maggio 2005, Somogyi c. Italia; Id., 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia), quasi che assurgano a dignità di fonte hanno prodotto una “deriva giurisprudenziale” che era ricomposta. Così, ad esempio, con il caso Pupino il quadro concettuale dei rapporti tra ordinamenti si compone di nuove istanze, che non si riducono all’enunciazione di un criterio, di una direttiva di metodo per il giudice (l’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno alle decisioni quadro UE), bensì legittimano prevalenze normative con significativi riflessi sul procedimento penale (Corte di giustizia, sentenza 16.6.2005, C-105/03, Pupino). Il dettato della Corte CE rappresenta la traduzione in un determinato momento storico della necessaria effettualità degli atti adottati nel quadro del terzo pilastro dell’Unione europea (cfr. House of Lords, Opinions of the Lords of Appeal for Judgment in the cause Dabas v. High Court of Justice, Madrid, 28.2.2007).
Ma la ragione principale su cui fonda la nuova stagione riformista è l’entrata in vigore dell’art. 111 Cost.
Le articolate disposizioni ivi contenute, per un verso, impongono maggiore attenzione ad un reale contraddittorio tra le parti ed al bisogno di una maggiore presenza della giurisdizione durante la prima fase del processo (le c.d. “finestre di giurisdizione”); per altro verso, riconoscendo il “processo di parti” come struttura democratica del processo, danno nuovo vigore al consenso della parte, suggerendo la pratica di spazi operativi finora ritenuti inesplorabili.
Epperò, sbaglierebbe chi ritenesse che la nuova regola per la giurisdizione ha valore solo sul piano strutturale: la novità più saliente del nuovo art. 111 Cost. è la costituzionalizzazione della ragionevole durata del processo.
In quest’ottica di sintesi delle ragioni storiche, del fondamento politico e delle attese sociali appare sterile – nel profilo riformista – ma opportuna e dovuta – nel profilo dogmatico – la contrapposizione tra teoria oggettiva e/o teoria soggettiva della nuova regola, dal momento che, in ogni caso – e quanto a quel profilo –, essa si pone come regola di comportamento per la individuazione delle linee di contemperamento del legislatore tra efficienza e garanzie, rinnovando l’osservazione del rapporto costi-benefici – che pure il legislatore dell’88 tenne presente – in un’ottica radicalmente diversa.
In questi termini la ragionevole durata del processo costituisce, oggi, la regola pregiuridica a cui conformare i comportamenti riformatori, dall’elevato valore sociale, anche perché essa influenza la lettura degli altri “principi” costituzionali, aggiornandone la lettura e attirando la cultura giuridica sul terreno del “garantismo efficientista”, essendo essa chiamata oggi alla sintesi tra garanzie ed effettività della giurisdizione, che rappresenta il nuovo fronte del processo penale.
Dunque, essa stabilisce un rapporto di mezzo a scopo, che indirizza l’opera del legislatore, aprendo allo stesso nuovi orizzonti.
Perciò va superata quella parte della cultura giuridica del Paese e soprattutto degli “operatori”, che hanno incanalato l’attenzione sulle parti della nuova disposizione costituzionale che si collegano direttamente alla “storia” della norma, più che al suo reale contenuto “rivoluzionario”.
Quella storia sembra indirizzare le discussioni sul riconoscimento costituzionale del diritto al contraddittorio (comma 4) – rispetto al quale lo stesso legislatore costituente tipizza le deroghe (comma 5) – e del diritto all’ascolto (comma 3) e, quindi, sul “processo di parti” e/o sulla “parità d’armi” (comma 2), quasi che questi connotati non appartenessero all’originario tessuto normativo di quella Fonte.
Sul punto ogni disquisizione appare oggi superflua, dal momento che, per attuare la Costituzione, il codice del 1988 organizzi il “processo di parti” proprio sulla linea della centralità del contraddittorio per la prova e del dibattimento.
E se l’iter parlamentare e la collocazione sistematica del nuovo art. 111 Cost. rassegnano alla storia il progressivo passaggio del contraddittorio da diritto delle parti a regola per la giurisdizione, non va eluso il dato secondo cui si approfittò dell’occasione” per rinforzare le regole della giurisdizione. Perciò il Costituente di fine millennio si impegnò sul fronte del giudice (terzo ed imparziale), sul fronte del processo (la pari dignità di fronte alla giurisdizione = art. 111 co. 2 e 3), sul fronte del metodo cognitivo (contraddittorio), contestualmente elevando a dignità costituzionale il consenso come strumento di rinunzia al metodo dialogico e/o come riconoscimento dell’oggetto della cognizione anche se ricostruito unilateralmente (“riti” e acquisizioni probatorie; processo di parti); infine, sul fronte del tempo del processo, come valore del “giusto processo”, sul confluente terreno del diritto dell’imputato e dell’attesa della comunità.
Sul punto, i bisogni di chiarezza e le esigenze di acculturamento sono elevate, anche perché si è veicolata l’idea che la norma costituzionale operi una graduazione dei valori e, quindi, la prevalenza del contraddittorio rispetto all’inferiore valore della durata ragionevole del processo.
Nonostante l’autorevolezza della fonte, il metodo comparatista e il risultato della prevalenza sono errati e rispondono a logiche “quantiste” estranee al tessuto costituzionale. Invero, se sono incontestabili le premesse “storiche” della nuova vicenda costituzionale; se è vero che questa muove da una giurisprudenza costituzionale (quella del 1992) poco accorta – stranamente – ai connotati che produssero il capovolgimento del rapporto tra “contraddittorio” (= regola) e “non dispersione degli elementi di prova” (= eccezioni tipizzate); e se oggi possono risultare accorte le ragioni dell’epoca, non tanto in vista del “fine del processo”, quanto in ragione di prassi giudiziarie contraddittorie rispetto al “processo parlato”, egualmente non può contestarsi che il nuovo assetto costituzionale del processo muta in ragione della novità di fine millennio, appunto quella della appartenenza del “tempo del processo” all’ontologia del “giusto processo”, inteso nella duplice dimensione, soggettiva (è diritto dell’imputato e della comunità) ed oggettiva (è connotato del processo).
Può dirsi, perciò, che, se nell’operazione costituente il dato dialogico del processo era ben presente, altrettanto presente era la ragione politica che la motivava e che imponeva il salto di qualità della Costituzione sul fronte delle fonti disattese (la CEDU) e dei giudizi di illegittimità dei tempi del processo.
Su questa ragione “politica” (rectius: di politica del diritto) si realizzò la novità “rivoluzionaria” di fine millennio: la costituzionalizzazione, nelle “norme sulla giurisdizione”, della ragionevole durata del processo (comma 2) e del diritto al giudice (comma 3); anzi, la loro collocazione sistematica ne rivela la natura di “regole di ordine pubblico della giurisdizione”.
È evidente, dunque, che quel contesto non gradua i valori costituzionali ma li organizza secondo le naturali interferenze dei diritti contenuti nel Preambolo e che legittima forme di “giustizia imperfetta” quando ad essa intende accedere l’imputato secondo logiche razionali, non ideologiche, cioè: secondo linee che contemperino garanzie e tempi.
Perciò la “ragionevole durata del processo” – elemento di assoluta novità delle regole per la giurisdizione – impone al legislatore di sfruttare le nuove potenzialità del “processo di parti” e del “giusto processo”, seguendo la filosofia – lì scritta – del “garantismo efficientista”, formula di sintesi della nuova cultura del processo penale, di pari dignità del “garantismo difensivo”, che fu la cultura condivisa che ha prodotto il codice di fine anni ‘80.
Su questo terreno ulteriore premessa dell’opera riformista è la scoperta del significato reale della disposizione del terzo comma dell’art. 111 Cost. che rappresenta nel “procedimento” – non nel “processo” – il “diritto al giudice”.
Sul punto, l’infelice input della norma (= “nel processo penale”) fa i conti col contesto funzionale e strutturale che la lettera della disposizione manifesta, rendendo palese che il diritto al giudice è situazione che va assicurata prima dell’esercizio dell’azione e, quindi, nel “procedimento”, essendo questo il segmento che si pone a ridosso della notizia di reato: “essere informato….dell’accusa”; “interrogare o far interrogare dal giudice”; ecc. sono elementi normativi di assoluta novità che la legge processuale non può ignorare se vuole attuare la Costituzione.
Razionalizzare i tempi del processo e aprire “finestre di giurisdizione” nel procedimento sono, dunque, indirizzi rigidi per il nuovo legislatore: il primo pone il tema centrale del tempo, attirando nell’ambito processuale esigenze “prescrittive” e quindi dichiarazioni di “improseguibilità dell’azione penale” in mancanza di tempi ragionevoli per il processo; il secondo richiede la individuazione di situazioni e poteri – in equilibrio con situazioni e poteri del pubblico ministero – in cui e con i quali le parti private possano operare direttamente davanti al giudice. E se il primo indirizzo pone il delicato problema del rapporto tra prescrizione del reato e tempi del processo, il secondo apre la strada a compiti di difesa “reattiva” sin dal momento dell’accusa.
Sul primo argomento, la norma costituzionale non elimina la funzione di garanzia della prescrizione del reato e, quindi, di una norma di diritto sostanziale che la preveda; tuttavia essa sposta sul terreno processuale il bisogno di contingentamento dei tempi del processo fino alla “improseguibilità dell’azione”. Perciò la nuova disposizione costituzionale, pur non interessandosi dei profili dogmatici della questione e della natura della prescrizione, ne attira la operatività nell’ambito della organizzazione del processo a cui affida, anche, la razionalizzazione della durata ragionevole del processo e la individuazione dell’atto a cui segue la sospensione della prescrizione del reato e la sua eventuale reviviscenza in sede di impugnazione.
Sul secondo, il richiamo alla conoscenza tempestiva dell’accusa impone la individuazione dei tempi e dei modi per la sua contestazione e dell’atto che la contenga ai fini dell’esercizio dei diritti tipizzati nella stessa norma costituzionale. E posto che “accusa” non è “imputazione” – che rappresenta l’atto di esercizio dell’azione penale, perciò posteriore all’esercizio di quei diritti – risulta evidente che il nuovo legislatore deve far fronte alla bisogna, non con una “informazione per l’atto”, così come nell’attuale sistema, ma con una “informazione di garanzia” di vecchio stampo, quale forma di conoscenza del procedimento finalizzata al corretto esercizio del diritto delle parti al giudice.
Insomma, nel segno della Costituzione oggi il progetto è: un processo governato dalle parti con pari dignità davanti al giudice, che contemperi le legittime pretese della collettività di fronte al delitto e gli irrinunciabili diritti della persona. 


6. La “deriva giudiziaria” quale effetto delle decisioni della Corte europea dei Diritti dell’Uomo
Altra ragione si aggancia alla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che non ha perso occasione per condannare l’Italia in materia di processo contumaciale (C. eur., 18.5.2005, Somogyi c. Italia; Id., 10.11.2004, Sejdovic c. Italia) e di ragionevole durata del processo. Anzi, è del 1° marzo scorso la sentenza della Cassazione, che in forza di precedente pronunzia di quella Corte ha sospeso il titolo esecutivo prodotto dalla nostra giurisdizione, elevando, quelle a livello di “fonte” (Cass., Sez. I, 25 gennaio 2007, n. 2800, P.m. in c. D. P.), anche se non manca diverso e contestuale orientamento (Corte di cassazione, Sez. V, 15 novembre 2006, Cat Berro).
Si è così posto il problema della necessità di un’effettiva riparazione nel caso di violazione del testo convenzionale e dell’eseguibilità di una pronuncia definitiva considerata non equa dalla Corte europea.
La tematica, che si inserisce nell’ampio dibattito sugli effetti nell’ordinamento interno della giurisprudenza Cedu, impone di definire i meccanismi adeguati per garantire nei sistemi nazionali il rispetto di regole comuni (quali, il “giusto processo”) all’insegna di una tutela multilivello dei diritti del cittadino europeo.
Già nel caso Stoichkov c. Bulgaria (24.3.2004) la Corte Cedu aveva posto il problema dell’eseguibilità di una sentenza considerata non equa. In sostanza, con quella decisione la Corte ha colpito il dogma del giudicato, nel senso che non solo ha riconosciuto la violazione del testo Cedu, ma è addirittura andata oltre, chiedendo un’effettiva riparazione.
La vicenda “Dorigo” testimonia che non sono più permessi ritardi nell’opera di omogeneizzazione dei valori nell’ambito della giustizia penale: è necessario che il legislatore ponga rimedio ad una situazione che si trascina ormai da tempo e che senza dubbio sconfessa i proclami contenuti nelle carte internazionali e nelle costituzioni. Del resto, con la ratifica della Convenzione europea (l. 4 agosto 1955, n. 848), l’Italia ha assunto l’impegno di rispettare i principi ivi espressi, fra cui quello imposto dall’art. 6.
In ogni caso, la pronuncia evidenzia una rinnovata sensibilità ermeneutica da parte della giurisprudenza italiana, fondante un humus culturale ed ideologico, che ha permesso una maggiore penetrazione nel diritto interno di norme e anche di statuizioni delle Corti europee, che fino a poco tempo fa erano ritenute meramente raccomandatorie e che nella prassi quotidiana venivano disattese. Ciò che ha indotto gli organi di Strasburgo a condannare l’Italia per la reiterata violazione di norme convenzionali riguardanti i diritti fondamentali. Nel corso degli ultimi anni sono stati numerosi i casi di condanna da parte della Corte Cedu per mancato rispetto del giusto processo. Si tratta di sentenze che impongono ai Paesi interessati un “obbligo di riparazione” ai sensi dell’art. 46 Cedu (cfr., tra le altre, Corte Cedu, Colozza c. Italia, 1985; Sejdovic c. Italia, 2004; Somogji c. Italia, 2005).
Senza dubbio, la costituzionalizzazione del principio del giusto processo, operato dalla l. cost. n. 2/1999, ha comportato il placet per la l. n. 63/2005, la quale ha compiuto un ulteriore necessario adeguamento ai principi affermati dalla Cedu mediante la rimodulazione dell’istituto della “rimessione in termini” per il caso di processo in absentia, svoltosi senza che l’imputato ne abbia avuto conoscenza.
Peraltro, la soluzione offerta dalla Corte di cassazione (Sez. V, 15 novembre 2006, Cat Berro), pur se consente di ritenere esistente nell’ordinamento italiano uno strumento per rimettere in discussione una sentenza irrevocabile di condanna emessa in sede sopranazionale certamente appare debole quanto alle nuove prospettive europee.
E dunque, i problemi affrontati non possono dirsi risolti, né gli interventi citati esauriscono l’insieme delle questioni poste dalla giurisprudenza Cedu.
E se la vicenda “Dorigo” dimostra che si sta affermando un nuovo modo di fare giustizia secondo “canoni europei” [cfr. Sezioni unite Civili della Corte Suprema di cassazione con 4 significative sentenze del 2004 – nn. 1338, 1339, 1340, 1341 – ed una più recente del 23 dicembre 2005, Centurione Scotto) in forza della natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali con il conseguente obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata operatività in riferimento al caso concreto (cfr., altresì, Corte di giustizia CE, sentenza 16 giugno 2005, C-105/03 Pupino, che ha sancito l’obbligo di interpretazione conforme),è indispensabile riflettere circa l’incidenza del diritto sovranazionale se sulla necessità di armonizzazione la giustizia penale interna agli standards minimi europei, alimentando prospettive di modifica della struttura processuale italiana, in modo da consentire l’omogeneo allineamento ai principi scanditi dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte Cedu su temi di fondo quali, ad esempio, il giudizio c.d. in absentia e la custodia preventiva. 
 

7. L’acculturamento sulle categorie fondamentali del processo quale premessa ontologica dell’opera riformista
Peraltro, dell’attuale tessuto normativo non va dispersa la forza di rinnovamento ontologico delle categorie fondamentali del processo.
Invero, a leggerlo in profondità, il Codice di procedura penale del 1988 non fu solo mera operazione codicistica; esso rinnovò alla radice le categorie fondamentali della procedura penale, dalla giurisdizione, all’azione, al processo.
Sul primo fronte, la concezione della giurisdizione come somma ordinata di potere cognitivo e potere dispositivo che aleggia in tutte le fasi del processo viene accompagnata – e talvolta scomposta – dal bisogno di elevare, alternativamente, le due anime della giurisdizione – di garanzia e di accertamento – rompendo il monopolio di questa seconda, che aveva caratterizzato tutta la codificazione precedente.
Così, nel procedimento, la giurisdizione assume il prevalente ruolo di garanzia nei conflitti tra “situazioni soggettive protette”: ad esempio, nei mezzi di ricerca della prova e nella emissione dei provvedimenti cautelari, ove, peraltro, la valutazione della richiesta non assume il significato di cognitivismo processuale, che in queste occasioni segue il provvedimento sulla richiesta della parte, oggettivizzando, così, il segno giurisdizionale del provvedimento. Questo ricorso (= diritto) al giudice nel Codice del 1988 restò sostanzialmente unilaterale e soprattutto nel dominio del pubblico ministero, non potendosi percepire, allora, situazioni di contestualità operativa delle parti davanti al giudice, al di là delle esigenze di formazione anticipata della prova. Allora, il pericolo che nella fase procedimentale potesse rivivere il “giudice istruttore” – accusa peraltro ripetuta a seguito dei nuovi poteri di intervento sulla completezza delle indagini offerti al giudice dell’udienza preliminare (ma l’accusa riguarda anche la cd. “imputazione coatta” in sede di archiviazione) – allertava il legislatore al punto da rendere problematica anche la “canalizzazione” di atti di parte privata direttamente al giudice, che fu causa – non ultima – delle “investigazioni difensive” (cfr. la nota sentenza Baruffato).
Questo periodo e, quindi, quella preoccupazione vanno ora dissolti, non potendosi confondere le esigenze probatorie per la decisione (= i poteri probatori d’ufficio) con la raccolta e la elaborazione della prova come “pregiudizio del giudizio” in chiave di prevalutazione degli indizi di colpevolezza prima del dibattimento. È questo il “giudice istruttore” di inquisitoria memoria, oggi in nessun caso, né in nessun modo evocato.
Sul fronte dell’azione, il passaggio dall’azione in senso astratto all’azione in senso concreto – plasticamente rappresentato dalle disposizioni funzionali e strutturali sul procedimento (artt. 50; 326; 358; 405 c.p.p. 1988) – si appoggia su una lettura moderna dell’obbligo costituzionale di agire (art. 112 Cost.), attirando nel versante giuridico della norma costituzionale la lontananza dell’azione dalla notizia di reato. E poi, la pluralità modulistica dell’esercizio della stessa a seconda di alterni e specifici presupposti oggettivi (art. 405; 444; 449; 453; 459 c.p.p. 1988) fu invenzione felice ed opportuna, ma altamente problematica nel risvolto di rappresentazione dell’esercizio di difesa a causa della mancanza di un atto obbligato per la conoscenza del procedimento che assolvesse a tale compito, soprattutto in presenza di una prassi che mortificava la potenzialità dell’interrogatorio (art. 375 c.p.p. 1988) e dell’accompagnamento per l’interrogatorio (art. 376 c.p.p. 1988).
Insomma, il salto concettuale all’azione in senso concreto fu eluso alla radice, vuoi perché cedeva, nella prassi, l’idea di un segmento procedimentale di tipo “collaborativo” (art. 358; 367; 375; 447 c.p.p. e 38 disp. att. 1988), vuoi perché il pur valido assetto normativo mancava dell’elemento di conoscenza del procedimento contestualmente utile all’esercizio del diritto di difesa ed alla completezza delle indagini. Né è risultato efficace – su questo terreno – l’avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis c.p.p. ex lege n. 479 del 1999) e la contestuale discovery, sia per la “naturale” diffidenza sul “rapporto a due”, sia per gli effetti devastanti che esso ha prodotto sui tempi del processo.
Sul fronte del processo, poi, le norme sulla prova (libro III) e sul giudizio (libro VII) realizzarono il contraddittorio “possibile”, recuperando, in ragione del principio di non dispersione della prova, (eccezionalmente) atti irripetibili in presenza di presupposti tipici e tassativi e, solo in via mediata, gli atti unilaterali del pubblico ministero, recupero finalizzato alla “credibilità” del teste mai ai fini probatori.
La crisi innestata nel 1992 dalla Corte costituzionale, se, nel tempo, ha portato alla felice opera costituente di fine millennio (l’art. 111 Cost.), ha prodotto una legislazione “tampone” (già richiamata) asistematica e per certi aspetti irrazionale che ha allargato le maglie del progetto iniziale, alterando – soprattutto nella interpretazione – il senso ontologico delle originarie previsioni.
Sullo stesso terreno, la caratura di una udienza di controllo sull’esercizio dell’azione penale organizzata con asfittici poteri processuali del giudice, per un verso, le ha sottratto il compito originario e, per altro verso, ha fatto venir meno il ruolo di spinta dello stesso giudice a scelte alternative al dibattimento. Se, dunque, l’intenzione di non far rivivere il giudice istruttore era ed è condivisibile, tuttavia la prima struttura mortificava le potenzialità operative del ruolo del giudice. Sul punto, l’opera di restyling di fine anni ‘90, rivolta soprattutto al recupero della funzione deflativa dell’udienza, si è spinta troppo oltre, se la Corte costituzionale – con isolate voci in dottrina – ha potuto intravedere in essa una forma di “giudizio”, non una pluralità di forme nel dominio dell’imputato, che solo con richiesta o consenso modifica la funzione del contesto procedurale e la logica del giudice (Corte cost., 6 luglio 2001, n. 224; Id., 28 dicembre 2001, n. 441; Id., 19 febbraio 1999, n. 36; Id., 12 luglio 2002, n. 335).
Ma queste felici invenzioni non possono nascondere la permanenza di “scorie inquisitorie” di cui lo stesso legislatore si rese conto.
Invero, il passaggio da un processo monologico ad un processo partecipato non poteva (né doveva) mantenere in vita un sistema sanzionatorio che – pur rinnovato in tema di prova – ripete la confusione tra invalidità ed inefficacia (es.: decadenza), né un sistema di deducibilità della incompetenza e dei vizi degli atti consono al sistema inquisitorio, non accusatorio; così come ripropose un sistema di impugnazioni “amorfo” – pur esso congeniale a quel sistema – per il quale tutto si può dedurre in appello, e, poi, tutto si può dedurre in cassazione.  
 

8. Le linee generali del nuovo impegno di riforma
Dunque le premesse dell’opera riformista si riassumono:
a) nella convinzione che il codice del 1988 – contrapponendosi al codice del 1930 e dovendo attuare la Costituzione – fu felice opera intellettuale, preceduta ed accompagnata da un quarantennale dibattito sul “garantismo difensivo”, ma fu processo senza sperimentazione. Sicché, l’opera odierna – che non intende rinunciare a quello schema ma correggerlo nell’ottica della ragionevole durata del processo – nasce proprio dalla sperimentazione di quell’assetto normativo e dal bisogno di eliminare “scorie inquisitorie”;
b) nella necessità di adeguamento della normativa codicistica al nuovo sistema delle fonti – anche sovranazionali –, tra le quali ha valore pregnante il nuovo art. 111 Cost., che impone di ripensare il rapporto tra forme del processo (non formalismi processuali) e garanzie dell’individuo;
c) nella indispensabilità di un sano raccordo con l’auspicato nuovo Codice di Diritto penale, che innova il sistema sanzionatorio, apre la via a nuove forme di tenue offensività del fatto ed a strumenti di rilevamento processuale del progetto operativo racchiuso nell’art. 27 comma 3 Cost.
Queste linee hanno prodotto – sul piano del metodo – il bisogno di un doppio tavolo di lavoro, quello della documentazione affidato al Comitato scientifico e quello della riflessione per le nuove direttive di delega – di competenza della Commissione –, risultando palese che questo è condizionato dal rilevamento e dallo studio delle disfunzioni del processo.
L’idea è risultata vincente: il rilevamento delle cause della crisi; lo studio dei testi anche giurisprudenziali, soprattutto della Corte costituzionale; l’apprestamento della documentazione legislativa e l’opera di coordinamento dei lavori delle sottocommissioni sono i punti di forza dell’opera di ripensamento della struttura del processo in chiave di recupero di efficienza; una nuova e moderna struttura che, senza mortificare le garanzie – anzi: ampliandole –, ha la capacità di rispondere alle attese del Paese in tema di Giustizia penale.
Sul piano dei contenuti i presupposti culturali e cognitivi hanno prodotto gli itinerari riformisti qui riassunti:
a) – Il primo si riversa nel procedimento per l’azione, ove viene rinforzato il ruolo della giurisdizione – che comunque non assume funzione istruttoria – per attuare le garanzie previste nell’art 111 comma 3 Cost. Per realizzare tali garanzie è indispensabile che la “persona indagata” conosca del procedimento e dell’accusa, che, pur determinata, non assume la funzione dell’imputazione. Di qui la nuova informazione di garanzia, che rappresenta la premessa per realizzare il “diritto al giudice”, oggi costituzionalmente riconosciuto per ogni fase del processo, per il cui esercizio si aprono “finestre di giurisdizione” nel procedimento. Il riconoscimento del diritto al giudice per tutte le “parti”, peraltro, se consente di realizzare un rapporto diretto, con lui, della persona sottoposta alle indagini e per l’offeso, per altre situazioni ― non comunicabili all’”indagato” ― esalta la giurisdizione e la sua funzione di garanzia: così, ad esempio, con la proroga discrezionale dei termini per le indagini; così per i mezzi di ricerca della prova; così per le misure cautelari.
In attuazione dello stesso principio, poi, e per eliminare le cause di insopportabilità di stasi processuali si procedimentalizza la situazione disciplinata dall’attuale art. 415-bis, che nel futuro disegno diventa l’atto di vocatio delle parti davanti al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini, fornito di penetranti poteri fino alla richiesta di definizione – “premiata” – della vicenda processuale.
Epperò, necessariamente e naturalmente, un processo così “partecipato” non può non distinguere – nettamente – forme e formalismi, garanzie e formalità.
La sua realizzazione perciò non può non avere naturali ricadute:
sul sistema delle notificazioni, ove si esalta il bisogno della consegna a mani dell’imputato del primo atto del processo indispensabile per eliminare la contumacia e per legittimare il processo in assenza. Ma tale atto inverte – in natura – l’onere della partecipazione e della conoscenza dello sviluppo del processo;
sul sistema della deducibilità dei vizi di competenza e di invalidità degli atti, oggi attestate ancora – nonostante le salienti novità del 1978 – su “scorie inquisitorie” insopportabili nel nuovo sistema, se si esclude – proprio sul terreno della tutela della persona – il vizio di vocatio in iudicium dell’imputato. Resistere su questo terreno non significa evocare garanzie; significa, viceversa, attestarsi su posizioni di retroguardia che alimentano la permanenza, non la soluzione, delle cause di crisi della Giustizia;
sul sistema delle impugnazioni, che, svincolate da formalismi, possono meglio assolvere al reale compito di controllo della giustezza della sentenza e della tenuta della legalità processuale.
b)– Il secondo itinerario riguarda i modelli di giurisdizione e il tema dell’azione. E, se sul primo fronte è stato possibile realizzare la mediazione – e non solo per impegni di natura sovranazionale –, ma resta problematico il processo bifasico, sul secondo fronte, la rigidità del principio costituzionale ed il clima politico non consentono di avanzare proposte alternative all’azione pubblica.
c) – Quanto alla struttura del processo, poi, la nuova centralità dell’udienza di conclusione delle indagini si coniuga con la drastica riduzione delle alternative nel processo, che furono invenzione felice del legislatore di fine anni ‘80, ma che hanno creato non pochi problemi sul versante interpretativo, venendo meno al ruolo che quel legislatore affidava loro. Perciò, deflazione, premialità e consenso dovranno costituire il terreno privilegiato per l’esercizio dei poteri del giudice prima del dibattimento, recuperando in questa fase le nuove potenzialità del sistema sanzionatorio e le anticipazioni delle “modalità di esecuzione della pena”.
Sullo stesso piano, ancora, va condotto a razionalità operativa il rapporto tra libertà personale e giudizio, costruendo una nuova prossimità a questo, quando quella è limitata per esigenze di tutela del processo o per l’attualità del fatto.
d) – Ma la sintesi del rapporto garanzie-tempo affida ruolo centrale alla prescrizione, nodo essenziale per razionalizzare tempi e comportamenti processuali. Su questo fronte bisogna prendere atto che la previsione di natura sostanziale è ineliminabile quale norma di garanzia per l’individuo; epperò la manifestata volontà dello Stato di perseguire quel fatto per la tutela della collettività annulla la garanzia – qualunque ne sia il fondamento – ed attira l’attenzione sulla organizzazione dei tempi nel processo. 
 

9. Il valore garantista delle regole per il processo
Su un terreno apparentemente difforme dalle premesse politiche fin qui tratteggiate si muovono le annotazioni di prevalente natura ontologica specificatamente attinenti al sistema sanzionatorio processuale penale. Epperò la osservazione della categoria è campo privilegiato per penetrare il “mistero del processo” e svelarlo. Il valore garantista delle regole tecniche per il processo – il cui divenire non è mera successione di atti ma è progressione di attività dirette ad uno scopo – rivela la dimensione legale del processo e si riconnette a connotati di necessarietà dei comportamenti – soprattutto se tipici – rispetto ai quali, dunque, le regole assumono – anche – forza deontologica.
Il tema è complesso; anche perché attiene direttamente al sistema sanzionatorio degli atti processuali, con specifico riferimento al tipo, alla natura di ciascuno di essi, al conseguenziale regime di ognuno.
Come si sa, la pedissequa riproposizione del sistema sanzionatorio precedente nel codice del 1988 (cfr. artt. 606 lett. c) 1988 e 524 c.p.p. 1930) fu determinata dalla mancanza di definitive premesse ontologiche circa la funzione che la sanzione svolge nella procedura penale, causa di incertezze circa l’inquadramento dogmatico della categoria e della problematica inclusione, in essa, delle forme di inefficacia: si coglieva, cioè, il vizio di invalidità dell’atto, raramente la ragione dell’inclusione della stessa nel naturale succedersi del processo, ancor meno l’esigenza della rilevabilità del vizio, preferendosi far ricorso alla sanatoria, non al bisogno del “rilevamento fasico” e, quindi, alla cessazione del perpetrarsi processuale del vizio.
Perciò, se il legislatore del 1988 fu felice recettore dell’autonomia del vizio della prova – peraltro con una disposizione (quella dell’art. 191 c.p.p.) che ha creato difficile discorde applicazione, pure in tal caso per mancanza di chiare premesse ontologiche – egli non percepì la forza istruttiva e le prospettive potenziali del d.l. 21 marzo 1978, n. 191 in materia di nullità che timidamente si avviava sul rapporto atto-scopo: si preferì parlare della terza categoria delle nullità piuttosto che praticare la pista appena intrapresa.
Ed invero, si legge nella Relazione a quel Codice che nella lettera c) dell’art. 524 «si prevede come motivo di ricorso l’inosservanza, oltre che delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inammissibilità o decadenza, di quelle a pena di inutilizzabilità». Null’altro, se non una mera specificazione della autonomia dell’ultima sanzione.
E, dunque, rimase in quel codice, quanto al sistema sanzionatorio, una “scoria inquisitoria” con doppia caratterizzazione negativa: una per difetto – la mancata autonoma previsione dell’”inefficacia” – l’altra per eccesso: la autonomia della “decadenza”, nonostante la diffusa convinzione che essa descriva un fatto non una sanzione.
E, dunque, appare opportuno, ora, stabilire le premesse ontologiche esplicative delle ragioni della scelta (“accusatoria”) di limitare vizi che perpetuino gli effetti in tutto il processo, per dimostrare la forza garantista della nuova prospettiva, non l’opposta visione di mortificazione delle garanzie dell’individuo nel processo.
Il tentativo di dimostrare l’autonomia dell’accezione strettamente tecnica della categoria nel settore processualpenalistico presuppone un approccio esegetico scevro dai condizionamenti culturali e dogmatici della dottrina tradizionale, dovendosi rivolgere attenzione, non agli aspetti meramente teorici, bensì ai tratti processuali del fenomeno sanzionatorio.
Nel versante teorico si insiste sull’idea che, nella materia, si sia operato uno sforzo definitorio per certi aspetti ripetitivo della letteratura risalente alle osservazioni della situazione codicistica precedente – se non, addirittura, pregressa – e, perciò, privo di riscontri sistematici provenienti dal nuovo modello processuale.
In questa prospettiva, va precisato che le norme del vigente codice di procedura penale svolgono un ruolo primario, poiché non operano soltanto sul piano dell’organizzazione dell’esercizio della funzione di ius dicere, ma assumono un rilievo fondamentale come norme di tutela di situazioni giuridiche in movimento nel processo; sotto questo profilo, sono parte della dinamica dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, garantendone l’adattamento e lo sviluppo indispensabili per la sua conservazione nel tempo.
Più specificamente, il legislatore attraverso la tecnica descrittiva delinea la fattispecie astratta del comportamento processuale, sancendo il rapporto simbiotico tra questa e la norma processuale, che, attraverso la sussunzione di una situazione concreta, produce gli effetti correlativi, incidenti su una determinata situazione. E se l’identificazione della fattispecie dipende dalla sua struttura (= tipicità), la valenza del suo significato e della sua funzione è data dal valore protetto (= legalità), geneticamente dipendente dalla natura degli effetti che sono ricollegati all’esperienza che nominiamo “processo penale”.
Emerge, così, un dato di cui sovente non sembra tenersi adeguatamente conto: la predisposizione di uno schema legale è finalizzata alla produzione di una peculiare efficacia giuridica; e la scelta del soggetto che compie una specifica attività processuale è effettuata in vista del raggiungimento degli effetti connessi all’integrazione di una determinata fattispecie. Il che significa che gli atti processuali devono uniformarsi alla fattispecie e diventano espressione delle posizioni potenziali o assunte in concreto dai soggetti che li pongono in essere; ciò, ovviamente, significa che ai titolari di tali posizioni il legislatore ha attribuito il potere, consentendone l’esplicazione proprio – e solo – attraverso atti tipici.
 

10. Il modello logico “potere-atto-scopo” quale premessa per la determinazione del sistema sanzionatorio processuale penale
Il fenomeno va inquadrato, allora, in una dimensione più ampia; nella quale appare chiaramente che il complesso degli elementi richiesti per l’integrazione di una certa fattispecie è costruito su modello logico “potere-atto-scopo”, che descrive l’attribuzione del potere, la struttura dell’atto e la funzione che esso esplica nella progressione processuale. Sicché, qualora uno dei presupposti legittimanti l’atto o uno dei suoi elementi risulti in tutto o in parte difforme dalla fattispecie, il verificarsi delle conseguenze tipiche rimane precluso, almeno fino a che l’elemento mancante venga integrato.
Ne consegue che il concetto di “imperfezione” non fonda soltanto sull’allinearsi o sul discostarsi dell’atto rispetto alle prescrizioni dello schema; esso, cioè, non si muove in una dimensione “statica” e, quindi, limitatamente all’indagine sul meccanismo di sussunzione degli atti posti in essere nei corrispettivi modelli. Esso rileva, invece, in una innovata visione dinamica, intrinsecamente connessa alla struttura bifasica del nuovo processo. Insomma, se si considera l’attitudine di un atto a produrre effetti rilevanti ai fini dello sviluppo della progressione processuale, si scorge che l’imperfezione determinata dall’allontanamento dal modello implica una verifica approfondita, estesa al raggiungimento dello scopo dell’atto e al livello di “ferimento” della situazione soggettiva protetta, tenendo conto, cioè del valore che l’atto assume nel contesto delle attività processuali con cui viene in relazione. E dunque, la proiezione finalistica della fattispecie trascende il singolo atto viziato, collocandosi nell’ambito più ampio dello sviluppo del processo, inteso come forma di esercizio della funzione ius dicere.
L’attenzione al procedimento come realtà in movimento e come combinazione degli atti nella connessione teleologicamente preordinata alla fattispecie totale costituisce ulteriore conferma del dato che ne attesta la peculiarità per l’essere dal diritto configurato con l’immancabile effetto di indurre una situazione giuridica nella quale diviene doveroso l’agere, il procedere, ossia l’andare innanzi per il soggetto legittimato al compimento dell’atto successivo.
Sicché, a rilevare, non è la mera successione cronologica, bensì la proiezione finalistica nel tempo che determina il succedersi degli atti gli uni agli altri, procedendo l’uno verso l’altro, il precedente provocando, o comunque, eccitando il compimento del susseguente, in virtù di quella logica razionale che tesse l’intima trama del processo ed in cui si rinviene il fondamento dell’ordine estrinseco del prima e del dopo. E’ questo il carattere di necessarietà del comportamento del soggetto che motiva la eventuale connotazione sanzionatoria.
L’impostazione evidenzia la stretta funzionalità di ogni fase del procedimento a quella successiva, differentemente dalla fattispecie a formazione successiva, in cui nulla rileva il carattere libero o vincolato, eventuale o giuridicamente necessitato del divenire degli atti. Tuttavia, essa non specifica la ratio sottesa a tale meccanismo – che si rinviene nella forza dello sviluppo degli atti processuali –, inserendosi in una dimensione complessiva, che può determinare la produzione-realizzazione del fine a cui il processo è legalmente preordinato. In una dimensione totale, cioè, solo questa proiezione può determinare la produzione di effetti da parte di atti invalidi o non previsti dai modelli legali ovvero può negare che gli stessi siano prodotti da atti validi.
In definitiva, nel nostro settore, non vi è una rigida linea di demarcazione tra la perfezione dell’atto – che implica la sua corrispondenza al modello legale – e la sua imperfezione – connessa alla difformità rispetto al modello –. Nella molteplicità delle situazioni, vi sono ipotesi di inefficacia (ad esempio), in cui alla sussistenza dei requisiti previsti fa riscontro la non operatività degli effetti (artt. 27 e 309 comma 10 c.p.p. 1988); situazioni che non sempre trovano spiegazione nel fatto che, comunque, alla base si debba postulare un incompleto delinearsi dei requisiti della fattispecie. Ed è forse la mera osservazione strutturale la ragione che ha spinto la dottrina tradizionale ad espungere la inefficacia dall’ambito dell’invalidità; ma non può costituire premessa per estraniarla dalla categoria – e, prima ancora, dal concetto – di sanzione processuale.
Anzi, in certi casi, l’inefficacia – la non operatività degli effetti, cioè – non può essere ricollegata all’incompleto verificarsi dei requisiti dell’atto, ma va piuttosto rintracciata in un vizio della funzione.
Si scopre così un doppio fronte semantico del termine: l’inefficacia come effetto di un atto invalido (cfr. direttiva n. 95.2) e l’inefficacia come sanzione tout court (cfr. direttive n. 48.3 e 49.3).
In questa seconda accezione, sebbene non si possa addurre direttamente una inosservanza delle forme, si evidenzia un’incidenza negativa (questa volta sì!) sul corretto esercizio della funzione, in quanto ad essere impedito è il raggiungimento delle finalità per cui una certa attività è disciplinata, non la validità dell’atto che avrebbe dovuto produrre l’effetto.
Sul fronte opposto, poi, non mancano casi in cui, pur mancando o risultando incompleti i requisiti previsti, gli atti posti in essere si presentano nondimeno forniti di efficacia.
Da tali premesse, scaturisce che, per determinare l’efficacia e la perfezione degli atti posti in essere nell’ambito di una attività procedimentale formalizzata, non si può prescindere dall’influenza svolta da tutto il complesso di disposizioni dell’ordinamento, che direttamente o indirettamente finiscono con l’incidere sulla portata e sul significato delle norme processuali. In estrema sintesi, la determinazione della perfezione o della efficacia di un determinato atto del procedimento ha quale parametro di riferimento non solo lo schema legale e cioè la funzione-compito formalizzata, ma anche l’ufficio-organo o soggetto che pone in essere l’atto, vale a dire il profilo della funzione-ufficio (= attribuzione funzionale ovvero “competenza funzionale”) o comunque il profilo del potere attribuito.
Ed allora, l’efficacia degli atti processuali è un fenomeno che si colloca in una più ampia dimensione, che ne svela il paradigma unitario nel processo inteso come forma di esercizio della giurisdizione; ed è la congruità rispetto a questo esercizio che consente ad un atto di produrre i suoi effetti e di proiettarsi nello sviluppo del processo, assumendo, così, il carattere di necessarietà.
Dunque, il modello legale crea le condizioni affinché concretamente l’atto possa svolgere la funzione che ad esso è assegnata nella sequela procedimentale e, al contempo, offre il mezzo per la realizzazione degli interessi di chi lo compie.
In questo contesto, l’idea di validità viene ad esprimere un apprezzamento favorevole del comportamento conforme al modello tipico e la riconduzione al relativo effetto prestabilito; diversamente, la difformità diviene oggetto di una valutazione di disvalore in cui si sostanzia l’invalidità dell’atto.
La rappresentazione di questa problematica costituisce il versante del ragionamento volto a delineare i tratti della sanzione processuale. Ebbene, in questa sede, non può darsi conto delle differenziazioni dogmatiche tra la sanzione penale e quella processuale, né d’altronde è consentito addentrarsi ulteriormente nel merito degli specifici contenuti normativi; perciò, ai fini della dimostrazione dell’autonomia concettuale del termine in ambito processualpenalistico, può ritenersi sufficiente richiamare il criterio discretivo della tecnica di redazione normativa (se vuoi l’effetto giuridico B, devi assolvere all’onere A), nonché l’inscindibile concatenarsi tra potere, atto e scopo, osservato nella triplice dimensione della legittimazione all’atto, della tipicità dell’atto, dello scopo dell’atto.
In questa dimensione teleologica, insomma, la norma di comportamento è riconducibile al modello logico (potere-atto-scopo) sul quale è costruito ogni schema legale. Nella stessa dimensione può dirsi che l’atto processuale invalido si connota per l’omessa realizzazione dello schema di comportamento ovvero per la mancata attuazione della fattispecie processuale, per essere, cioè, affetto da vizio. Rispetto a questa situazione, la sanzione entra in gioco, non come mera scelta di opportunità semantica, bensì al fine di definire i rimedi contro l’eventuale inosservanza del modo di essere dell’atto processuale. Insomma, diversamente da altri settori del diritto il rapporto non attiene solo alla dimensione sanzione-atto ma anche a quella sanzione-comportamento perché il valore protetto nel processo e la sua legalità e la sua giustezza.
Se l’asserzione è corretta si può affermare che le disposizioni afferenti ai vizi dell’atto, dal punto di vista astratto, hanno forza general-preventiva, rappresentando una minaccia in caso di trasgressione; mentre, dal punto di vista applicativo, esse svolgono la funzione di ripristinare la legalità dell’atto o di eliderlo dal concreto contesto a cui si riferisce, dal momento che l’ordinamento non tollera alcuna forma di deviazione finalistica.
Epperò, se lo schema sanzionatorio non regge solo il vizio strutturale dell’atto, potendo essere prodotto dal vizio di potere – che ferisce l’atto tipico e valido in ragione di un comportamento omissivo susseguente – la sanzione-inefficacia (intesa non in termini di effetto dell’atto invalido) si colloca in un ambito “punitivo” in ragione del particolare valore della situazione soggettiva attinta.
Da questo punto di vista, si rivela la già richiamata apparente incompletezza della previsione di cui all’art. 606 lett. c) c.p.p. 1988 e, per ragioni opposte, la sua sovrabbondante schematizzazione.
Nel primo versante, essa ha sostenuto l’idea della tassatività delle sanzioni processuali, anche oltre la pervicacia di parte della dottrina e della giurisprudenza che ampliavano la nozione in termini di inesistenza e di abnormità. Eppure, ragionando, l’atto può essere invalido solo per effetto delle categorie contenute in quella disposizione, dal momento che le sanzioni processuali di origine giurisprudenziale hanno ad oggetto l’esistenza del potere legittimante all’atto (= inesistenza) o l’errore nell’uso inconsueto del legittimo potere (= abnormità); l’una e l’altra situazioni imprevedibili e neanche ora tipizzabili.
Nel secondo versante, suscita perplessità – lo si è detto – l’autonomia sanzionatoria della “decadenza”, dal momento che essa è costituita da un fatto-presupposto della invalidità di un atto di parte (nei termini di preclusione all’atto: cfr. direttive nn. 7.1; 62.12; 68.1; 75.2) e, quindi, di inammissibilità dell’atto, dovuta alla mancanza di un elemento tipico della fattispecie: es. il termine) o della inefficacia di un atto se compiuto (fuori termine) dal giudice. A meno che non si voglia ricondurre quest’ultima fattispecie alla tipologia degli atti a formazione progressiva, in cui si realizza la invalidità della fattispecie mancando l’atto (finale) dovuto per la sua validità.
In linea di principio, allora, la qualificazione di atto invalido si colloca sul piano strutturale e si riverbera su di un atto non corrispondente ad un dato modello astratto; mentre, nel profilo effettuale esso risulta inidoneo a produrre gli effetti correlativi. Quella di inefficacia, invece, si inserisce – autonomamente – nell’esercizio del potere giudiziale in quegli ambiti procedimentali in cui è dovuto – ed è richiesto – un comportamento giudiziale postumo all’atto valido che ne confermi la efficacia.
Ebbene, in entrambi i casi siamo nella categoria delle sanzioni processuali.
Pertanto, è priva di fondamento l’equivalenza invalidità =imperfezione = inefficacia in base al rilievo che non ogni atto difforme dallo schema è invalido, né lo è ogni atto improduttivo di effetti. Invero, se si consentisse ad ogni piccola divergenza di precludere la rilevanza dell’atto nella direzione finalistica in cui questo è orientato, si sottoporrebbe la vicenda processuale ad uno stato di generale e perenne incertezza. Peraltro, sebbene i vincoli formali e di contenuto degli atti attuino il principio di legalità processuale, un esasperato formalismo negherebbe a priori le condizioni per la definizione della vicenda processuale entro tempi che possano ritenersi ragionevoli, oltre che risolversi in una palmare menomazione del principio. Ed è di intuitiva evidenza il legame tra la ragionevole durata del processo e il dovere di lealtà processuale dei soggetti nell’esercizio delle proprie attribuzioni.
La relazione, invero, non rinvia ad un concetto di ontologia semantica, ma, ponendosi in una dimensione strettamente pragmatica, impone l’attenzione al corretto esercizio dei poteri processuali; anche se il fondamento dell’invalidità si sostanzia nel non assolvimento dell’onere e giustifica l’atteggiamento del legislatore che modula la disciplina del procedere secondo canoni di opportunità, mentre la ratio dell’inefficacia (intesa come sanzione non come effetto) si innesta nell’ambito della doverosità. Questi atteggiamenti, sotto il profilo sistematico, si sono tradotti in scelte di politica legislativa non rispondenti ad un’idea complessiva ed organica dei vizi afferenti al comportamento processuale.
In quest’ottica si spiega la frammentarietà della ripartizione codicistica, che presenta le sanzioni l’una disgiunta dall’altra, la decadenza come il trattamento riservato all’inosservanza dei termini; la nullità come l’effetto sanzionatorio collegato alle patologie dell’atto; la inammissibilità come vizio dello schema tipico della domanda di parte; l’inutilizzabilità come deviazione dai modi di acquisizione della prova; schematizzazione di cui si è denunziata contestuale parzialità e sovrabbondanza, ma della quale si sono evidenziate le ragioni funzionali – non solo di tecnica legislativa – utili all’inquadramento del concetto di sanzione processuale in termini processualpenalistici.
Di questo concetto – e, quindi, ai fini di rilevazione della ontologia che lo sostiene – è qui indispensabile il ricorso all’ultimo criterio rivelatore.
Invero, nel nostro ambito di osservazione, l’autonomia concettuale del termine riceve ulteriore punto di orientamento dal rilievo che, nonostante la presenza di atti viziati, la sentenza assume valore di giudicato. Ciò dirige la categoria nell’alveo dei rimedi interni (cioè non come categoria astratta o reattiva rispetto alla mortificazione giudiziale di un interesse, ma) come previsione di itinerari (questi sì) reattivi al vizio dell’atto, rivolti allo scopo di ripristinare la legalità processuale, valore coessenziale al sistema di garanzie della giurisdizione e per la giurisdizione.
Da questa ricostruzione dogmatica derivano postille irrinunciabili.
La prima. Nel nostro settore il sistema sanzionatorio si colloca nel duplice alveo preventivo e repressivo, assolvendo, l’uno, al ripristino della tipicità dell’atto (= invalidità), l’altro, alla rimozione di “atti a formazione progressiva” (= inefficacia) o di quelli che precludono l’esercizio del potere (= inutilizzabilità; inammissibilità).
La seconda. La tassatività delle sanzioni e la sua espressa predisposizione nella fattispecie normativa vietano il travasamento di ognuna di esse in situazioni in cui non v’è esplicita previsione. E’questo il senso della “tassatività”, non quello della categoria “chiusa”. In questi termini, va censurata ogni interpretazione che consente accostamenti tra “annullamento” e “nullità” o tra vizio di competenza funzionale (= abnormità) e capacità del giudice (= nullità).
La terza. A conferma, assume rilievo centrale l’osservazione secondo cui l’itinerario rimediativo è predisposto a salvaguardia di differenti valori costituzionali e, perciò, essi sono autonomi e non sovrapponibili, anche se tutti riconducibili al valore centrale della legalità del processo, costruita secondo lo schema logico-funzionalistico potere-atto-scopo. Nel ferimento di tale schema si rintraccia la matrice ontologica della sanzione processuale penale; che, quindi, si qualifica come onere di reazione alla fattispecie viziata, tutte le volte in cui il vizio non assurga a livelli di incompatibilità sistemica, violando garanzie fondamentali dell’individuo o del processo. In questo secondo ambito, la sanzione processuale assume ruolo “punitivo” attraverso la rimozione dell’atto valido (=inefficacia) o sottraendo al giudice la conoscenza di un atto invalido ( =inutilizzabilità; inammissibilità): ma pure in questi ultimi casi la vicenda è interna al processo.
E, dunque, ritenuto che l’annullamento rappresenta il contenuto di una pronuncia (cfr., ad esempio la direttiva n. 9.1) e che comunque spetti al legislatore delegato la previsione generale delle invalidità ed il regime di rilevabilità di ciascuna (cfr. direttiva n. 30), la nullità – naturale vizio dell’atto – è richiamata espressamente in delega per calcare la funzione dello schema legale della sentenza (cfr. direttiva n. 25.1) o più specificamente per richiamare l’attenzione su diritti fondamentali (cfr. direttive nn. 30.2); la inammissibilità, come effetto di vizio della domanda di parte (cfr. direttive nn. 47.2) soprattutto quando essa è a tipicità vincolata (cfr. direttive nn. 89.1; 92.6; 95.1 e 102.2) e anche quando la richiesta abbia natura probatoria (cfr. direttiva n. 80.5), producendo così – come la decadenza – l’effetto della preclusione del potere decisorio, oppure come giudizio di non ammissibilità della valutazione richiesta (cfr. direttive nn. 7.3; 47.2); ed, infine, la inutilizzabilità come categoria preclusiva del valore probatorio di atti compiuti per diversa finalità (cfr. direttive nn. 2.4; 32.1), fuori dei termini prescritti (cfr. direttive nn. 60.4) o non legittimamente acquisiti in dibattimento (cfr. direttiva n. 78.3), soprattutto per i vizi acquisitivi della prova (cfr. direttiva n. 32.1) o connessi a tassatività e/o tipicità della stessa (cfr. direttiva n. 52.3).
Sul punto va ricordato che, in ultimo esame, la Commissione non ha ritenuto di accolgiere proposte emendative relative alle direttive di cui al punto n. 32: non quella relativa alle “essenziali” modalità di acquisizione della prova previste dalla legge, per la pericolosità insita dell’aggettivo “essenziale”, che affiderebbe al giudice la vaslutazione di “non esenzialità” della modalità acquisitiva in materia – quella delle sanzioni – in cui la Commissione si è mossa nell’ottica opposta, cioè quella di sottrarre al giudice ogni spazio di discrezionalità; non quella relativa alla “disciplina dei tempi e dei modi di rilevabilità del vizio”, né l’altra relativa a specifiche ipotesi di inutilizzabilità, ritenendo che il tema delle “prove illecite” sia già racchiuso nella direttiva n. 32.2., per cui spetta al legislatore delegato la delineazione della disciplina dei rapporti – e, quindi, della punizione dei vizi – tra mezzi di ricerca della prova e acquisizione probatoria, come, peraltro, già previsto nella direttiva n. 52.3.
 

11. La prescrizione processuale
Il rapporto tra il fattore tempo e il procedimento penale è stato ritenuto, sin dall’inizio, uno dei problemi cardinali della riforma, ritenendosi ormai politicamente e giuridicamente indifendibile l’attuale disciplina della prescrizione del reato, almeno nella parte in cui estende i suoi effetti sul fenomeno processuale. Come è noto, infatti, tale disciplina è incardinata su un periodo di prescrizione del reato, che decorre nuovamente ogniqualvolta si verifichi un atto del procedimento ad efficacia interruttiva, purché non ne derivi un prolungamento del termine di prescrizione superiore ad un quarto del periodo-base (prima della l. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli, il prolungamento non doveva superare la metà). Si finisce, in tal modo, per fondere e confondere in un unico compasso cronometrico il tempo dell’inerzia e il tempo dell’intervento giudiziario. Così disciplinato, l’istituto della prescrizione appare “in difficoltà di senso”. Non vi è una sola delle sue tradizionali (ma anche delle astrattamente concepibili) giustificazioni politico-criminali, che possa valere sia per la prescrizione maturata prima del processo, sia per quella maturata in itinere iudicii.
La Commissione, pressoché all’unanimità, ha prioritariamente ritenuto necessario risolvere questa ambiguità vocazionale distinguendo (come del resto avviene, pur con soluzioni anche sensibilmente diverse, in molti Paesi europei a noi vicini) la durata della punibilità dalla durata dell’accertamento giudiziario – alias, la prescrizione del reato dalla prescrizione del processo – diversi essendo la ratio, gli interessi in gioco, la tecnica di tutela, gli effetti, il parametro di commisurazione del decorso del tempo. Un conto, infatti, è la funzione di stabilità sociale che può essere svolta dalla non perseguibilità di fatti ormai lontani nel tempo; un conto è l’interesse della persona accusata di un reato ad essere giudicata entro un determinato termine. La prescrizione del reato “certifica” l’oblìo della collettività rispetto a fatti pregressi; la prescrizione del processo, la non ulteriore protraibilità della pretesa punitiva nei confronti di un soggetto, atteso che dopo un certo lasso di tempo l’accertamento del fatto-reato è ritenuto minusvalente rispetto al pregiudizio recato all’imputato dall’ingiustificato prolungarsi del procedimento giudiziario. Fenomeni differenti anche in ordine alle conseguenze del loro operare: la prescrizione del reato produce un effetto preclusivo erga omnes; la prescrizione del processo soltanto nei confronti dell’imputato. Il tempo della punibilità è un tempo cronologico, un tempo vuoto o, meglio, indifferente a tutto ciò che si materializza durante il suo fluire (indifferente, in particolare, alla condotta dei soggetti interessati); un tempo, il cui strumento di misurazione è il calendario. Il tempo dell’agire giudiziario è invece fenomeno giuridico – scandito dall’interazione dei protagonisti, dal susseguirsi di fatti interruttivi e sospensivi- il cui strumento di misurazione è la norma. Il tempo della prescrizione del reato scorre in modo lineare e costante, mentre quello del processo in modo discontinuo, conoscendo pause e riprese.
La sequenza attuale “periodo di base aumentabile di un quarto per l’intervento di fatti interruttivi”, dunque, salda tra loro realtà eterogenee con esiti insostenibili per il sistema. Riesce ad esempio difficile spiegare perché, a parità di gravità di reato (per es. a prescrizione decennale) e di complessità di accertamento, il processo possa durare più di dodici anni o poco più di trenta mesi a seconda che la notizia di reato sia emersa a ridosso della commissione del fatto o della scadenza del termine prescrizionale. Con la conseguenza, tra l’altro, che nel primo caso, l’autorità giudiziaria sa di poter gestire senza alcuna sollecitudine il processo; nel secondo, l’imputato sa di poter utilmente puntare, attraverso una oculata strategia dilatoria, alla prescrizione. Si tratta di una incongruenza che deve essere rimossa, perché dove manca la razionalità più facilmente si annidano l’arbitrio e l’ingiustizia.
Diversa sarebbe la situazione, se il processo avesse una sua autonoma durata legale, costante, pur nel variare – del tutto casuale- del momento di avvio.
Nell’accingersi ad introdurre una prescrizione processuale, al fine di restituire razionalità ed efficienza al sistema, la Commissione si è voluta far carico anche dell’idea, immeritevolmente diffusa, secondo cui la prescrizione – a maggior ragione quella processuale – sarebbe deputata ad assicurare la ragionevole durata del processo. Durante i lavori si è più volte ribadito che si tratta di un’affermazione doppiamente falsa (non a caso l’Italia può “vantare”, in ambito europeo, il maggior numero di proscioglimenti per prescrizione e il maggior numero di condanne da parte della Corte di Strasburgo per irragionevole durata dei processi): non è vero, infatti, né che sia sempre ragionevole la durata del processo che si inscriva nei termini prescrizionali (basti pensare ai reati imprescrittibili, che ammetterebbero processi potenzialmente “eterni”), né che sia sempre irragionevole quella che li travalichi (basti pensare ad un processo che riesce a prendere avvio soltanto in prossimità della scadenza della prescrizione del reato: quasi sempre non riesce a conseguire la sua finalità cognitiva, anche se svolto nei tempi strettamente necessari). La prescrizione, dunque, è istituto funzionalmente inidoneo a realizzare un processo di ragionevole durata, nel senso sopra precisato. L’ha chiarito benissimo già da molti anni la Corte di Strasburgo: la ragionevolezza temporale del processo non può essere determinata con l’enunciazione di un termine «in giorni, settimane, mesi, anni o periodi variabili a seconda della gravità del reato» (Corte eur. 10 novembre 1969, Stogmuller), poiché il criterio di ragionevolezza dipende dalle circostanze concrete della fattispecie, e si esprime soprattutto con valutazioni ex post dei provvedimenti adottati, le quali debbono tener conto di una varietà di parametri, che vanno dalla complessità del caso al numero degli imputati, dalla condotta dell’autorità giudiziaria a quella delle parti private. Il meccanismo prescrittivo –quindi- non è istituzionalmente vocato ad assicurare la ragionevole durata del processo; se ben calibrato può, semmai, indirettamente sollecitare un giustizia più rapida e, qualora fallisca, impedirne una dall’insostenibile durata.
Ma qui sta il vero cuore del problema. Nel manovrare lo strumento della prescrizione processuale, infatti, è doveroso avere una consapevolezza: si tratta di agente terapeutico e patogeno ad un tempo. Da un lato, induce nell’autorità giudiziaria sollecitudine ed economie organizzative per scongiurarla; dall’altra, spinge le parti private ad escludere definizioni anticipate e a protrarre con ogni mezzo il processo – soprattutto con un uso strumentale del diritto di impugnazione- per lucrarne gli effetti estintivi. Bisogna compiere il massimo sforzo per scongiurare questo deleterio “effetto collaterale”, senza rinunciare però alla funzione di garanzia e di “metronomo giudiziario”, che la prescrizione – ove sapientemente disciplinata – può svolgere.
Su queste considerazioni si è registrata una sostanziale unanimità in Commissione, mentre orientamenti diversificati sono emersi con riguardo alle modalità di realizzazione di tali obbiettivi, a seconda che si sia privilegiata la funzionalità del processo (intesa come capacità di assolvere il suo fine istituzionale di cognizione e di decisione) o la garanzia dell’imputato ad essere giudicato entro termini certi e legalmente predeterminati.
Una delle soluzioni più discusse, che ha registrato ampi e incondizionati consensi, ma anche ferme critiche, è così sintetizzabile. La ferita sociale del delitto può essere sanata in due modi: con la cicatrizzazione del tempo o con la “sutura” della risposta giudiziaria. La prima evenienza ricorre quando l’apparato giudiziario non sa, non vuole o non riesce ad intervenire: dopo un certo numero di anni la società valuta più funzionale alla stabilità sociale l’oblìo, piuttosto che la riesumazione dell’evento (prescrizione del reato). Quando, invece, prima che maturi la prescrizione del reato, gli organi giudiziari deputati promuovono l’accertamento della responsabilità, imputandola ad un soggetto determinato, non c’è più spazio per l’ “amnesia” estintiva del reato: la collettività vuole “ricordare” e giudicare. Ma ciò non può avvenire per un periodo indefinito: l’ accusato ha diritto di conoscere il responso giudiziario in un tempo congruo, decorso il quale, il giudice deve emettere un provvedimento di non doversi procedere ( prescrizione del processo). Se la sentenza, invece, viene pronunciata entro il termine previsto per la prescrizione del processo, si possono prefigurare due situazioni. 1) Il pubblico ministero impugna e – per il suo tramite – lo Stato implicitamente ammette che ancora non è stata fornita la “giusta” risposta giudiziaria in ordine all’accusa mossa: i termini di prescrizione del processo continuano a decorrere. Il giudice dell’impugnazione deve pronunciare una sentenza di non doversi procedere per prescrizione del processo, se questi dovessero maturare prima della sentenza sull’impugnazione. 2) Impugna il solo imputato per chiedere un controllo del fondamento della sentenza, che il p.m, e, per il suo tramite, l’ordinamento, ritengono invece “giusta”. La posizione soggettiva dell’imputato muta: da diritto ad essere giudicato entro un determinato tempo a diritto ad un controllo della correttezza del giudizio subìto. I termini della prescrizione non decorrono. Resta all’interessato la facoltà, comunque, di lamentare l’eventuale irragionevole durata complessiva del processo, ove questo si protragga ingiustificatamente. Anzi, è stato proposto, di prevedere che l’accertamento della irragionevole durata del processo da parte di istanza nazionale o sopranazionale possa dar luogo ad esiti che vanno dall’equo indennizzo alla ineseguibilità della pena. Una interessante soluzione intermedia è quella, affermatasi soprattutto in Germania, di concedere attenuanti in considerazione dell’entità del pregiudizio subito dall’imputato per l’irragionevole protrarsi del processo. Si è anche proposto di porre un ulteriore argine alla protraibilità incontrollata della durata del processo: prevedere termini di fase, la cui inosservanza colpevole comporti la responsabilità disciplinare del magistrato procedente.
Neppure con questi accorgimenti, la soluzione in questione è riuscita a catalizzare il largo consenso che, su un tema tanto delicato, sarebbe auspicabile. Né sono riuscite nell’intento altre proposte, pur a lungo e attentamente discusse, che si sono mosse all’interno della logica sottesa alla soluzione appena illustrata, per cercare di trovare un più convincente “spartiacque” tra prescrizione sostanziale e prescrizione processuale. Invece che nell’atto di esercizio dell’azione penale, è stato suggerito da alcuni di individuarlo nella formulazione dell’accusa durante le indagini preliminari (per portare sotto il presidio della prescrizione processuale la fase delle indagini preliminari), da altri nella sentenza di primo grado (per ricollegare ad un atto del giudice e non del pubblico ministero la decorrenza dei termini prescrizionali; nonché per la difficoltà di sottoporre a credibili cadenze temporali le fasi precedenti la pronuncia di primo grado).
Il punto di maggiore resistenza incontrato dalla proposta sinteticamente illustrata, e dalle sue interessanti variabili “interne”, è senza dubbio quello riguardante la non operatività del meccanismo prescrizionale a seguito dell’impugnazione del solo imputato. Alcuni componenti della Commissione, infatti, hanno ritenuto troppo alto il rischio che il processo –senza la prospettiva di un “capolinea” cronologico- venga lasciato andare alla deriva, inadeguate apparendo le controspinte esercitate dalla riduzione di pena e dalla responsabilità disciplinare del magistrato, nei casi in ui si registrino ingiustificati ritardi.
Di segno diverso sono state altre impostazioni -che hanno propiziato un approfondito dibattito, senza peraltro suscitare larga condivisione- nelle quali prevaleva la preoccupazione di garantire una sorta di diritto dell’imputato alla prescrizione. A parte quella intesa ad introdurre una modifica minimale all’assetto attuale – alla cui stregua il maturare della prescrizione sostanziale non interromperebbe il processo, né precluderebbe l’accertamento della responsabilità, ma imporrebbe comunque di dichiarare l’estinzione del reato – è stato anche proposto di ricostruire il sistema nel senso di ammettere che la prescrizione sostanziale operi sino alla sentenza di primo grado e che soltanto dopo la sua pronuncia scatti una prescrizione processuale cadenzata sui diversi gradi di impugnazione, indifferente al soggetto impugnante.
L’ipotesi che è riuscita a coagulare maggiori consensi e che si è tradotta nella direttiva in commento, è stata frutto di un non facile compromesso tra l’esigenza di scongiurare che la prescrizione possa costituire prospettiva agevolmente conseguibile per l’imputato, inducendolo a rinunciare ai riti speciali e a prolungare al massimo i tempi di conclusione del processo, e la preoccupazione che i tempi di questo si dilatino inammissibilmente nei gradi di impugnazione, qualora si stabilisca che la prescrizione non operi più dopo la sentenza di primo grado impugnata dal solo imputato. Ferma restando la scelta di escludere la dichiarabilità della prescrizione del reato nel corso del processo, cioè dopo l’esercizio dell’azione penale, si è prefigurato un sistema di termini di durata massima per le singole fasi e per i diversi gradi del processo, in modo da evitare che l’eccessivo protrarsi di un segmento processuale renda molto più “appetibile” e meno evitabile il maturare della prescrizione nel successivo. Nelle determinazione dei termini massimi di fase il legislatore dovrà tener conto di molteplici fattori, tra i quali, doverosamente, di indici di complessità del processo, i quali, più della gravità del reato, sembrano idonei a determinare una durata legale credibile della singola vicenda giudiziaria. Si tratta, certo, di un parametro di difficile determinazione, ma che marca qualitativamente la differenza tra la prescrizione del reato (tarata sulla gravità del fatto) e la prescrizione del processo (tarata sulle oggettive esigenze di accertamento del fatto). Un ulteriore strumento per modulare il fenomeno prescrizionale sul caso concreto è poi costituito dall’istituto della sospensione del decorso del termine, che deve peraltro essere declinato in una seria legalmente predeterminata di casi, ad evitare abusi applicativi. L’inosservanza del termine di fase o di grado comporterà l’obbligo del giudice, in ogni stato e grado del processo, di definirlo con sentenza dichiarativa dell’improseguibilità dell’azione, salvo che non ricorrano gli estremi per il proscioglimento nel merito.
Va precisato – e sul punto la Commissione si è a più riprese soffermata, addivenendo a conclusioni pressoché unanimi – che il processo, comunque si concluda (fisiologicamente, con una sentenza nel merito, ovvero con una pronuncia dichiarativa dell’improseguibilità dell’azione), è ininfluente sulle sorti della prescrizione del reato, i cui termini continuano a decorrere a prescindere dalla vicenda giudiziaria che di esso si occupa. E ciò non solo nei confronti dei soggetti diversi dall’imputato, con la conseguenza che – ove questi venga assolto – ben sarebbe possibile avviare un processo a carico di altri, se non è ancora maturata la prescrizione sostanziale; ma anche nei confronti dell’imputato stesso, con la conseguenza che, nei pochissimi casi in cui è consentito (sentenza di non luogo a procedere, erronea dichiarazione di morte,sopravvenienza della condizione di procedibilità originariamente carente), sarebbe consentito procedere di nuovo a suo carico, sempreché – ovviamente- il reato non si sia ancora prescritto. Si potrebbe conclusivamente dire che nella nuova disciplina la prescrizione del reato e quella del processo sono tra loro del tutto indipendenti, nel senso che l’una è ininfluente sull’altra e viceversa.
Peraltro, la Commissione, nella seduta del 20 febbraio 2008, considerate le osservazioni dell’Ufficio Legislativo del Ministero, ha confermato la scelta, chiarendo che il contrasto con la disciplina prevista nei due d.d.l. d’iniziativa del Mnistro della Giustizia (d.d.l. n. C 2664 e d.d.l. n. C 3241) è di mera apparenza, dal momento che la diversa disciplina prevista nell’articolato, meglio risponde al sistema da esso predisposto, diversamente dalle iniziative “emergenziali” che razionalizzavano la “novità” al sistema attualmente in vigore. 
 

12. La giurisdizione
L’idea di fondo coltivata dalla Commissione in tema di giurisdizione è stata quella di far fare un ulteriore passo avanti al nostro processo, che affonda le sue origini nell’inquisitorio, ma che è trascinato, con il codice dell’88, verso l’accusatorio ed è approdato, con l’art. 111 Cost., allo schema dell’”equo processo”; un passo avanti nella direzione di dotarlo di un maggior respiro “giurisdizionale”, nonché di costituirlo – si vedrà – come reale ed originale “processo di parti”. In altri termini, si è voluto assegnare un più ampio spazio alla “cultura della giurisdizione”.
La giurisdizione penale, come è noto, è uno di quegli argomenti al quale il legislatore del 1988 ha posto maggiore attenzione – si è parlato, infatti, di “preminenza della giurisdizione” –, invertendo l'ordine di trattazione contenuto nel vecchio codice, che iniziava con l'azione, ed esordendo con la disciplina concernente i soggetti e in particolare il giudice, proprio per esaltare la prevalente funzione di garanzia che il codice riveste.
Il segno è dato dall'art. 1 c.p.p. 1988, secondo il quale «La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario (art. 102 Cost.; art. 1 ord. giud.) secondo le norme di questo codice».
Ebbene, il contenuto della disposizione, di tono evidentemente recettizio è apparsa singolare e, per certi aspetti, pleonastico se lo si osserva esclusivamente in rapporto al suo oggetto. E viceversa, esaminata dal punto di vista simbolico e funzionale, la la norma assume più pregnante significato, dal momento che – storicamente – rappresenta il capovolgimento di una consuetudine legislativa risalente all'inizio della codificazione napoleonica e – politicamente – la rottura di una continuità d'impostazione codicistica rivolta a dirigere l'obiettivo sull'azione quale momento centrale dell'accertamento penale. Dal punto di vista simbolico, dunque, l'incipit codicistico rappresenta il superamento di una acritica continuità storica e all'interno dello stesso, l'abbandono del sistema processuale di tipo inquisitorio che ha caratterizzato – almeno nell'Europa continentale – le scelte sul processo penale da tempi risalenti. Da questo punto di vista il segnale è stato immediatamente colto dalla dottrina, anche perché – opportunamente – l'innovazione è esaltata nella Relazione al Codice.
Qui si legge che «per quanto in particolare attiene al capo I, dedicato alla giurisdizione, il codice e ancora prima il Progetto definitivo hanno accolto, con riguardo all'esercizio dell'azione penale, il suggerimento della Commissione parlamentare optando per la soppressione dall'art. 1 del Progetto preliminare dell'inciso di chiusura («salvo quanto stabilito da speciali disposizioni»), che avrebbe potuto assumere un significato ambiguo: poiché le sole giurisdizioni alle quali si riferiva la «salvezza» garantita dal detto inciso sono contemplate dalla Costituzione (Corte costituzionale e tribunali militari)» (Rel. def. C.p.p. 1988). Si afferma, perciò, in commento all'articolo in questione, che «le norme di apertura del nuovo codice, prima ancora che per contenuti, meritano di essere considerate per il significato innovativo che rivestono sul piano dell'assetto sistematico» e che esse manifestano « le novità di sistema: dall'azione alla giurisdizione», nonché, con toni più problematici, che esso rappresenta l'esordio del processo penale di parti.
Epperò, se è vero che il primo articolo di un codice risponde (=deve rispondere) ad esigenze simboliche capaci – in una con altri spunti testuali – di orientare interpreti ed operatori attraverso «messaggi programmatici» e «qualche principio generale» e così costituire guida esegetica e supporto utile anche a colmare inevitabili lacune mediante agli usuali strumenti di eterointegrazione normativa; e, di conseguenza, se è vero che, nel caso di specie, a quelle esigenze fa fronte un profondo mutamento di prospettiva rispetto al codice del 1930, che mette in risalto «una diversa filosofia di codificazione e, soprattutto, precise scelte sulle funzioni «istituzionali» del processo penale e sulle correlative attribuzioni dei soggetti chiamati a vario titolo a prepararlo, farlo vivere e definire», è anche vero che la disposizione (anzi, il capo intero), rifuggendo da tentazioni definitorie, delinea l'ambito operativo del giudice penale all'interno di un arco costituzionale che concretizza le ragioni di essenza e di legittimità della giurisdizione, oltrechè le garanzie ordinamentali per i magistrati ed i diritti fondamentali dell'individuo.
In questo contesto, giurisdizione-giudice-processo sono termini che evocano, non solo un contesto organizzativo, ma la rappresentazione – dal punto di vista oggettivo, soggettivo e strumentale – di un momento essenziale della vita sociale e giuridica «che non può essere compreso se non nella integrale contemplazione di quella vita e delle sue profonde strutture», nonché il senso della legittimazione democratica della giurisdizione penale, perché solo attraverso essa e nel processo si realizza il controllo diffuso della validità istituzionale delle leggi. Perciò, appare indispensabile raccogliere il senso del «primato della giurisdizione» recepito nell'art. 1 c.p.p. ‘88 ed oggi soprattutto nell'art. 11 Cost., nonché le ragioni dell'ampliamento della cognizione del giudice penale nel nuovo contesto codicistico.
Peraltro, la mancanza della «necessaria chiarezza» e della «concordia di idee» sul concetto di giurisdizione (denunciato da Redenti all'inizio del secolo scorso) ha avuto eco in una delle più recenti riflessioni di Salvatore Satta, che coglieva quei connotati negativi nella tendenza a «ricondurre la giurisdizione allo Stato, qualificandola come sua funzione di cui si ricerca il contenuto specifico, in contrapposto ad altre particolari funzioni» (S. Satta, voce «Giurisdizione (nozioni generali)», in Enc. dir., XIX, Milano, Giuffrè, 1970, p. 219). Questo atteggiamento della dottrina, come tutti gli sforzi tesi a definire lo «scopo» e i «compiti» della giurisdizione, derivano, in sostanza, dall'equivoco della entificazione dello Stato come ente «altro» dalla societas e dalla necessità dello stesso di «distinguersi» in poteri e/o funzioni, manifestate – appunto – dalla giurisdizione, dalla amministrazione, dalla legislazione.
In questo contesto si è sviluppata la tendenza ad unificare il dogma-giurisdizione ora come luogo di attuazione del diritto, ora come forma di composizione della lite, ora come realizzazione delle sanzioni; oppure come sostituzione dell'attività pubblica all'attività altrui e via dicendo, tutti connotati che ne sostituiscono «caratteri» non la essenza. Peraltro, siffatte definizioni, manifestando lo stretto legame tra legge e giurisdizione e soprattutto la supremazia assoluta della prima, sembrano legate ad un'idea di Stato liberale di diritto, non all'attuale Stato costituzionale ed alla centralità della persona e della societas che esso riconosce e dei bisogni cui esso fa fronte. Epperò, sia la filosofia dello «spirito aperto» - in virtù della quale «la costituzione si apre in avanti, al futuro, istituzionalizzo esperienze (aperture al passato) e lasciando spazio per gli sviluppi dello spirito dell'uomo e della sua storia» (K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, II, Armando, Roma, 1974, p. 180) – sia, ed a maggior ragione, il costituzionalismo contemporaneo – per il quale la Costituzione deve essere intesa come stadio della cultura o come dimensione culturale attraverso la quale si cura la protezione dei bei fondamentali della persona (P. Haberle, Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, a cura di P. Ridola, Roma, 1993, 65) – riconoscono alla giurisdizione una posizione dinamica quale momento essenziale di organizzazione della societas:ed in questi termini si risolve il principio politico della tripartizione delle funzioni (o dei poteri) dello Stato. Ebbene, il punto di vista delle istituzioni politiche nonché l'assetto costituzionale e ordinamentale della giurisdizione confermano l'idea di chi reputa la giurisdizione come «fenomeno organizzativo della società», come «affermazione dell'ordinamento nel caso concreto» o come «concretamente dell'ordine giuridico» e, quindi, come situazione corrispondente alla giustizia, a condizione che essa non rinunzi, mai, ai suoi connotati di essenza: potere cognitivo e potere potestativo (S. Satta, op. cit., 128).
Osservando i testi normativi, la identificazione è fornita dall'art. 101 Cost. – per il quale la giustizia è amministrata in nome del popolo – e dalle norme dell'ordinamento giudiziario, ove si sviluppa la personalizzazione della «amministrazione della giustizia», vuoi quanto alle materie (l'art. 1 ord. giud., ad esempio, recita «La giustizia, nelle materie civile e penale, è amministrata: a) dal giudice di pace; b) omissis; c) dal tribunale ordinario; d) dalla corte di appello; e) dalla corte di cassazione; f) dal tribunale per i minorenni; g) dal magistrato di sorveglianza; h) dal tribunale di sorveglianza») vuoi quanto alla funzione l'art. 65 ord. giud., ad esempio, definisce la Cassazione come supremo organo di giustizia).
Ebbene, la risoluzione della giurisdizione nella giustizia, per un verso, «assume valore strettamente giuridico assurgendo ad un autentico sinonimo dell'ordinamento»; per altro verso dimostra che «assume valore strettamente giuridico assurgendo ad un autentico sinonimo dell'ordinamento»; per altro verso dimostra che «l'area della giustizia è più vasta di quella della legge»: «essendo la legge astratta, è assolutamente impossibile (sul piano giuridico) parlare di giustizia per la legge, in quanto la giustizia si realizza in concreto ed ha un senso solo del concreto» (S. Satta, op. loc. cit.). In questa opera di «personalizzazione» (=concretizzazione) del fatto si analizza la giurisdizione, che implica la radicale negazione di ogni rapporto formale e, in positivo, la ricreazione del diritto nel fatto, dal momento che diritto e fatto sono oggetti del giudizio e, quindi, esistono solo attraverso il giudizio; convinzione qui riportata, non nell'ottica della esigenza del superamento del rapporto di strumentalità tra diritto sostanziale e processo, qui in conferente, ma solo ai fini dei bisogni semantici e definitori del vocabolo “giurisdizione”.
Peraltro, di siffatta posizione dommatica, si rinviene autorevole testimonianza nell'art. 111 Cost. che combina i connotati di essenza del giudice con i bisogni del «giusto-processo» e, quindi, legittima la giurisdizione attraverso il rispetto delle regole di garanzia per l'individuo.
Siffatta definizione comporta dei corollari. Il primo. Proprio perché la giurisdizione esprime l'affermazione dell'ordinamento nel caso concreto, essa costituisce il luogo «naturale» ove esso si realizza. Come tale la giurisdizione è l'unico momento essenziale della organizzazione della societas, perché senza la giurisdizione verrebbe meno lo stesso ordinamento, o meglio la giuridicità dell'ordinamento, che è giuridico, appunto, solo in quanto può (e deve) essere afermato (S. Satta, op. loc. cit.). A causa di ciò essa ha riconoscimento costituzionale sia sotto il profilo delle garanzie della organizzazione dell'ordine delegato a gestirla (art. 102 ss. Cost.), sia sotto il profilo delle garanzie dei soggetti che la attuano (art. 101 e 112; 109 Cost.), sia, infine, sotto il profilo delle regole fondamentali che la guidano (art. 111 ss. Cost.) e dei diritti inviolabili dell'individuo (art. 24, 25, 13 ss., ecc. Cost.). Va aggiunto che la scansione dei diversi profili «organizzativi» - qui singolarmente non evocabili – costituiscono altrettanti aspetti della giurisdizione, convergenti nell'interna reciprocità strumentale e rivolti alla formalizzazione del «giusto processo» e della «giusta sentenza», espressioni che evocano il principio fondamentale della legalità non solo quale regola di condotta della giurisdizione, ma soprattutto quale fonte di legittimazione del «potere» che la pronuncia.
Dunque, la giurisdizione penale, intesa come potere attribuito al giudice imparziale di risolvere la controversia con una cognizione dei fatti in contraddittorio tra le parti poste in posizione di parità, si attua mediante il processo, e più esattamente, a norma dell'art. 111 comma primo Cost., «mediante il giusto processo regolato dalla legge». Trattandosi di un “fenomeno della vita”, è evidente che la giurisdizione non può essere ridotta ad un mero concetto. Nonostante la consapevolezza del valore convenzionale della definizione, poiché questa coglie soltanto una parte del fenomeno e non tutto, la stessa presenta, tuttavia, una grande utilità, in quanto orienta in ordine al riconoscimento del grado di garanzia che l'attività osservata assicura, o meglio, a livello di protezione che si vuole attribuire agli interessi anche processuali coinvolti nella contesa e, pertanto, in definitiva, alla scala di valori che si vuole disegnare con il modello di processo penale adottato.
Mentre la giurisdizione è unica, i modelli di processo nei quali essa si svolge possono essere diversi, perché diverse sono le fattispecie concrete e tale diversità si riflette fortemente nel modo in cui la giurisdizione si esplica; perché, appunto, “la giurisdizione è l'affermazione dell'ordinamento nel caso concreto”. Anche nel campo del processo, deve valere il principio di efficacia degli strumenti rispetto allo scopo. Quindi pluralità di modelli processuali correlati alla varietà e complessità delle situazioni concrete; scelta già operata dal legislatore del 1988 ma che ora va verificata in relazione alla loro disciplina e all'esistenza di altri eventuali meccanismi processuali di definizione di controversie non contemplati.
Il processo penale, invero, non è un laboratorio scientifico dove si ricerca la pura verità, ma un meccanismo tecnico – immerso nel mondo dei valori, che non possono non esprimersi in concetti – diretto agli obiettivi pratici di risoluzione delle controversie intercorrenti tra le parti nella prospettiva di realizzazione della giustizia.
Nella nozione di giurisdizione penale cui abbiamo accennato, come emerge anche dall'art. 111 Cost., balzano evidenti due concorrenti funzioni, una cognitiva e una potestativa. Perché si attui una piena giurisdizione entrambe devono essere presenti: questo è il canone aureo della decisione che definisce la controversia. La rilevanza della funzione cognitiva può facilmente cogliersi nella disciplina che, anche in un processo di parti, attribuisce al giudice l'ordinario e generale potere di acquisire la prova d'ufficio. Certo esistono alcuni atti del processo in cui appare prevalente l'una o l'altra funzione, a seconda degli scopi del singolo atto. Soltanto, però, dalla concorrente presenza, anche successiva al compimento dell'atto, dell'una e dell'altra si può dire realizzata la garanzia propria della giurisdizione, che è, soprattutto, tutela del diritto delle parti al processo. Le considerazioni valgono per la fase della cognizione – dove vengono in rilievo i temi del diritto al processo e dei diritti nel processo – e per la fase dell'esecuzione, dove emerge urgente la necessità di assicurare l'effettività della pena, ma non trascurare la protezione dei diritti del condannato.
Poste queste premesse, le questioni si iscrivono su due piani. Il primo quello dei modelli di processo penale possibili; il secondo quello del grado di attuazione della giurisdizione nel processo penale vigente.
A) Sul piano dei modelli:
1) Un argomento fondamentale è quello relativo al principio di obbligatorietà o di opportunità dell'azione penale. L'argomento, come è evidente, riguarda aspetti ordinamentali, ma non solo, perché condiziona la possibilità d'introdurre modelli più facilmente realizzabili dalla prospettiva di opportunità della persecuzione. È evidente, infatti, che sotto il profilo di efficacia del modello di processo penale, l'adozione del principio di opportunità dell'esercizio dell'azione penale allarga le possibilità di alternative al processo.
2) Risolta positivamente la questione intorno all'obbligatorietà dell'azione penale, si è dovuto agire negli spazi che vengono lasciati liberi da tale regola. E va mantenuto l'assetto attuale nel codice di un itinerario processuale ordinario costituito da indagine, udienza, dibattimento e impugnazioni, con la conseguenza che procedure diverse si caratterizzino per una maggiore rapidità determinata dalla presenza di situazioni – soggettive e/o oggettive – che suggeriscano la mancanza di qualche tappa di questo itinerario, sempre che l'imputato non manifesti diversa volontà.
In altri termini, delineato il modello ordinario di processo penale si specificano quelli ‘deviati' (diversion), la cui pratica reale, però, è affidata al consenso della parte.
Comunque, va mantenuto sempre fermo il principio fondamentale che non esiste la funzione giurisdizionale senza l'esercizio dell'azione penale (ne procedat iudex ex officio). L'adempimento dell'una condiziona lo svolgimento dell'altra e ognuna di esse spetta a un soggetto diverso. Se così è, può essere solo collocata in un ambito di eccezionalità e auspicabilmente giustificata con parametri costituzionali, un'attività giurisdizionale che non sia conseguente all'esercizio dell'azione (per es. l'attuale disciplina dell'incidente probatorio nella fase delle indagini); così come va ricordato a “razionalità accusatoria” il decreto penale di condanna.
Peraltro, nonostante l'auspicio di parte della Commissione – soprattutto la componente accademica – non è risultata praticabile l'adozione di una vera e propria azione penale privata: utile per rendere più efficace e rapido il sistema penale; per dare una maggiore garanzia di tutela alla posizione dell'offeso e per dare attuazione alla ragionevole durata che, come è noto, è sempre in “funzione del primario interesse alla realizzazione della giustizia” (Corte cost., sent. n. 345 del 1987).
Del resto, essa darebbe piena attuazione al “diritto alla giurisdizione”, che spetta ad ogni cittadino a norma dell'art. 24 Cost. (in proposito, v. Corte cost., sent. n. 137 del 1984 e 131 del 1996). La prospettiva, ancora, risulterebbe particolarmente utile in un sistema di esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero orientata dalla fissazione di criteri di selezione. È noto a tutti, infatti, che l'eccessivo carico giudiziario impone una selezione degli affari penali operata sulla base non di una indebita discrezionalità dell'organo d'accusa, ma di parametri dettati da criteri predefiniti. La quota degli esclusi sconterebbe una irragionevole ingiustizia se non potesse godere di un accesso al processo penale anche mediante azioni private, che realizza una maggiore protezione per la vittima offesa dal reato, né si può ritenere che un'azione privata per una quota di reati nei quali l'offesa al bene privato sia prevalente rispetto all'interesse generale della collettività.
Le perplessità politiche per siffatta, condivisa operazione, hanno però preso il sopravvento, consigliando di affidare il tema al Parlamento, che, ove lo riterrà, ne potrà prevedere forme e disciplina sulla scorta della innovazione realizzata nel processo innanzi al giudice di pace (cfr. § 26).
Ulteriore innovazione suggerita anche dai Protocolli internazionali è quella relativa alla previsione di cui alle direttive 2.1. e seguenti in tema di mediazione, che, recuperata al suo significato originario, viene resa itinerario autonomo ed alternativo – praticabile nelle ipotesi in cui il legislatore delegato riterrà – rispetto alla giurisdione penale, che comunque ad avviso della Commissione non po’ mai inserirsi nel processo, per cui la previsione di quell’itinerario è predisposta per la fase delle indagini preliminari; nel senso che, proprio in ragione della specifica natura della mediazione, essa non può più essere praticata quando mediante l’esercizio dell’azione penale interviene la giurisdizione penale.
Di essa sono noti i caratteri fondamentali, dalla autonomia rispetto alla giurisdizione alla terzietà del soggetto mediatore, nonché la inutilizzabilità degli elementi emersi nella fase della mediazione ai fini del processo penale. Invero, se le caratteristiche fondamentali sono contestualmente la prevalente natura intersoggettiva dei fatti dei quali si discute in tale sede e la necessaria spontaneità dei protagonisti della stessa ai fini della composizione della lite, che punti soprattutto alla presa di coscienza da parte dell’autore del reato della illegalità e dannosità del fatto compiuto, i loro naturali corollari sono che essa si svolga davanti ad un soggetto terzo, non davanti al giudice; che si svolga con semplicità di forme ed in camera di consiglio; che le parti abbiano tranquillità quanto alle dichiarazioni che intendono fare in quella sede, per cui in ragione di tali presupposti nessun contributo processuale in senso proprio può essere fornito se non quello del risultato posiitvo della mediazione ai fini della pronuncia giurisdizionale di archiviazione del fatto, oppure quello del fallimento della stessa ai fini della prosecuzione del procedimento penale. Dunque, se nel periodo della mediazione – ovviamente estremamente concentrato – non può sottrarsi all’autorità penale procedente il compimento di atti urgenti, tuttavia il prosieguo della vicenda penale non può non essere naturalmente vincolato all’esito del tentativo di mediazione. Su queste premesse si predispongono le direttive di delega di cui al punto 2.3. che descrivono le linee essenziali della materia.
Peraltro, questa forma alternativa al processo si inserisce in una nuova linea di razionalità funzionale del processo, che affida le esigenze di deflazione soprattutto alla parte iniziale dello stesso e soprattutto per le materie di minore gravità. Per queste, invero, possono rintracciarsi oggi ben cinque itinerari – mediazione; archiviazione per tenue offensività del fatto; competenza del giudice di pace e “azione privata”; decreto penale di condanna; “nuovo” giudizio direttissimo – per far fronte alla maggiore quantità di ricorso alla giurisdizione penale, anche in considerazione del fatto che comportamenti per far fronte alla maggiore quantità di ricorso alla giurisdizione penale, anche in considerazione del fatto che comportamenti itenuti meramente devianti solo pochi anni fa hanno assunto oggi rilievi di allarme e pericolosità sociale tali da far prevedere la permanenza di tali fattispecie nel codice penale e, quindi, i limiti attuali di una politica di depenalizzazione congeniale ai principi del “diritto penale minimo”.
Sempre in materia di giurisdizione, poi, si sono prese in considerazione le caratteristiche particolari delle fattispecie di criminalità organizzata, al fine di congegnare una disciplina più appropriata in ordine all’uso dei mezzi di ricerca della prova e alle regole probatorie (cfr. § 14).
Si è fatto fronte al fenomeno del c.d. gigantismo del pubblico ministero, ampliando e definendo meglio la fase delle indagini, come procedimento in cui si svolge la giurisdizione: si è rinvigorito in sede dibattimentale, il rapporto fra prova e giudizio e rafforzata la funzione cognitiva della giurisdizione, eliminando canali di conoscenza “oscuri” che eludono, in qualche modo, il vero e proprio contraddittorio; non è risultato praticabile, il c.d. processo bifasico che esaltando la diversità delle caratteristiche della giurisdizione di accertamento rispetto a quelle concernenti l’applicazione della sanzione e le prospettive di rieducazione, evita che la pena irrogata sia o che possa essere completamente cambiata, e talora addirittura annullata, dal giudice di sorveglianza, sulla base di valutazioni riguardanti sopratutto la personalità del reo, fenomeno che comporta rimbalzi sulla effettività della pena.
A proposito dei modelli di processo penale, ancora, si è ritenuto che la “impossibile depenalizzazione” non potesse non riversare effetti sulla organizzazione degli itnerari processuali.
Si vuol dire che, avendo la cultura giuridica di questo Paese abbandonata la risorsa del “diritto penale minimo” – anche in ragione della sempre più frequente commissione di fatti penali un tempo definiti di microcriminalità, ma che oggi hanno abbandonato tale caratteristica – si rende opportuno prendere coscienza che l’aumento del carico giudiziario penale dipende anche dalla moltiplicazione delle fattispecie penali. Su queste premesse, la Commissione ha ritenuto che per queste fattispecie fosse necessario ipotizzare una pluralità di itnerari processuali, idonea a sfoltire il carico sin dalla prima fase del procedimento, per riservare il processo c.d. ordinario a quei fatti che suscitano maggiore allarme sociale e per i quali è doverosa l’offerta delle risorse proprie della giurisdizione penale. Su questo terreno, dunque, il legislatore delegato dovrà stabilire limiti qualitativi e quantitativi per la pratica di tali itinerari, definiti, oltre che con la competenza penale del giudice di pace (§ 26) e col ricorso alla mediazione di cui si è detto, con la “tenue offensività del fatto” (§ 18); con la “pena concordata (§ 20); con la citazione diretta in caso di arresto in flagranza (§ 22), nonché col procedimento per decreto (§ 25).
In questa direzione, poi, anche al fine di realizzare spinte premiali che consentano di anticipare la condanna all’udienza di conclusione delle indagini (cfr. § 19) si sono raccolte funzioni esecutive e funzioni di sorveglianza nell’unico giudice della pena (cfr. § 28).
Le direttive da 7.1 a 7.4, nel disciplinare il difetto di giurisdizione e l’incompetenza del giudice, si ispirano alla esigenza – ritenuta prioritaria dalla Commissione – di anticipare, per quanto possibile, la definizione delle questioni sulla competenza e, nel contempo, di evitare la regressione del procedimento alla sua fase iniziale, per effetto del tardivo rilievo o deduzione delle medesime questioni.
In questa prospettiva, la Commissione ha valutato positivamente l’opportunità di predisporre il regolamento preventivo di competenza, che non abbia peraltro efficacia sospensiva sul procedimento in corso e la cui soluzione sia affidata al pronto e risolutivo intervento della Corte di cassazione, organo naturalmente deputato a decidere in subiecta materia. Si è avuto, pertanto, cura di prevedere analiticamente:
- la fissazione di perentori termini di decadenza per il rilievo e la deduzione delle questioni di competenza per qualsiasi causa, con l’unica eccezione riguardante il caso che il reato appartenga alla cognizione del giudice di competenza superiore;
- il generale divieto di regressione del processo alla fase delle indagini preliminari innanzi al pubblico ministero, fatta salva la rimessione in termini dell’imputato per l’esercizio, davanti al giudice competente, del diritto di accesso ai riti alternativi, in conformità alla ratio decidendi delle sentenze della Corte costituzionale nn. 76 e 214 del 1993 e n. 70 del 1996;
- il regime di conservazione di efficacia delle prove già acquisite, fatta salva la rinnovazione di quelle dichiarative davanti al giudice competente, secondo modalità prestabilite, nonché delle misure cautelari adottate dal giudice incompetente, all’esito peraltro della tempestiva convalida da parte del giudice competente;
- la perimetrazione delle distinte aree di operatività del regolamento preventivo di competenza e dei conflitti di competenza, alla cui tradizionale e ormai sperimentata disciplina si è ritenuto di non apportare sostanziali modifiche;
- la semplificazione delle forme del procedimento camerale di risoluzione del regolamento o del conflitto di competenza davanti alla Corte di cassazione, che decide immediatamente, in entrambi i casi, “con ordinanza e in camera di consiglio”;
- l’efficacia preclusiva endoprocessuale delle decisioni della Corte di cassazione in materia di competenza, con l’esclusivo limite dei “nova” che comportino una diversa definizione giuridica del fatto, da cui derivi la cognizione di un giudice di competenza superiore.

13. Gli atti
Nonostante il primo criterio direttivo della legge-delega del 1987 imponesse la «massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale» (art. 2, n. 1 L. 16 febbraio 1987, n. 81), la vigente codificazione è stata e continua ad essere caratterizzata da un particolare irrigidimento di forme, dal momento che, nel quadro dell’attuale sistema processuale, predominano gli atti a forma vincolata.
Estranea ai previgenti corpora normativi, una direttiva ad hoc in materia di forma degli atti s’imponeva soprattutto al fine di recepire quei criteri di efficienza coessenziali al principio del «giusto processo», privilegiando la conoscenza effettiva dell’atto processuale piuttosto che la fredda sacralità di forme non sempre “giustificate” dagli effetti cui l’atto medesimo è preordinato.
In questo senso, rispetto all’art. 2 n. 8 della legge-delega n. 81 del 1987 («adozione di strumenti opportuni per la documentazione degli atti processuali; previsione della partecipazione di ausiliari tecnici nel processo per la redazione degli atti processuali con adeguati strumenti, in ogni sua fase; possibilità che il giudice disponga l’adozione di una diversa documentazione degli atti processuali in relazione alla semplicità o alla limitata rilevanza degli stessi ovvero alla contingente indisponibilità degli strumenti o degli ausiliari tecnici»), la direttiva n. 23.1 esordisce delegando il legislatore tecnico quanto alla «determinazione della forma degli atti e delle modalità di documentazione» e continua (n. 23.2.) prevedendo «l’uso di mezzi elettronici e telematici nelle relazioni tra i soggetti del processo».
Le due disposizioni tendono inequivocabilmente a garantire la massima duttilità nella circolazione degli atti del procedimento. Nondimeno, il principio di legalità processuale è salvaguardato dall’espresso riconoscimento di una discrezionalità legislativa volta a prevedere forme ad hoc in relazione a particolari esigenze.
Con riferimento specifico ai modi della circolazione, la direttiva n. 23.2. esprime la massima apertura alle innovazioni tecnologiche che siano in grado di accelerare la diffusione della conoscenza degli atti processuali.
Del pari ignote alle precedenti leggi-delega, le disposizioni di cui ai n. 23.3. e 23.4. ineriscono al regime dei termini nel processo penale.
Trattasi, in primo luogo, dei termini perentori, da predeterminare «per il compimento di specifici atti». La necessità di attribuire espressamente siffatto potere al legislatore delegato deriva dalla proprio dalla natura di tali termini, i quali, fissati per la costituzione, lo svolgimento o la conclusione di un processo, sono destinati a coincidere con un momento trascorso il quale il soggetto decade dal diritto ovvero dalla facoltà di compiere fruttuosamente un determinato atto.
In prospettiva correlata, concernendo termini previsti a pena di decadenza e/o inammissibilità, la direttiva n. 23.4. impone al legislatore delegato di disciplinare la «restituzione nel termine in coerenza con il sistema delle notificazioni e delle impugnazioni».
A parte quanto si dirà a proposito della notificazione della citazione, la disciplina delle notificazioni non introduce novità di rilievo: la direttiva 24.1. rimette al legislatore delegato la predeterminazione delle forme e dei modi per le notificazioni, indicando soltanto il criterio guida della semplificazione del sistema. La semplificazione potrà aver luogo anche mediante il ricorso ai più moderni sistemi di comunicazione, di cui è dato un esempio specifico nella direttiva 24.9. che fa riferimento alle notificazioni al difensore mediante posta elettronica.
Il sistema cambia radicalmente per quanto riguarda la notificazione della citazione contenente la contestazione dell’accusa, che deve essere sempre consegnata nelle mani dell’imputato (direttiva 24.2.). La norma è la premessa per l’abolizione del processo in contumacia come attualmente configurato, sostituito dalla sospensione del dibattimento a tempo indeterminato quando all’imputato non comparso la notificazione non è stata effettuata personalmente; mentre se l’imputato ha ricevuto a mani la citazione si può dare per certa la sua conoscenza del procedimento e, in caso di mancata comparizione, si può procedere in sua assenza (si veda la direttiva 71 e la relazione sul punto). Non è dunque ammessa, per la citazione, la notificazione a persone diverse dall’imputato, anche se conviventi; come pure, a maggior ragione, non è sufficiente il semplice avviso di deposito con lettera raccomandata, che assicura la mera conoscenza legale dell’atto. Soltanto il rifiuto di ricevere l’atto è considerato equivalente alla conoscenza effettiva (direttiva 71.1).
Date le conseguenze della mancata consegna nelle mani dell’imputato, era necessario evitare che potesse risultare troppo facile sottrarsi alla notificazione, paralizzando così la prosecuzione del dibattimento. E’ stato pertanto stabilito che la notificazione non riuscita debba essere ripetuta dalla polizia giudiziaria, anche con l’impiego di poteri coercitivi, che consentano l’accesso forzoso nei luoghi dove si può reperire l’imputato. A riguardo la direttiva 24.4. prevede l’emissione, da parte dell’autorità giudiziaria, di un ordine di notificazione coattiva, e la direttiva 24.5. la sua esecuzione da parte della polizia giudiziaria. Alcuni commissari hanno ritenuto sproporzionato l’accesso forzoso nel domicilio privato solo per eseguire una notificazione a mani. L’istituto è stato però disciplinato in modo da consentirne l’impiego solo se impossibile procedere altrimenti: infatti, secondo la direttiva 24.3., in caso di impossibilità di consegna personale, l’atto deve essere depositato e l’imputato invitato a ritirarlo, e soltanto in caso di mancato ritiro entro il termine stabilito si può procedere a notificazione coattiva. Inoltre nella direttiva 24.5 si specifica che l’accesso è destinato solo alla notifica, e non può essere strumentalizzato per altri fini. Se poi la polizia giudiziaria, in presenza di un ordine di notificazione coattiva, reperisce in altro modo, anche occasionalmente, il suo destinatario, ha il potere di accompagnarlo nei propri uffici per la consegna dell’atto, ed esclusivamente a questo scopo (direttiva 24.6). In ogni caso dovranno essere adottate le cautele necessarie alla tutela dei diritti della persona.
Non sembrano fondati i dubbi di legittimità costituzionale avanzati in alcuni pareri, essendo sempre richiesto un atto motivato dell’autorità giudiziaria, in presenza di presupposti determinati dalla legge, che lasciano presumere la volontà del destinatario di sottrarsi alla notificazione. Quanto alle perplessità di ordine pratico, occorre tener conto della necessità di assicurare l’effettiva conoscenza dell’atto da parte del destinatario. In ogni caso è rimessa al legislatore delegato l’articolazione di un sistema che assicuri effettività senza rinunciare alle garanzie.
Una disciplina diversa deve invece essere adottata quando si tratti di imputato latitante (che cioè si è sottratto deliberatamente all’esecuzione di un provvedimento dell’autorità giudiziaria), poiché la procedura descritta in tal caso si rivela ovviamente insufficiente; tanto più che la latitanza presuppone sempre un reato relativamente grave. Lo stesso si può dire per l’imputato irreperibile nel caso di delitti di criminalità organizzata o di terrorismo, che presuppongono un contesto nel quale può essere assicurata una irreperibilità di lunga durata, difficilmente superabile con l’ordine di notificazione coattiva. In queste ipotesi, coerentemente con la scelta di consentire il processo in assenza ove risulti la volontà dell’imputato di sottrarsi alla conoscenza del procedimento (direttiva 72), dovranno essere stabilite regole specifiche per la notificazione della citazione, ad esempio la consegna al difensore (direttiva 24.8). Non è sembrato opportuno equiparare tout court l’irreperibile al latitante, come da qualcuno è stato suggerito, fuori dai casi particolari specificamente indicati, perché verrebbe a cadere l’intero sistema, volto a garantire fin dove possibile l’effettiva conoscenza dell’atto.
La direttiva 24.7 impone all’imputato che abbia ricevuto personalmente la citazione, l’obbligo di eleggere domicilio per le successive notificazioni. In mancanza, le successive notificazioni saranno eseguite presso il difensore. La direttiva va letta nel senso che, in mancanza di elezione di domicilio, le notificazioni successive alla prima saranno fatte al difensore di fiducia ritualmente nominato. Il chiarimento supera la osservazione dell’Ufficio Legislativo del Ministero del 28 gennaio 2008, essendo chiaro il principio che all’imputato sono dovute esclusivamente le citazioni inerenti alla contestazione dell’accusa ed alla vocatio in iudicium, mentre ogni altra comunicazione va data al suo difensore di fiducia.
La concreta disciplina dell’elezione di domicilio e delle notificazioni al difensore è rimessa al legislatore delegato.
La direttiva 25.1., nel disciplinare, tra i requisiti della sentenza, i contenuti della motivazione, s’ispira innanzitutto alla esigenza di costruire, nel contesto del libero (ma non arbitrario) convincimento del giudice, il modello legale della motivazione “in fatto” della decisione, nella quale risulti esplicito il ragionamento probatorio sull’intero spettro dell’oggetto della prova, che sia idoneo a giustificare razionalmente la decisione secondo il modello inferenziale indicato, per la valutazione delle prove, nella successiva direttiva 33.1.
Con particolare rigore, all’esito di un ampio dibattito, è stata sottolineata l’esigenza, coerente con il processo di tipo accusatorio, che risultino enunciate nella motivazione della sentenza anche le ragioni poste a fondamento del giudizio di inattendibilità delle prove contrarie acquisite.
La Commissione ha considerato che solo la motivazione in fatto così rigorosamente costruita, con riguardo alla tenuta sia “informativa” che “logica” della decisione, possa costituire l’effettivo paradigma devolutivo sul quale posizionare la facoltà di impugnazione delle parti e i poteri di cognizione del giudice dell’impugnazione, con specifico riferimento ai capi e ai punti della decisione ai quali si riferisce la medesima impugnazione, nonché alle prove di cui si deduce l’omessa assunzione, ovvero l’omessa o erronea valutazione: in tal senso, la direttiva 25.1. ben si raccorda con la successiva direttiva 94.2. in materia di appello.
La direttiva 25.1. concerne esclusivamente i profili innovativi del contenuto della motivazione, potendosi poi arricchire, in sede di attuazione della delega, mediante l’enumerazione degli altri, tradizionali, requisiti della sentenza; così come la successiva direttiva 25.2, che pure rinvia ai decreti attuativi la precisa predeterminazione dei casi di nullità della sentenza.
La direttiva 26 definisce la tipologia delle sentenze di merito che il giudice è chiamato a pronunciare, evidenziando in particolare le regole di giudizio da applicare secondo i principi generali del processo penale ed in conformità ai parametri costituzionali, fra i quali in primo luogo la presunzione di non colpevolezza, sulla quale deve sempre essere misurata la decisione. Viene riproposto testualmente il criterio dell’accertamento della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio” (26.1), riprendendo la dizione recentemente introdotta nel codice di rito, che formalizza un dato ormai acquisito dalla dottrina e dalla migliore giurisprudenza. Anche se la formula rituale si addirebbe più propriamente alle istruzioni da fornire alla giuria popolare, che non all’operato di giudici professionali consapevoli che il dubbio favorisce sempre l’imputato, il principio in essa sintetizzato non può essere trascurato, allo scopo di destituire di fondamento qualunque interpretazione tendente ad addossare forme più o meno velate di onere probatorio all’imputato, in maniera sicuramente incompatibile con l’art. 27 comma 2 della Costituzione. In questa prospettiva, la direttiva 26.2. ribadisce che l’insufficienza o contraddittorietà della prova comporta l’assoluzione dell’imputato, allo stesso modo della prova del tutto mancante.
La medesima direttiva 26.2, insieme alla 26.3, richiama l’esigenza di adeguare le formule di assoluzione o di proscioglimento alle conclusioni raggiunte nell’accertamento. Si è deciso di non abolire tale differenziazione, perché servente, al tempo stesso, ai diritti e alle facoltà della parte civile e alla legittimazione all’impugnazione. Le direttive sottintendono la tassatività delle suddette formule, insieme col dovere di farne menzione nel dispositivo della sentenza. Per l’indispensabile raccordo con la direttiva 65.1, viene inclusa fra le cause di assoluzione o proscioglimento anche la particolare tenuità del fatto, che può evidentemente essere accertata anche dopo l’esercizio dell’azione penale.
Resta fermo, anche se non è parso necessario farne espressa menzione, il principio generale dell’immediata declaratoria delle cause di non punibilità. Il dovere del giudice di disporre d’ufficio il proscioglimento resta implicito nella direttiva 26.4., che si preoccupa principalmente di riconoscere il diritto dell’imputato al proscioglimento nel merito anche in presenza di una causa di estinzione del reato (cui è stata aggiunta, in coerenza con la nuova disciplina dei tempi processuali, la prescrizione del processo), e il correlativo dovere del giudice di privilegiare il proscioglimento pieno quando sia possibile.
E’ stata molto discussa in Commissione l’opportunità di una previsione generalizzata della rifusione delle spese processuali all’imputato prosciolto, in aggiunta a quella introdotta dalla direttiva 91.2 per il giudizio di impugnazione nel caso di inammissibilità o di rigetto dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero. Anche se l’affermazione del principio ha un forte valore ideologico e di civiltà giuridica, non si possono nascondere gli inconvenienti che - a prescindere dagli aspetti economici, assai rilevanti in un sistema nel quale le sentenze di proscioglimento sono circa il cinquanta per cento - potrebbero derivare da una sua attuazione rigorosa, che potrebbe prestarsi a facili strumentalizzazioni. Si è dunque concluso per la necessità di prevedere forme di salvaguardia, con riferimento sia alle formule di proscioglimento che possono dar luogo alla rifusione delle spese, sia ai presupposti specifici, mediante la clausola dei “giusti motivi”, rimettendo al legislatore delegato la messa a punto di un sistema equilibrato, sulla base dei criteri indicati. La presenza di tale clausola, peraltro, supera anche le osservazioni dell’Ufficio Legislativo del Ministero in data 28 gennaio 2008, perché essa affida alla “responsabilità” del giudice del vaglio dei presupposti in virtù dei quali è consentita la condanna alle spese.
La concreta articolazione della normativa da parte del legislatore delegato dovrà tener conto anche delle preoccupazioni avanzate in alcuni pareri circa la previsione di forme di “soccombenza” dell’accusa, che non potrà certo essere la medesima esistente nel processo civile.
Ripetitiva della formulazione utilizzata nell’art. 2, n. 26 della legge-delega del 1987, l’attuale direttiva n. 27 impone – sulla scorta di consolidata tradizione – al giudice penale di decidere, in sede di condanna, anche sull’azione civile esercitata nel processo penale. Quando condanna l’imputato (e l’eventuale responsabile civile) al risarcimento del danno, è tenuto a provvedere contestualmente alla liquidazione, salvo ce le prove acquisite non lo consentano. Solo in questa ipotesi gli sarà consentito rimettere le parti innanzi al giudice civile e la parte civile potrà allora ottenere la condanna al pagamento di una provvisionale. La condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno, viceversa, può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva, a richiesta della parte civile, quando ricorrono giustificati motivi valutati discrezionalmente.
Le direttive n. 28 e n. 29 riguardano il regime dei segreti nel processo.
Parzialmente coincidente con l’art. 2 n. 70 della legge-delega del 1987, la direttiva n. 28 conferma la legittima opponibilità del segreto di Stato, fatti salvi i casi di reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale, nonché del segreto professionale, ivi compreso quello giornalistico limitatamente alle fonti delle notizie, salvo che le notizie stesse siano indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità possa essere accertata soltanto attraverso l’identificazione della fonte della notizia.
Innovativa, rispetto all’omologa direttiva del 1987, la n. 28.5. – in una logica di strategia complessiva di contrasto al crimine organizzato – riconosce al pubblico ministero il potere di trasmettere copia di atti del procedimento ed informazioni circa il loro contenuto ad una diversificata congerie di organi amministrativi quali il presidente del Consiglio dei ministri (per le esigenze di sicurezza della Repubblica), il ministro dell’Interno ed i Prefetti (per finalità di prevenzione di gravi delitti), l’Amministrazione finanziaria, il procuratore regionale presso la Corte dei conti competente per territorio, nonché, infine, le Autorità indipendenti per l’esercizio delle rispettive attribuzioni.
In prospettiva diversificata, la direttiva n. 29 riguarda il segreto sugli atti investigativi. Anche in questo caso, a parte una precisazione di ordine linguistico sub n. 29.2. (divulgazione e pubblicazione, in luogo di pubblicazione) è stata sostanzialmente riprodotta la direttiva n. 71 del 1987, la quale garantisce il segreto investigativo degli atti di indagine, sino a quando l’imputato (ma anche la persona sottoposta ad indagini) non possa averne conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari. All’obbligo del segreto è correlato un generalizzato divieto di divulgazione e di pubblicazione, dettato, per un verso, dalla medesima esigenza di tutelare l’efficacia delle indagini e, per altro verso, dalla necessità di tutelare i c.d. soggetti deboli.

14. La prova
Le direttive sulle prove mantengono come base di partenza la disciplina originariamente introdotta con la riforma del 1988. Il libro quarto del codice era forse uno dei meglio riusciti, rappresentando, sia pure con qualche comprensibile imperfezione e qualche ambiguità di dettato che sono state messe in evidenza dalla pratica, un corpo normativo solido e coerente che si ispira alla migliore tradizione scientifica, rivisitata alla luce del modello accusatorio.
Soltanto in alcuni casi si è ritenuto necessario aggiornare o riformulare completamente le norme, come ad esempio per quanto riguarda le intercettazioni e i prelievi coattivi di materiale biologico, che richiedevano da tempo un intervento organico del legislatore; mentre di regola si è proceduto soltanto a correzioni e ad un migliore coordinamento, anche in ragione del nuovo assetto complessivo del sistema disegnato con l’attuale delega.
La prova rappresenta sempre il punto centrale dell’esperienza processuale, e la relativa disciplina contribuisce a qualificare e caratterizzare l’intero contesto del codice.
Fra le disposizioni generali, non si poteva che esordire col riconoscimento espresso del diritto alla prova, principio non solo da tempo acquisito nella nostra cultura giuridica, ma oggi consacrato anche dall’articolo 111 della Costituzione, oltre che dalle carte internazionali dei diritti. La direttiva 31.1, che peraltro riproduce sostanzialmente, con una formulazione più appropriata, la direttiva corrispondente della delega del 1987, attribuisce in termini generali al pubblico ministero e alle parti private il diritto all’ammissione e all’acquisizione delle prove non vietate dalla legge, che non siano manifestamente superflue o irrilevanti. Viene espressamente richiamato, inoltre, il divieto di impiegare metodi lesivi della libertà morale della persona. Per le modalità di ammissione della prova in dibattimento va fatto riferimento alle direttive 72 e 73.
L’unica limitazione al diritto alla prova è prevista nei processi di criminalità organizzata, per fattispecie tassative che dovranno essere specificate dal legislatore delegato (direttiva 31.2). Nonostante alcune opinioni favorevoli alla totale abolizione del potere del giudice di rifiutare la ripetizione dell’esame dibattimentale dei soggetti già sentiti in contraddittorio, è infine prevalsa l’esigenza di preservare il buon andamento dei giudizi più complessi e difficili, tra cui in particolare quelli per reati di mafia, tutelando contemporaneamente il dichiarante dai rischi connessi, in quel tipo di processi, ad una ripetuta esposizione al pubblico. Del resto, nonostante il sacrificio dell’oralità/immediatezza, il principio costituzionale del contraddittorio resta salvaguardato, dato che si richiede che al contraddittorio abbia preso parte la persona nei cui confronti le dichiarazioni sono destinate ad essere utilizzate. Logico corollario è che il giudice deve sempre ammettere l’esame se riguarda fatti diversi da quelli oggetto delle dichiarazioni precedentemente rese; è poi enunciata una clausola di chiusura che prevede comunque l’ammissione dell’esame sulla base di specifiche esigenze, che potranno essere di volta in volta apprezzate dal giudice od anche prospettate dalle parti.
Vengono infine confermate le analoghe cautele già stabilite dal codice vigente con riferimento ai testimoni minori di anni sedici, come forma di protezione da un evento traumatico qual è la deposizione in dibattimento sui fatti che li hanno visti coinvolti. Pure in questa ipotesi i casi dovranno essere predeterminati dal legislatore delegato, il quale potrà prendere in considerazione anche reati diversi, benché non meno gravi, di quelli di violenza sessuale e di pedofilia attualmente contemplati come presupposto per l’esclusione del dovere di sentire il testimone minore.
La direttiva 31.3 riconosce in via generale, e non solo per la fase del dibattimento, il potere del giudice di ammettere prove d’ufficio ove risulti assolutamente necessario ai fini della decisione. Viene tuttavia specificato che deve trattarsi di elementi di prova “ulteriori” rispetto a quelli introdotti dalle parti, e ciò ad evitare che il giudice possa sostituirsi alle parti nella ricerca e nell’acquisizione al processo dei dati occorrenti per l’accertamento dei fatti, svolgendo un’attività di carattere inquisitorio che ne pregiudicherebbe inevitabilmente la terzietà. E’ comunque prevista la facoltà delle parti di chiedere, all’esito, l’ammissione di nuove prove, in aggiunta al diritto, già riconosciuto dalle Sezioni unite della Cassazione e dalla giurisprudenza prevalente, di ottenere che alla prova acquisita d’ufficio faccia seguito l’ammissione delle eventuali prove contrarie.
La direttiva 32.1 indica l’inutilizzabilità come forma specifica di invalidità per le prove vietate dalla legge. Non si è precisato nella delega il regime dell’invalidità, con riferimento, ad esempio, alla sua rilevabilità e agli effetti sul provvedimento che abbia tenuto conto della prova inutilizzabile. Nonostante un’ampia discussione ed alcune proposte avanzate in Commissione, si è ritenuto preferibile rimettere la concreta disciplina alle scelte del legislatore delegato, che dovrà coordinarla con quella relativa alle altre specie di invalidità e al regime delle impugnazioni. La stessa conclusione è stata raggiunta per quel che riguarda il riconoscimento della possibilità e delle eventuali conseguenze di un’acquiescenza delle parti. Accogliendo parzialmente un rilievo della Corte di cassazione, con la direttiva 32.2 si è precisato che - ferma restando l’inutilizzabilità delle prove vietate - le violazioni concernenti le forme e le modalità di ricerca o di acquisizione della prova siano causa di inutilizzabilità nei soli casi espressamente previsti dalla legge. Tali casi, in aggiunta a quelli previsti direttamente nella delega (ad esempio nella direttiva 40.12 sulle intercettazioni), saranno determinati di volta in volta in relazione a singole fattispecie, eventualmente anche con riguardo alle prove reperite illecitamente. Non è invece sembrato opportuno restringere in via generale l’ambito di incidenza di questa patologia, poiché si tratterebbe di un passo indietro rispetto alla disciplina attuale.
L’ammissione delle prove non disciplinate dalla legge è consentita dalla direttiva 32.3 previo contraddittorio delle parti, che dovranno essere sentite non solo sulle modalità di assunzione della prova, ma sull’ammissibilità stessa della prova atipica. Ciò significa fra l’altro che il mezzo di prova, che fosse stato acquisito al di fuori del procedimento probatorio espressamente nominato dal codice, non potrà essere considerato ammissibile a posteriori, in ragione della sua pretesa atipicità, ma dovrà essere preventivamente qualificato come tale con un formale provvedimento da assumersi in contraddittorio.
In particolare, per eliminare una prassi corriva che talvolta trova credito in giurisprudenza, si è ritenuto necessario specificare che non può mai essere considerata prova atipica la prova acquisita in violazione delle norme che regolano il procedimento probatorio tipico: in altre parole, la prova disciplinata dalla legge, ma irritualmente acquisita, non può essere ammessa come prova atipica, perché ciò consentirebbe l’aggiramento del principio di legalità della prova. Così, nella medesima direttiva si esclude che la prova illegittima perché non conforme al modello legale possa diventare ammissibile come se non fosse prevista dalla legge: essa sarà comunque soggetta alle conseguenze stabilite dalle norme sull’invalidità, a seconda del tipo di violazione, fino alla nullità o all’inutilizzabilità.
Con la direttiva 32.3 si è inoltre voluto ribadire, anche se forse lo si sarebbe potuto ritenere implicito, il divieto di ammettere come prove atipiche quelle che violino la libertà morale della persona: nessuno strumento, ancorché oggi non immaginabile, inteso a forzare la psiche dell’individuo può trovare spazio in un processo rispettoso dei diritti individuali.
Nella direttiva 33 si fa riferimento al principio del libero convincimento del giudice, con una formula che lo collega, com’è ovvio, al dovere di motivare la decisione (per la specificazione dei requisiti della motivazione della sentenza si rimanda alla direttiva 25 e al relativo commento). Viene sottolineato, anche se dovrebbe darsi per scontato, che il libero convincimento può esercitarsi soltanto sulle prove legittimamente acquisite, dato che il principio di legalità della prova non può essere superato dalla personale opinione del giudice maturata al di fuori dei canoni stabiliti dalla legge. Non mancano infatti tuttora orientamenti giurisprudenziali tendenti a degradare le prove illegittime ad elementi di probatio minor ma pur sempre valutabili, in nome di un libero convincimento inteso come esercizio di un potere sottratto a limiti legali.
La direttiva 33.2 contempla, senza definirla, la prova indiziaria, prevedendo la necessità che la legge imponga una particolare cautela nella sua valutazione, sulla base di criteri specifici e più rigorosi; lo stesso si richiede per quanto riguarda i contributi narrativi dei quali, secondo la regola di esperienza già attualmente codificata, è meno probabile l’attendibilità, provenienti da coimputati o imputati di reato connesso o collegato. Stando al parere della procura generale di Bologna, l’omessa menzione dell’inapplicabilità dei limiti di prova stabiliti dalle leggi civili può essere intesa come soppressione della regola di valutazione di cui al vigente art. 193 c.p.p.: per evitare possibili equivoci, è stata aggiunta una direttiva (33.3) la quale richiede che i casi di operatività dei predetti limiti siano espressamente previsti (come attualmente per le questioni di stato di famiglia o di cittadinanza).
Passando dalle disposizioni generali a quelle concernenti i singoli mezzi di prova, la direttiva 34 disciplina la testimonianza, secondo criteri da tempo consolidati. Tutti hanno la capacità di testimoniare, nonché l’obbligo di presentarsi al giudice e di rispondere secondo verità; la legge tuttavia deve prevedere casi di incompatibilità (ad esempio per i soggetti che partecipano ad altro titolo al processo) e facoltà di astensione, come quella dovuta alla tutela dei prossimi congiunti o all’esistenza di un segreto professionale o d’ufficio. La disciplina dei segreti è contenuta nella direttiva 28, in quanto limite di carattere generale non solo al dovere di testimoniare ma anche ai poteri di indagine del pubblico ministero.
La direttiva 34.2 ammette in linea di principio la testimonianza indiretta. Tuttavia, trattandosi di una prova che viene acquisita in deroga al principio di oralità/immediatezza, si prevede la necessità di una verifica, che normalmente avrà luogo mediante l’audizione del teste di riferimento, e un’utilizzabilità limitata, che non consenta di sostituire il testimone indiretto a quello indiretto se non nei casi in cui non sia possibile procedere altrimenti, e sempre che non si tratti di notizie di cui è ignota la fonte. Viene ribadito invece dalla direttiva 34.3 il categorico divieto di testimonianza della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni ricevute nel corso delle indagini da testimoni (oltre che dai soggetti indagati), che rappresenta una delle chiavi della separazione tra indagini preliminari e dibattimento caratterizzante il sistema in senso accusatorio. Non a caso era partita dall’abrogazione di tale regola l’involuzione in senso inquisitorio propiziata dalla giurisprudenza costituzionale del 1992.
Nella direttiva 34.4 si prevede la possibilità dell’esame a distanza dei testimoni e degli imputati di un reato connesso, in casi tassativamente predeterminati e con le dovute garanzie. Nonostante alcune perplessità che continua a suscitare in linea di principio la sostituzione del collegamento audiovisivo al contatto diretto del dichiarante col giudice, occorre dare atto che l’istituto ha dato finora buona prova, superando anche il vaglio della Corte costituzionale.
Accogliendo un rilievo della procura generale di Bologna, nella direttiva 34.5 si prevede la predeterminazione delle modalità di ascolto del minore.
La direttiva 35 contiene il catalogo delle prove tipiche che debbono essere disciplinate espressamente dal codice. Non ci sono indicazioni specifiche per ciascun mezzo di prova, se non quelle concernenti le garanzie minime imprescindibili: fra queste, la facoltà di non rispondere dell’imputato e delle altre parti private esaminate come tali, la tutela dell’attendibilità delle ricognizioni (alle quali sarebbe opportuno che si procedesse di regola con incidente probatorio), i poteri del giudice nella perizia, il divieto di acquisizione dei documenti anonimi. La direttiva 35.6, nella logica della semplificazione, consente l’acquisizione a fini di prova delle sentenze irrevocabili.
Con la direttiva 36 si prevedeva l’abolizione del dovere di testimoniare dell’imputato che nel corso delle indagini preliminari abbia reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altre persone. La cosiddetta “testimonianza assistita” ha distorto il fondamentale principio nemo tenetur se detegere e ha creato complicazioni - spesso inutilmente, in considerazione dei modesti risultati pratici - per la doppia veste, di imputato e di testimone, attribuita al medesimo soggetto.
La testimonianza obbligatoria dell’imputato non è necessaria, contrariamente a ciò che spesso viene sostenuto, per realizzare il contraddittorio nella formazione della prova e il diritto al controesame: il principio del contraddittorio non implica affatto che tutte le prove a carico debbano essere acquisite, specie se ciò entra in conflitto col diritto di difesa del dichiarante. La soluzione più equilibrata resta quella che prevede l’inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni dell’imputato che non abbia scelto di testimoniare; tanto più che, se è necessario che tali dichiarazioni non vadano perdute, lo strumento di elezione dev’essere l’incidente probatorio. Anche la Corte europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa nel senso appena indicato.
L’incompatibilità a testimoniare dell’imputato in procedimento connesso o collegato era stata pertanto ripristinata, con l’unica, ragionevole eccezione nel caso in cui l’imputato sia uscito dal processo conclusosi con una sentenza irrevocabile, anche di condanna. Non è peraltro esclusa la testimonianza volontaria, e non coercibile, dell’imputato in dibattimento, che al momento dell’esame davanti al giudice decida di farlo, nella piena consapevolezza delle conseguenze della sua scelta (sul modello del vigente art. 210 comma 6 c.p.p.). L’abolizione del dovere di testimonianza dell’imputato che abbia reso dichiarazioni contra alios nel corso delle indagini preliminari è stata tuttavia criticata dalla Corte di cassazione e dalla procura generale di Torino. Tale possibilità, dopo animata discussione e nonostante alcuni dissensi, è stata ripristinata, ma con accorgimenti volti ad assicurare che l’acquisto della qualità di testimone sia il risultato di una scelta volontaria e consapevole. Si è pertanto previsto che qualora vengano rese dalla persona sottoposta a indagini dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri, il pubblico ministero debba interrompere l’interrogatorio ed avvertire il dichiarante (secondo un meccanismo per molti versi analogo a quello disciplinato dal vigente art. 63 c.p.p.), il quale acquisterà la qualità del testimone solo nel caso che accetti espressamente di continuare a rispondere.
Va da sé che la medesima ratio consente di ritenere ammissibile la testimonianza volontaria dell’imputato anche in sede di incidente probatorio; e che in ogni caso, pur trattandosi di testimonianza, andranno applicate le regole di valutazione della prova indicate alla direttiva 33.2 per i contributi narrativi provenienti da soggetti che abbiano interesse a un determinato esito del procedimento.
Resta comunque ferma l’incompatibilità per i casi in cui il dichiarante erga alios sia coimputato del medesimo reato.
La direttiva 36.5 prevede che in tutti i casi in cui l’imputato assume la qualità di testimone debbano essere assicurate garanzie contro l’autoincriminazione, che vanno dal diritto di non rispondere a singole domande all’eventuale assistenza del difensore. La norma è dettata con specifico riferimento alla testimonianza su fatti concernenti la responsabilità di altri, ma non se ne esclude l’applicabilità alla testimonianza su fatto proprio, qualora il legislatore delegato volesse introdurre la testimonianza volontaria dell’imputato, con obbligo di verità, in luogo o accanto all’esame.
La direttiva 37 contempla le ispezioni e le perquisizioni, prevedendo che i casi siano predeterminati dalla legge, trattandosi di provvedimenti restrittivi della libertà personale o di domicilio. Secondo le direttive costituzionali in materia, è inoltre richiesto un atto motivato dell’autorità giudiziaria. La direttiva 38 si occupa invece del sequestro probatorio: il relativo potere è attribuito all’autorità giudiziaria (di regola, il pubblico ministero), che dovrà esercitarlo con provvedimento motivato, soggetto a riesame. Non è stata accolta la proposta di unificare in un unico istituto il sequestro probatorio e quello preventivo attribuendo in entrambi i casi il potere di disporlo al pubblico ministero, poiché la distinzione corrisponde ad una palese diversità di funzione dei due tipi di sequestro, probatoria in un caso, cautelare nell’altro. La polizia può procedere a perquisizioni e sequestri nei soli casi d’urgenza, come è stabilito nella direttiva 52.6: beninteso, in tale ipotesi l’operato della polizia dovrà essere convalidato dall’autorità giudiziaria competente. La direttiva 38.3 riconosce all’interessato la facoltà di chiedere la restituzione della cosa sequestrata, e di adire il giudice in caso di rifiuto. La direttiva 38.5 impone al pubblico ministero di rimettere gli atti al giudice (col suo parere, che in questo caso sarà negativo) qualora non intenda accogliere la richiesta di sequestro probatorio proposta dall’imputato o dalla persona offesa.
La direttiva 39 colma la lacuna normativa che si era venuta a creare in seguito alla sentenza della Corte costituzionale che aveva ritenuto i prelievi ematici lesivi della libertà personale, e quindi soggetti alla disciplina dell’articolo 13 della Costituzione per quanto riguarda la predeterminazione legislativa di casi e modi, oltre alla previsione dell’atto motivato dell’autorità giudiziaria. La mancata introduzione di una normativa specifica ha reso pertanto impossibile l’impiego di strumenti di indagine che comportino l’esecuzione coattiva sulla persona di accertamenti o prelievi che abbiano carattere invasivo.
La materia è estremamente delicata, e lo testimonia l’ampio dibattito che si è svolto in commissione per trovare il giusto equilibrio tra le esigenze probatorie e la tutela della libertà personale. Un commissario ha anche proposto di sopprimere la direttiva, ma la maggioranza ha ritenuto necessario che una disciplina fosse introdotta, con le cautele necessarie ad evitare abusi.
Il presupposto è che manchi il consenso della persona interessata, e l’oggetto è rappresentato dai prelievi di materiale biologico (sangue, saliva, capelli) o dagli esami medici strumentali (ad esempio le radiografie, che attualmente la Cassazione ritiene, discutibilmente, soggette alla disciplina delle ispezioni). Il legislatore delegato dovrà comunque delimitare tassativamente i tipi di prelievo o di esame ammissibili, anche in ragione del loro livello di invasività ed in relazione alle garanzie specifiche di cui si dirà fra breve.
Gli atti di questo tipo sono ammessi solo se indispensabili ai fini dell’accertamento, e solo per reati predeterminati. Il provvedimento motivato è di competenza del giudice, ma il pubblico ministero può intervenire con proprio decreto nei casi d’urgenza, salvo convalida da parte del giudice: non è sembrato opportuno riservare il provvedimento esclusivamente al giudice, dato che il suo intervento in sede di convalida è garanzia sufficiente, come del resto è previsto per le altre restrizioni della libertà personale. La medesima procedura si applica nel caso in cui si renda necessario l’accompagnamento coattivo della persona.
Quanto alle garanzie specifiche della persona da sottoporre a prelievo o esame, limite invalicabile è rappresentato dalla tutela della vita, dell’integrità fisica e della salute della persona (o del nascituro, come nel caso di esami radiografici su una gestante); devono inoltre essere rispettate, nell’esecuzione delle operazioni, la dignità e il pudore della persona. Chi viene sottoposto a prelievo ha la facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, che può essere anche un medico o il difensore.
La direttiva 39.2 prevede per ogni tipo di prelievo, anche se è stato prestato il consenso, la redazione di un verbale, le cui modalità dovranno essere stabilite dal legislatore delegato; mentre la direttiva 39.3 richiede una disciplina specifica per gli incapaci e i minori. A tutela della riservatezza della persona interessata, viene stabilito che i campioni debbano essere, di regola, distrutti entro un termine prestabilito (direttiva 39.4)
Non è stato accolto un emendamento inteso a circoscrivere l’utilizzabilità dei risultati ai soli fini di identificazione, onde evitare eccessive intromissioni nella sfera individuale della persona. Nonostante la serietà del rilievo, si è ritenuto che non dovesse essere trascurata l’importanza degli accertamenti in questione come mezzi di prova, soprattutto se indispensabili ai fini dell’accertamento. I prelievi a solo scopo di identificazione sono pertanto ben distinti, e sono riservati alla polizia giudiziaria - previa autorizzazione del pubblico ministero - ma si limitano alla saliva o ai capelli, risultando meno invasivi (direttiva 54.2, mentre la direttiva 54.3 ne prevede espressamente l’inutilizzabilità come prova).
Le intercettazioni costituiscono il mezzo di ricerca della prova più discusso e più controverso degli ultimi anni. Alle sempre più estese esigenze dell’accertamento si contrappongono, spesso drammaticamente, le sempre maggiori lesioni di uno dei diritti fondamentali più tipici dell’era tecnologica, il diritto alla riservatezza. La disciplina codicistica deve assicurare la legalità dell’accertamento penale nel rispetto dei diritti dei singoli, siano essi indagati o semplici cittadini, articolando le garanzie precisate già nel 1973 dalla Corte costituzionale.
La direttiva 40, tracciando i principi cui dovrà attenersi il legislatore delegato nella disciplina delle intercettazioni, conferma in parte l’impostazione oggi vigente, cercando per il resto di ovviare a lacune (in tema, tra l’altro, di intercettazioni domiciliari) o a problematiche (con riferimento alla genuinità dei risultati delle intercettazioni o alla loro circolazione fuori dal procedimento ove sono state disposte) emerse dall’esperienza odierna. Al riguardo, si è tenuto conto delle soluzioni raggiunte dal Parlamento in sede di discussione del disegno di legge presentato dal ministro della giustizia. Per questi motivi la direttiva è molto dettagliata, dal momento che è sembrato necessario indicare in maniera vincolante al legislatore delegato i punti della disciplina da cui non è possibile prescindere.
Oggetto delle intercettazioni, viene precisato, può essere qualsiasi comunicazione destinata per sua natura a rimanere riservata o segreta, dentro o fuori private dimore (direttive 40.1 e 40.3). Per le intercettazioni di conversazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora si è prevista una predeterminazione tassativa dei casi, non necessariamente eccezionali, la cui individuazione è rimessa al legislatore delegato. La direttiva 40.19, inoltre, estende in linea di massima la medesima disciplina ai casi di captazione delle comunicazioni orali non costituenti intercettazione, con particolare riferimento alla registrazione di un colloquio da parte di un interlocutore, direttamente o mediante trasmissione a terzi, come accade quando l’operazione è svolta da un agente segreto di polizia; mentre la direttiva 40.20 fa riferimento alle captazioni visive nei luoghi di privata dimora, che attualmente, stando all’insegnamento della Corte costituzionale, recepito dalle Sezioni unite della Cassazione, non possono essere utilizzate se non in quanto si tratti di intercettazione di comportamenti comunicativi. La direttiva 40.21, infine, prescrive l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria - in questo caso è incluso anche il pubblico ministero, in accoglimento di una proposta della procura generale di Palermo - per qualunque attività continuativa di osservazione dei comportamenti di un soggetto in luogo pubblico a fini investigativi.
Si conferma l’opzione secondo cui le intercettazioni possono essere disposte solo per determinate categorie di reati e solo allorquando si tratti di strumento indispensabile per la prosecuzione delle indagini (direttive 40.2 e 40.4). E’ sempre il giudice a dover autorizzare il mezzo di ricerca della prova, almeno là ove si rientri in quella sfera costituzionalmente tutelata del comportamento comunicativo così come individuato dalla Corte costituzionale. La direttiva 40.5 richiede, com’è ovvio, un provvedimento motivato: la motivazione dovrà vertere sulla gravità degli indizi di reato e sulla indispensabilità per le indagini, e indicare inoltre il collegamento tra le comunicazioni che si intendono intercettare e i fatti per cui si procede, allo scopo di evitare che la dimostrazione della probabile esistenza di un reato, di cui è richiesta soltanto la prova cosiddetta generica, possa consentire intercettazioni generalizzate nei confronti di chiunque. La direttiva 40.6 prevede, come oggi, il provvedimento di urgenza del pubblico ministero. Le direttive 40.7, 40.8 e 40.9 disciplinano i termini massimi di durata e le proroghe delle operazioni, per le quali è richiesto l’accertamento dell’attualità delle esigenze investigative.
Le direttive in tema di modalità delle operazioni e di localizzazione degli impianti (40.10 e 40.11) sono state redatte in modo da assicurare al legislatore delegato la necessaria libertà di azione, in considerazione della rapidissima evoluzione tecnologica, allo scopo assicurare il controllo sull’attività di intercettazione dentro e fuori del processo. Si pensi alla possibilità di registrare su supporto digitale di tutte le operazioni eseguite (compresa la memorizzazione automatica di orario, data e interlocutore in tempo reale) al fine di impedire intercettazioni illegittime, alterazioni nella raccolta dei flussi e, sotto altra prospettiva, consentire il successivo controllo da parte dell’autorità giudiziaria e della difesa. Anche per quanto riguarda gli impianti, è oggi possibile tenere separati i centri di intercettazione dai centri di ascolto. Nella direttiva 40.11 sono inoltre previste specifiche garanzie per l’installazione, quando necessario, degli strumenti di ripresa (in particolare nel domicilio privato): garanzie ulteriori rispetto alla semplice autorizzazione ad intercettare, oggi considerata sufficiente a consentire la violazione del domicilio. La direttiva 40.13 conferma l’obbligo di annotare tutti i provvedimenti motivati nell’apposito registro.
Per quanto riguarda la tutela della riservatezza e le modalità di acquisizione dei risultati al procedimento, la direttiva 40.14 prevede l’istituzione di un archivio riservato presso la procura della Repubblica, dove conservare tutta la documentazione concernente fatti o circostanze estranei alle indagini, che le parti hanno la facoltà di esaminare senza che per questo venga meno il segreto (direttiva 40.16). A questa forma di tutela si aggiunge il divieto di pubblicazione dei risultati delle intercettazioni (si intende, quelli processualmente rilevanti) fino alla conclusione delle indagini. La pubblicazione anticipata è consentita solamente per le intercettazioni utilizzate per l’adozione di un provvedimento limitativo della libertà personale, ma solo dopo la conoscenza da parte dell’indagato o del suo difensore (direttiva 40.15). La direttiva 40.17 prevede anche che la documentazione, salvo che sia necessaria per il processo, possa essere distrutta per tutelare la riservatezza, non solo dell’imputato, ma anche della persona offesa o di terzi estranei, soggetti attualmente privi di tutela.
Il giudice, su richiesta delle parti, che hanno avuto accesso all’archivio riservato, procede alla trascrizione dei soli risultati delle intercettazioni che reputa rilevanti (direttiva 40.16), mentre la restante documentazione continua ad essere coperta dal segreto. Tuttavia anche per le intercettazioni trascritte, e quindi processualmente rilevanti, possono essere introdotti limiti alla pubblicazione e alla divulgazione (direttiva 40.18).
In relazione ai vizi, nella direttiva 40.12 si è prevista esplicitamente la sola inutilizzabilità delle intercettazioni compiute fuori dei casi previsti o in violazione delle modalità di esecuzione, perché le violazioni relative alla assunzione della prova, interessando il contraddittorio, cadranno sotto la generale disciplina della nullità.
Si rinvia al legislatore delegato, che dovrà coordinarla con i casi analoghi, l’individuazione dei reati particolarmente gravi per i quali siano possibili deroghe alla disciplina ordinaria (direttiva 40.22). Sempre al legislatore delegato è rimessa la specifica disciplina delle intercettazioni e delle riprese visive disposte per la ricerca dei latitanti, in particolare per quanto riguarda la loro eventuale utilizzazione probatoria (direttiva 40.23); mentre con riferimento alle intercettazioni disposte al di fuori del procedimento penale (ad esempio, le intercettazioni preventive), la direttiva 40.24 ne prevede l’utilizzabilità a soli fini investigativi, e non anche probatori. La direttiva 40.25, in ottemperanza all’articolo 68 della Costituzione, prevede il divieto di utilizzare mezzi coercitivi di indagine, fra i quali le intercettazioni, nei confronti dei soggetti per i quali è necessaria l’autorizzazione a procedere.
La direttiva 41 prevede che sia disciplinato l’accesso alle banche dati e il trattamento dei dati personali. La necessità di prevedere forme di tutela giurisdizionale non è più eludibile, in considerazione della natura di questo strumento di indagine, che consente di ottenere informazioni estremamente precise sulla base degli incroci di dati apparentemente neutri, realizzando una capacità intrusiva e limitativa dei diritti della personalità elevatissima, sino ad ora in gran parte rimessa alla disciplina civilistica (il codice della privacy) e, con essa, ai provvedimenti della relativa Autorità. In particolare, occorre tener conto delle numerose possibilità di scambio di dati nell’ambito dell’Unione europea, in relazione alle banche dati già esistenti o in via di istituzione.
Nella relativa disciplina andrà inclusa anche l’acquisizione dei dati esterni del traffico telefonico, già oggi soggetta, secondo l’interpretazione della Corte costituzionale, ad atto motivato dell’autorità giudiziaria.
 

15. La libertà personale
La direttiva n. 42 disciplina gli istituti dell’arresto in flagranza e del fermo di indiziati di delitto, fissando i principi che devono informarli sulla base, inannzitutto, di quanto previsto dall’art. 13 della Costituzione. Tale disposizione, infatti, consente la privazione della libertà personale da parte della pubblica sicurezza solo in casi eccezionali e tassativi di necessità e di urgenza e a condizione che, in tempi brevissimi prestabiliti intervenga la convalida dell’autorità giudiziaria.
La scelta corrisponde anche alla sperimentata utilità degli istituti richiamati, tradizionalmente presenti nella legislazione processuale penale italiana.
Per quanto concerne il primo istituto – l’arresto in flagranza – è stato previsto il potere-dovere della polizia giudiziaria di procedere all’arresto della persona colta in flagranza di uno spefico delitto. Il concetto di flagranza non viene definito in modo specifico, anche se la locuzione “colto in flagranza” evoca una relazione di immediatezza tra commissione del fatto e intervento della polizia privativo della libertà personale, che è alla base dell’istituto. Si è ritenuto che fosse esigenza di dettaglio stabilire la latitudine ed i confini del concetto, anche se il legislatore delegato dovrà avere cura di definire, in modo quanto più possibile preciso, le situazioni, ecezionali di necessità e d’urgenza, nelle quali si ritiene proficuo un intervento privativo della libertà personale da parte della pubblica sicurezza.
La direttiva richiama anche la distinzione tradizionale tra arresto obbligatorio e facoltativo. Nel primo caso, la polizia giudiziaria è obbligata ad effettuare l’arresto qualora il soggetto venga colto nella flagranza di un delitto, specificamente individuato, particolarmente grave. La peculiare gravità viene, poi, definita in base alla pena prevista – reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni – o al nomen iuris della fattispecie. In quest’ultimo caso, il legislatore dovrà predeteminare tassativamente le fattispecie per le quali l’arresto in flagranza dovrà ritenersi obbligatorio, in relazione a speciali esigenze di tutela della collettività che debbono necessariamente ricorrere. Questa peculiare definizione consente di isolare le fattispecie in base ad effettive necessità connesse alle “esigenze di tutela della collettività”, categoria che dovrà, ovviamente, essere oggettivizzata quanto più è possibile.
In ogni caso, per l’imputato minore di anni diciotto, l’arresto in flagranza non può mai costituire un obbligo per la polizia giudiziaria.
Viene, poi, previsto, nella direttiva 42.3, l’arresto facoltativo in flagranza di reato per fattispecie predeterminate in relazione alla pena prevista ovvero da definire in base alla particolare gravità. Con riferimento a questo istituto, il potere di privazione della libertà peronale da parte della polizia giudiziaria si giustifica esclusivamente in funzione della gravità o delle circostanze del fatto ovvero della pericolosità del soggetto. La specifica individuazione dei parametri ai quali ancorare l’esercizio del potere di arresto facoltativo della polizia giudizaria consente di ridurre al minimo la discrezionalità della stessa e, nel contempo, evitare il sacrificio ingiustificato della libertà personale nel pieno rispetto di quanto previsto dall’art. 13 Cost.
In ogni caso di arresto in flagranza, la polizia giudiziaria ha l’obbligo di avvisare immediatamente il pubblico ministero e di porre a sua disposizone la persona privata della libertà personale non oltre le ventiquattro ore dall’arresto. La previsione di tempi stringenti nasce dalla necessità di far intervenire quanto proima il pubblico ministero e di far scattare quanto prima il meccanismo diretto alla convalida dell’arresto.
La direttiva 42.4 discplina, invece, l’istituto del fermo di indiziati di delitto prevedendo, innanzitutto, il potere-dovere del pubblico ministero di procedere al fermo delle persone gravemente indiziate di reati particolarmente gravi, da individuare in modo tassativo e predeterminato, quando vi è fondato pericolo di fuga.
Analogo potere viene riconosciuto alla polizia giudiziaria nei casi di urgenza, quando, cioè, non è assolutamente possibile attendere il preventivo intervento del pubblico ministero. Anche in questa ipotesi, la polizia giudiziaria dovrà avvisare immediatamente il pubblico ministero ponendo a sua disposizone la persona privata della libertà personale non oltre le ventiquattro ore dal fermo.
Tre sono, quindi, i parametri che legittimano il fermo: la peculiare gravità del delitto; la gravità indiziaria; il fondato pericolo di fuga. L’esigenza che richiede un intervento urgente che precede quello del giudice risiede nel perislo di fuga che deve essere fondato, cioè effettivo.
Il fermo è stato oggetto di un dibattito all’interno della Commissione che ha messo in evidenza il possibile uso strumentale dell’istituto, qualche volta utilizzato per accorciare “patologicamente” i tempi di emissione della misura cautelare. Non si è riusciti ad individuare una formula che riuscisse a rendere chiara la volontà della Commissione di prevedere un rimedio a tale illegittima prassi. Nondimeno, però, è auspicabile che la normativa di dettaglio venga articolata in modo da ridurre quanto più è possibile il rischio di una utilizzazione strumentale dell’istituto anche attraverso la restrizione delle ipotesi di reato per le quali risulta possibile la sua attivazione.
La direttiva 44 prevede, in linea con quanto stabilito dall’art. 13 Cost., la fissazione dei principi per la disciplina dell’istituto della convalida dell’arresto e del fermo.
Il primo principio esplicitato concerne l’obbligo per il pubblico ministero di disporre l’immediata liberazione dell’arrestato e del fermato ove non sussistano le condizioni di legittimazione della privazione provvisoria della libertà personale oppure quando non ritenga di dover chiedere al giudice della convalida l’applicazione di una misura coercitiva.
La direttiva è ispirata, in ossequio agli artt. 13 e 27 Cost., al principio della massima tutela della libertà personale, evitando che la sua lesione prosegua in macanza delle condizioni di legittimazione ovvero nei casi in cui il pubblico ministero non abbia in animo di chiedere l’applicazione di una misura coercitiva.
Ove non ricorrono le situazioni richiamate, il pubblico ministero dovrà, quindi, richiedere al giudice, entro 48 ore dall’arresto o dal fermo, la sua convalida, che dovrà essere decisa entro le successive 48 ore, previa fissazione di un’udienza in camera di consiglio nella quale deve essere preventivamente sentita la persona arrestata o fermata.
L’istituto corrisponde ad un archetipo sperimentato e consolidato nel quale alla decisione sulla legalità dell’arresto o del fermo segue la decisione, distinta dalla prima, sulla richiesta di applicazione della misura cautelare. Sono due distinti provvedimenti che possono coesistere anche in un unico atto, ma che hanno una struttura ben differenziata. Da un lato, la decisione sulla correttezza e sulla legalità dell’arresto o del fermo, suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 comma 7 Cost.; dall’altro, la decisione sulla richiesta cautelare, suscettibile di riesame o di ricorso per cassazione (ove la richiesta del pubblico ministero viene accolta) o di appello (se non viene accolta) al tribunale del riesame.
La scansione temporale predeterminata, così come la tempistica dell’udienza di convalida, corrisponde alla espressa previsione dell’art. 13 Cost.
La direttiva n. 43, infine, prevede le garanzie difensive minime da rispettare. Esse vanno dal dovere di avvertire la persona arrestata o fermata di nominare un difensore di fiducia al dovere di comunicare l’avvenuto arresto o fermo al difensore nominato. Questi potrà colloquiare liberamente col proprio assistito, fermato o arrestato, naturalmente prima che questi venga interrogato. Il diritto al colloquio così concepito può essere derogato, con decreto motivato del pubblico ministero, non oltre le 48 ore, in casi eccezionali, per specifiche ed inderogabili esigenze e limitatamente ai delitti di terrorismo o di eversione all’ordine democratico.
Il tema delle misure sembra aver assunto nel tempo un forte grado di stabilità.
Fortemente innovato rispetto all’impianto del codice del 1930 sia sotto il profilo contenutistico che sotto quello sistematico, l’esigenze di rinnovamento che vi erano sottese portarono addirittura all’anticipazione della riforma codicistica.
Peraltro, alcune distorsioni della prassi hanno indotto il legislatore ad intervenire correggendo alcuni profili della disciplina del libro IV in senso più garantista (l. n. 332 del 1995) ancorché l’emergere di situazioni di allarme sociale abbiano suggerito anche connotazioni in senso restrittivo (v. “pacchetto sicurezza”).
Per far fronte a questa evenienza e soprattutto per portare a compimento la piena giuridizione nella materia più drammatica del processo penale – quella, appunto, dell’assunzione di misure limitative della libertà personale durante il processo – sooprattutto la componente accademica della commissione ha coltivato l’idea e l’auspicio che la nuova delega potesse portare a compimento il lungo percorso delle “misure cautelari” e, quindi, alla collegialità del giudice e all’ascolto della persona prima dell’adozione della misura.
Invero, se è sicuro che il sistema normativo vigente sulle misure cautelari appare ancora oggi valido sia per l’impianto teorico che per la coerenza logica degli strumenti processuali diretti a trovare una giusta composizione delle varie esigenze bisognose di tutela, l’unico aspetto che deve essere sicuramente rivisto è quello relativo all’attuazione di una piena giurisdizione nel procedimento cautelare. Allo stesso modo è sicuro che il codice dell’88 abbia profondamente innovato l’impostazione del codice del ‘30, passando da una concezione di assoluta prevalenza degli interessi dello Stato rispetto a quelli dell’individuo, con la conseguente collocazione delle misure restrittive della libertà personale in sede istruttoria – quasi come uno strumento d’indagine –, ad una esaltazione delle esigenze primarie di difesa delle libertà fondamentali del cittadino, conformemente alla nuova visione personalistica delle garanzie riconosciute dalla Carta costituzionale del 1948, con la sistemazione delle varie misure coercitive e interdittive in un autonomo libro, impostato esclusivamente in funzione cautelare di beni e interessi costituzionalmente rilevanti e sempre nel rispetto del canone del minimo sacrificio per la libertà personale.
Dunque la più rilevante innovazione riguarderebbe l’attuazione della funzione giurisdizionale nell’esercizio del potere di limitare la libertà dell’imputato anche nella fase delle indagini, soluzione che sembra imposta da una lettura congiunta degli artt. 13, 24 e 111 Cost. Invero, se per l’arresto e il fermo le ragioni di urgenza impongono un rinvio dell’intervento giurisdizionale – nelle due funzioni, cognitiva e potestativa – a un momento immediatamente successivo all’adozione del provvedimento, conformemente, peraltro, al 3° comma dell’art. 13 Cost., per le altre misure restrittive delle libertà della persona non sembra che sussistano ragionevoli elementi per sostenere un sacrificio della funzione cognitiva del giudice rinviandola ad un eventuale controllo successivo. In particolare, per quanto riguarda la libertà personale, trattandosi di un bene non facilmente ripristinabile nella sua integralità, esso può subire limitazioni soltanto in via realmente eccezionale e mediante un provvedimento giurisdizionale che affondi le radici della sua forza potestativa nell’assoluto rispetto del canone della piena cognizione del giudice in ordine sia alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che alla puntuale individuazione delle esigenze cautelari da soddisfare. Lo strumento processuale aureo è il contraddittorio tra le parti davanti al giudice imparziale prima dell’adozione della misura e non dopo, per evitare i troppo gravi rischi di pregiudizi, talora palesemente ingiusti, in cui non raramente sono incorsi, nell’esperienza pratica italiana, i diritti fondamentali dei cittadini. La libertà personale è un diritto che va protetto prima di essere sacrificato, perché con il suo sacrificio si cancellano definitivamente tutta una serie di diritti e di garanzie di contesto sociale, politico ed economico, che non si riesce più a recuperare neanche dopo che sia finita la compressione della libertà personale. In tale direzione d’altronde è intesa l’idea sottostante le garanzie dell’art. 13 Cost.
Su questa premessa la Commissione si è posta l’altro problema e cioè se la piena cognizione del giudice vada assicurata per tutte le misure cautelari o solo per alcune di esse.
E se appariva fuor di dubbio quella pratica per la misura della custodia cautelare, perché “punitiva” per la persona sottoposta alle indagini da richiedere una decisione che sia frutto della pienezza della giurisdizione, lo stesso trattamento si auspicava anche le altre misure cautelari personali – sia coercitive, che interdittive – e reali, per riportare dentro la giurisdizione tutto il capitolo delle restrizioni alla libertà della persona, intesa non soltanto come libertà personale, ma anche come libertà di locomozione e come libertà di esercizio di tutti gli altri diritti riconosciuti alla persona, che ne costituiscono la proiezione esterna.
Epperò risultava evidente che, soprattutto nel caso in cui si adotti per tutte le misure personali la procedura cautelare con un contraddittorio che precede il provvedimento applicativo, sarebbe stato necessario congegnare un meccanismo che assicuri la presenza della persona sottoposta alla misura all’udienza di fronte al giudice, tema su cui si è discusso - a parte del già noto strumento dell’ordine di comparizione di cui all’art. 132 c.p.p. – quanto della possibilità che il giudice possa sapientemente impiegare il c.d. braccialetto elettronico che risulta, in definitiva, il meno invasivo e più tollerabile rispetto alla presunzione d’innocenza.
In questo quadro, risulta chiaro che la richiesta del pubblico ministero di applicazione della misura cautelare potesse essere anche non tipizzata, dando così spazio al giudice di fissare la misura adeguata sulla base degli argomenti che si sono dibattuti in udienza davanti a lui e che la richiesta stessa dovesse contenere la formulazione dell’imputazione, vale a dire l’attribuzione, sia pure in via provvisoria, di un fatto di reato alla persona nei cui confronti si chiede che venga applicata la misura cautelare, personale o reale, anche perché la formulazione dell’imputazione apre il processo, rende indefettibile la decisione e determina l’oggetto del processo con una certa stabilità.
L’idea faceva perno sulla Corte costituzionale (sent. n. 48 del 1994), che, nel qualificare il procedimento cautelare parla di “processo nel processo”, stabilendo, in proposito, le forme d’incompatibilità che colpiscono il giudice che ha una precedente cognizione del merito. E reputava non priva di pregio l’osservazione che, in rapporto alla richiesta di rinvio a giudizio, ravvisa nell’applicazione della misura cautelare effetti di maggior pregiudizio per l’imputato, per cui non a torto si sostiene che “i gravi indizi di colpevolezza legittimanti il provvedimento restrittivo debbano rappresentare un quadro probatorio della responsabilità dell’imputato non minore di quello richiesto per disporre il rinvio a giudizio dello stesso nell’udienza preliminare”. Peraltro – si è aggiunto – che il giudice utilizza i medesimi “gravi indizi” per stabilire la quantità della pena ai fini della valutazione di proporzionalità che la misura deve rispettare. Si tratterebbe, quindi, di un giudizio di colpevolezza allo stato degli atti, ma che non può giustificare una minor levità della valutazione probatoria se si vuole ridurre il rischio che l’imputato subisca una limitazione della libertà personale per un processo che non finirà con l’irrogazione di una pena.
L’ampia discussione svolta – anche sui nodi di realizzazione della complessa procedura così ipotizzata – ha toccata tutti i punti di ricaduta di un sistema così congegnato.
Pur nella condivisione della elevata idealità della proposta, quanto alla “collegialità”, sono prevalsi razionali motivi di tipo ordinamentale, soprattutto per i Tribunali di piccole e/o di medie dimensioni, non “aggirabili” con la previsione di un organo distrettuale (peraltro “sfruttato” per il rito abbreviato collegiale) per ovvi motivi di segretezza della vicenda e di “parcellizzazione” del fascicolo del pubblico ministero. Soprattutto ha fatto da perno, all’esclusione della ipotesi, la netta opposizione della componente dell’avvocatura all’abolizione del “riesame”, situazione naturale se il giudice del provvedimento è collegiale.
Quanto al “contraddittorio anticipato”, l’affezione ideale ha ceduto rispetto al parere contrario dell’avvocatura rispetto alla partecipazione ad un’udienza – quella per il provvedimento – in cui la difesa si presenta priva di conoscenze processuali per carenza di discovery e, all’opposto, della magistratura, soprattutto inquirente che ha richiamato l’attenzione sulla impraticabilità della proposta specie per i procedimenti in cui la richiesta riguarda più accusati. Né si è ritenuto possibile l’adozione di strumenti elettronici per assicurare la presenza della persona alla “udienza cautelare” perché di per sé ritenuti eccessivamente stigmatizzanti.
Infine, quanto all’ “imputazione” come atto presupposto rispetto alla richiesta, ragioni sistematiche e profili semantici, nonché la previsione dell’ “accusa” contenuta nell’informazione di garanzia ne hanno sconsigliata l’adozione in questa sede. Perciò si è ritenuto sufficientemente garantista l’attuale procedura, che comunque, viene rinforzata con la previsione dell’ “ascolto” della persona – previo accompagnamento – solo in presenza di un dubbio del giudice del provvedimento, sia quanto alla gravità indiziaria sia quanto alla scelta della misura, e con più penetranti oneri di motivazione.
Ci si affida, così, al legislatore delegato per la messa a punto di questo indirizzo “più garantista”, anche perché la contestuale scelta della collegialità del provvedimento e dell’adozione di procedure con “contraddittorio anticipato” spetta al Parlamento per la sua elevata politicità e per eguale rilievo sociale.
Va dato atto, peraltro, che durante il dibattito in Commissione sono state discusse e vagliate altre proposte innovative in tema di procedimento applicativo di misure cautelari personali.
In particolare, si evidenziano – in sintesi – i tratti salienti di una proposta di minoranza: prevedere che nella fase delle indagini preliminari le decisioni sulle richieste di misure cautelari personali coercitive siano emesse dal giudice per le indagini preliminari con ordinanza motivata, entro un termine predeterminato, prorogabile una sola volta per oggettiva complessità della richiesta con atto comunicato al solo P.M. richiedente; prevedere che nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata o con finalità di terrorismo la decisione possa essere emessa – in casi predeterminati – dal giiudice per le indagini preliminari in composizione collegiale, ferma restando la successiva facoltà di impugnazione del provvedimento.
Le ragioni di tale proposta – che qui brevemente si illustrano – sono da ricercarsi nella avvertita necessità di innalzare il tasso di efficienza e garanzia del procedimento cautelare in modo diverso dalla previsione di forme di ‘contraddittorio anticipato’. Ciò perché si ritiene che l’introduzione – sia pure con opportune limitazioni – dell’ascolto preventivo finirebbe con il determinare la necessità di forme limitative ‘temporanee’ della libertà personale adottate in sostanza sulla base della sola richiesta del pubblico ministero (per scongiurare, ove presente, il pericolo di fuga o di alterazione della genuinità della prova), il che si pone in contrasto con le esigenze costituzionali di ‘eccezionalità’ delle limitazioni di libertà.
Appare, dunque, più opportuno – secondo tale indirizzo – il mantenimento dell’attuale assetto procedimentale con una introduzione di elementi di novità consistenti: a) nella previsione di un termine da parte del legislatore (sia pure prorogabile) entro il quale il giudice dovrà provvedere sulla richiesta, e ciò allo scopo di evitare che i ritardi nelle valutazioni delle richieste cautelari (spesso derivanti dai notevolissimi carichi di lavoro degli uffici GIP e dalla sottostima delle risorse umane necessarie ad evadere le procedure) diventino l’antecedente causale di quell’utilizzo improprio dello strumento del fermo già segnalato in altra parte della presente relazione; b) nella limitata introduzione della collegialità dell’organo giudicante chiamato ad emettere la prima valutazione cautelare, prevista solo per particolari ‘categorie di reati’ ed in casi ‘tipizzati’, senza che ciò pregiudichi la successiva facoltà di impugnazione del provvedimento.
Si precisa che la limitata introduzione della collegialità – su cui si è lungamente discusso in Commissione – appare uno strumento di grande efficacia sul piano della effettività delle garanzie per l’individuo, posto che una valutazione collegiale consente – in tale delicatissima fase del procedimento – di ridurre al minimo gli errori di attribuzione di significato dimostrativo agli elementi di prova raccolti in sede di indagini. Inoltre, la scelta di mantenere – anche in tali casi – la facoltà di impugnazione è in tutta evidenza rapportabile alla obiettiva necessità di rispettare l’esercizio delle facoltà previste dal contraddittorio, posto che l’impugnazione si gioverebbe dei risultati dell’interrogatorio di garanzia (successivo alla emissione del provvedimento cautelare) e dunque manterrebbe inalterata la sua logicità sistematica e la sua funzione di controllo.
Nonostante questo nutrito dibattito, la prevalenza di opposte esigenze manifestate dalla componente della magistratura e dell’avvocatura – la prima, attestata sulla difficoltà dell’ascolto preventivo di tutti, soprattutto in materia di criminalità organizzata; la seconda, all’opposto, sull’irrinunciabilità del riesame del provvedimento anche nel caso in cui il primo giudice fosse stato ipotizzato come organo collegiale – ha consigliato di confermare, pur in presenza di salienti novità di disciplina che più avanti saranno evidenziate, la scelta effettuata dal codice dell’88 e risalente al Progetto preliminare del 1978, risultando essa di elevato valore garantista, di adeguata condivisione nella prassi, nonché di più semplificata praticabilità.
Si dedica, dunque, un capo alle misure che possono essere disposte nel corso del processo penale in funzione di esigenze cautelari e con effetti limitativi delle libertà o delle disponibilità di beni da parte dell’imputato, con la novità che lo stesso capo raccoglie anche le direttive inerenti all’arresto e/o al fermo, che, pur essendo vicende autonome rispetto alle “misure cautelari”, legittimamente possono appartenere al capitolo della libertà personale, quale ulteriore segnale di attenzione al bene protetto e quale indirizzo per “procedure differenziate”; anche se, ovviamente, spetterà al legislatore delegato individuarne la sedes materiae. Sul punto è troppo noto il dibattito che ha condotto dottrina e legislatore ad abbandonare l’impostazione minimizzante adottata in proposito dal codice del 1930 ed a ricercare un nuovo equilibrio tra le esigenze che possono definirsi, appunto, «cautelari» (e che coinvolgono il processo penale nel suo insieme) e le esigenze di rispetto di quel diritto.
Piuttosto, va messa in evidenza la nuova sistematica «interna» che la disciplina è venuta ad assumere nel testo che si sta illustrando, che scandisce con maggiore nettezza talune distinzioni tra misure di coercizione personale, misure “interdittive” e misure “reali”, tutte riconducibili alla finalizzazione “cautelare”, diversamente da quelle che ineriscono ai bisogni di attualità tra fatto e restrizione della libertà.
Novità saliente è certamente l’imposizione del giudizio a breve distanza dall’esecuzione del provvedimento cautelare. Invero, se il pubblico ministero si spinge sulla strada dei “gravi indizi di colpevolezza” e se tale spendita è valutata positivamente dal giudice – con tutti i meccanismi di controllo successivi al provvedimento – é indispensabile costruire la prossimità al giudizio della vicenda, i cui presupposti rendono superfluo il controllo in udienza di conclusione delle indagini a cui si accede, però, a richiesta dell’imputato per sfruttarne le potenzialità definitorie e/o altra forma di giudizio.
Nello specifico delle direttive, se quella di cui al n. 45 ribadisce: i criteri di adeguatezza, proporzionalità e gradualità in ordine alla decisione sulla misura; il carcere come extrema ratio; le soglie di pena per la custodia cautelare; la previsione di una specifica disciplina per i delitti di criminalità organizzata, di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico; l’eclusione di presunzioni legali, assegnando al giudice il compito di valutare le diverse situazioni individuali; la revocabilità e la sostituibilità delle misure in presenza delle mutate situazioni processuali, le altre descrivono iniziativa, competenza, provvedimento, motivazione, rinviando al legislatore delegato di individuare le situazioni che potranno consentire l’espletamento di un interrogatorio anticipato, fissandone le modalità ed i tempi per il suo svolgimento. Per le altre ipotesi, non può sottrarsi al catturato, la previsione dell’interrogatorio di garanzia.
In particolare, la esclusione di presunzioni legali in tema di misure coercitive – che ha attirato l’attenzione dell’Ufficio Legislativo del Ministero nel parere del 28 gennaio 2008 – è situazione fortemente voluta dalla Commissione, anche per la sua diretta connessione con la direttiva n. 45.6 in tema di rafforzamento dell’obbligo di motivazione. Peraltro, su tali punti il dibattito è stato ricco di spunti ed ha condotto ad una soluzione condivisa.
Nella direttiva 48, con le regole in tema di controlli in materia cautelare, si segnalano una volontà di accelerazione dei tempi di decisione (e di motivazione) unitamente ai profili sanzionatori per le attività superflue; nonché una pluralità di garanzie, soprattutto di tenore innovativo, tra cui quella della possibile concessione di un termine a difesa, che ovviamente, se concesso, allungherà i termini della pronunzia di riesame. Sul punto, le segnalazione contenute nel parere dell’Ufficio Legislativo del Ministero del 28 gennaio 2008 sono ritenute dalla Commissione materia inerente ai poteri del legislatore delegato.
La Commissione, in ultimo esame, ha ritenuto di non accogliere il pure opportuno suggerimento di una direttiva che preveda che l’ordinanza del riesame debba essere “succintamente e contestualmente motivata”, dal momento che, pur se la filosofia della proposta è rivolta a ridurre i tempi tra decisione del tribunale e motivazione del provvedimento, la predeterminazione della “contestualità” non appare sempre praticabile data la ristrettezza dei tempi del procedimento e gli effetti della violazione dei termini, ma anche perché questa è materia che spetta – e, dunque, si segnala – al legislatore delegato, il quale, solo, potrà stabilire tale tempistica in ragione dell’assetto geneale del procedimento di riesame.
La disciplina dei termini è predisposta nelle direttive 49 e 50, ove trovano adeguata regolamentazione le previsioni in tema di durata massima, sospensione, proroga, rinnovazione, congelamento, nonché riferimenti espressi per le contestazioni a catena e per la reintroduzione delle misure.
Sono previsti, poi, poteri di disporre misura meno afflittiva o prescrizioni all’imputato rimesso in libertà per decorrenza dei termini e del ripristino della custodia in carcere nel caso di ingiustificata violazione delle predette.
Con la direttiva 51 è stabilita la possibilità di prevedere l’applicazione di misure cautelari reali e le opportune indicazioni di disciplina della materia.
 

16. Le indagini preliminari
Alla base della stessa idea di processo penale quale “procedimento” finalizzato all’accertamento di fatti specifici e delle conseguenti responsabilità penali, fondato sul contraddittorio (e sul metodo dialogico), risiede la indubbia necessità di realizzare, all’interno del sistema processuale, un primo momento (o una prima fase) che tenda alla elaborazione dell’ipotesi accusatoria da porre a base del successivo giudizio, con esplicita vocazione alla raccolta degli elementi sulla scorta dei quali effettuare la richiamata verifica. In tale fase, si parte da un dato grezzo (la notizia di reato o addirittura una informazione meno significativa e meno concludente della notizia di reato) e si punta alla formazione dell’imputazione, punto di riferimento essenziale del successivo processo. Questo percorso, essenziale per il successivo giudizio, costituisce il momento procedurale al quale si riferiscono le direttive da n. 52 a n. 65.
Esso, in via di prima approssimazione, costituisce un momento di raccolta di elementi e di selezione delle ipotesi da sottoporre al successivo vaglio giurisdizionale.
Il sistema processuale del 1988 ha introdotto, in relazione alla fase investigativa, una significativa e fondamentale novità rispetto al processo penale preesistente.
Non più una fase istruttoria intesa come momento deputato alla raccolta delle prove direttamente spendibili nel successivo giudizio (di fatto limitato ad una mera conferma delle prove già raccolte, dove la difesa ricopriva un ruolo di mera critica della prova, senza poteri significativi), ma una fase investigativa preliminare, strutturata in modo servente rispetto alle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale.
Accantonata l’idea di un inchiesta preliminare senza eccessive formalità, proposta dal dibattito dottrinale negli anni 60, è stata, invece, sviluppata l’idea di costruire una fase preliminare, senza velleità istruttorie, ma con una proiezione diretta all’esercizio dell’azione penale. L’elaborazione dell’imputazione e la raccolta degli elementi che consentono di sostenere l’accusa in giudizio caratterizzano in modo peculiare la fase investigativa, ma con una proiezione limitata all’atto di impulso dell’azione senza alcuna ricaduta probatoria sul successivo dibattimento.
Questa scelta è stata tradotta, inizialmente, in modo molto puntuale, attraverso la costruzione di un modello fondato su una netta distinzione funzionale tra fase investigativa e fase processuale e su uno sbarramento tra le due richiamate fasi, senza alcun vaso comunicante tra le stesse: tutto ciò che il pubblico ministero elaborava nelle indagini non poteva essere utilizzato nel dibattimento ad eccezione delle dichiarazioni raccolte sul luogo e nell’immediatezza del fatto o nel corso delle perquisizioni (in un contesto, cioè, oggettivamente irripetibile e, per ciò stesso, di particolare genuinità).
Questa iniziale opzione è stata completamente stravolta dalla Corte costituzionale che, con le note sentenze del 1992, ha determinato la sostanziale modifica del modello processuale scelto dal legislatore del 1988, richiamando ed applicando, per tale operazione demolitrice, il principio di non dispersione delle prove (principio sulla cui rilevanza costituzionale si sono nutriti, a ragione, molti dubbi; la convinzione dottrinale consolidata è che tale principio non abbia alcun rilievo costituzionale e che, pur se esprime un’esigenza indiscutibile, non è utilizzabile per la verifica della compatibilità costituzionale delle norme).
Cambiava, in modo sostanziale, la relazione tra indagini e dibattimento e la mutazione era orientata nella direzione (della sostanziale costruzione) di un sistema di vasi comunicanti tra i due segmenti procedurali: tutte le dichiarazioni rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, nelle indagini preliminari, potevano essere veicolate nel dibattimento attraverso il meccanismo delle contestazioni, spendibile anche se il dichiarante non rispondeva all’esame dibattimentale (perché si avvaleva della facoltà di non rispondere o non si presentava al dibattimento o affermava cose diverse da quelle precedentemente dichiarate).
Si destrutturava, in tal modo, il sistema scelto dal legislatore del 1988 e si strutturava un nuovo sistema processuale che, nella parte interessata dalla pronunzie di illegittimità costituzionale (cioè il cuore del processo), era ontologicamente molto distante dal primo.
La dottrina ha sempre contestato la scelta, peraltro imposta per via giurisprudenziale, in quanto mutava radicalmente l’opzione politica posta a base del nuovo sistema processuale e fondava su un principio (la non dispersione delle prove) estraneo al contesto costituzionale e neppure lontanamente raffrontabile con il principio del contraddittorio che, al contrario, evocava esigenze molto differenti ed in particolare richiedeva che la prova si formasse effettivamente (e non fittiziamente) nel giudizio dibattimentale.
Negli anni successivi, invero, più di una novella legislativa si è inserita in questo alveo: in particolare, vale la pena di richiamare la legge sulle investigazioni difensive disegnata proprio per riequilibrare un sistema che, a seguito delle richiamate sentenze, dava segnali di profondo disequilibrio ed evidente malessere. Si doveva, per questa strada, anche completare il nuovo posizionamento della difesa costruito nell’ottica secondo la quale “l’effettiva difesa consiste nel difendersi provando”.
La novella ha, cioè, reso operativa l’idea dell’investigazione del difensore, prima solo accennata, inserendo nel sistema un meccanismo fondamentale, diventato oramai patrimonio culturale condiviso. Oggi, infatti, si ritiene, giustamente, che anche nella fase delle indagini preliminari bisogna, ad un certo punto, riconoscere alla difesa la possibilità concreta di attivare le investigazioni difensive.
I tentativi parziali del legislatore del 1997 di recuperare l’iniziale modello attraverso la modifica del sistema delle letture delle dichiarazioni rese dall’imputato (art. 513 c.p.p.) sono stati immediatamente corretti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 361 del 1998 con la quale sono stati ribaditi i precedenti orientamenti, ma con una impostazione e con argomenti nuovi e molto interessanti. A differenza delle decisioni del 1992, la sentenza richiamata ha avuto il grande merito di indicare la necessità di rispettare il contraddittorio e le prerogative strettamente connesse al diritto di difesa. Il limite di questa decisione è quello di prediligere una dimensione meramente formale del contraddittorio in luogo di una dimensione sostanziale più aderente alla ratio del principio.
Era, quindi, necessario un intervento legislativo che chiarisse, a livello costituzionale, i connotati e la latitudine del principio del contraddittorio, principio, peraltro, già noto al nostro ordinamento ed entrato, da molti anni, a far parte nel dibattito dottrinale come punto di riferimento essenziale e condiviso del sistema processuale penale.
Il legislatore è, quindi, intervenuto nello specifico settore modificando in modo significativo l’art. 111 Cost. e inserendo, tra le caratteristiche della giurisdizione, il contraddittorio e la ragionevolezza del tempi processuali.
La scelta di novellare l’art. 111 Cost è stata molto importante, in quanto ha consentito di comprendere immediatamente la opzione di fondo seguita dal legislatore costituzionale: il contraddittorio e tutti gli altri principi richiamati (giusto processo, parità delle parti, terzietà e imparzialità del giudice, ragionevolezza dei tempi ecc.) costituiscono principi politici afferenti direttamente alla giurisdizione, che possiamo definire i caratteri costituzionali utili a delineare la giurisdizione in genere e quella penale in specie.
I successivi interventi legislativi, tendenti ad adeguare il modello processuale ai nuovi principi introdotti nell’art. 111 Cost., hanno recuperato l’iniziale distinzione tra fase investigativa e dibattimento, anche se con qualche significativa novità: in particolare, le parti possono, previo accordo, introdurre nel dibattimento atti preformati nel corso delle indagini preliminari. La peculiarità corrisponde, in parte, all’eccezione, prevista nello stesso art. 111 Cost., secondo la quale il legislatore può prevedere casi nei quali la prova non si forma in contraddittorio, per consenso dell’imputato (ed è la matrice della nostra ipotesi), impossibilità oggettiva o provata condotta illecita.
La soluzione adottata dal legislatore ordinario, richiedendo il consenso delle parti (e non del solo imputato), propone una soluzione più condivisibile di quella rigidamente aderente alla lettera della Costituzione (ove si parla del solo imputato).
Ciò nonostante, bisogna ribadire il fondamentale principio emergente dall’art. 111 Cost.: due indagini parallele non possono sostituire il contraddittorio, che resta il valore di fondo cui ancorare il processo penale.
Inizialmente, la struttura delle indagini e la convinzione che vi fosse uno sbarramento netto tra dibattimento e indagini era anche frutto di un’idea di processo molto sbilanciata sulla prova orale (testimoni e dichiaranti).
Oggi, invero, il progresso tecnologico e le fisionomie criminali hanno aumentato di molto la percentuale di utilizzo processuale di tipologie probatorie (intercettazioni, video riprese, documentazione bancaria ecc.) che si formano prevalentemente (o in gran parte) nelle indagini preliminari: vi sono sempre più processi che fondano, in modo prevalente, su questi elementi.
Ciò nonostante, bisogna ribadire un dato ineludibile: l’art. 111 Cost. individua un modello processuale fondato sul contraddittorio, assegnando, inevitabilmente, alle indagini una funzione servente, proiettata sull’azione; in tal senso, esso si oppone decisamente ad ogni idea di indagini come luogo di formazione della prova, anche se sono previste consistenti deroghe di cui tener conto.
La decisione giusta è e resta il prodotto del contraddittorio, in alcun modo sostituibile, tranne casi specifici di deroga, con due indagini parallele.
L’esame dei caratteri tipici della fase investigativa, la cui natura è quella di fase procedimentale propedeutica e servente rispetto all’esercizio dell’azione penale, ci porta a sottolineare la peculiarità di alcuni di essi e la necessità di tenerli in debita considerazione nella elaborazione delle direttive relative alla fase investigativa.
La messa a punto delle direttive sulle indagini preliminari ha preso spunto, infatti, dal dibattito dottrinale e giurisprudenziale sui caratteri tipici delle indagini e sui punti critici, sui nodi problematici della fase investigativa.
La elencazione di questi punti, senza alcuna pretesa di esaustività, rende chiare le intenzioni poste a base delle scelte successive:
- l’efficienza dell’attività investigativa (cioè l’elevata capacità di raccogliere gli elementi necessari alla ricostruzione dei fatti illeciti ed alla individuazione degli autori, sia pur nell’ottica specifica dell’esercizio dell’azione penale), da intendersi come capacità di individuare le ipotesi da sottoporre alla valutazione del giudice in modo rapido, accorto ed effettivo in relazione ad un successivo processo in un’ottica di utilità (l’idea è sempre quella di evitare il processo – di per sé dannoso – se non vi sono condizioni concrete per giungere ad un determinato epilogo); efficienza, poi, come sistema integrato di garanzie che procedono in modo lineare e che hanno eguale valenza;
- la sua rapidità (naturalmente nei limiti fisiologici utili al primo obiettivo) fondamentale nell’ottica della ragionevole durata del processo che, da un punto di vista ontologico (ma non formale), risente dei tempi delle indagini: peraltro, la celebrazione a distanza del dibattimento tradisce tutti i principi del giudizio e rende molto problematiche le acquisizioni probatorie e, spesso, dipende anche dalla durata delle indagini e dai tempi (talora biblici) che separano la chiusura delle indagini dall’inizio del dibattimento; in questa ottica, la ragionevole durata coinvolge anche la fase investigativa nonostante la lettera dell’art. 111 Cost. si riferisca solo al processo;
- la polivalenza della fase (cioè la pluralità di funzioni che la caratterizzano): gli elementi che ivi vengono raccolti sono utili alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale (valutate nel loro complesso, come risultato dell’attività investigativa: nell’ottica della verifica dell’utilità del giudizio e/o della possibilità di ottenere, all’esito, una condanna; costituiscono la struttura portante della sentenza allo stato degli atti; in alcuni casi riguardano atti che hanno una valenza probatoria spendibile direttamente nel dibattimento (la valenza probatoria, in questo caso, riguarda uno specifico atto e non il complesso dell’attività investigativa funzionale all’azione): sul punto, però, si pone, da un lato, il problema del limite di questa peculiarità (altrimenti le indagini finirebbero per diventare il luogo di formazione della prova); dall’altro lato, invece, si deve prendere atto dell’aumento incisivo degli atti probatori che si formano “sostanzialmente” o, almeno, prevalentemente nelle indagini;
- il ruolo fondamentale del pubblico ministero, cui resta affidata la direzione delle indagini;
- l’indipendenza rispetto alle possibili interferenze esterne (cioè: obbligatorietà dell’azione penale, pur se da intendersi in un’ottica prevalentemente politica; uguaglianza quale naturale riferimento della prima);
- la funzione di garanzie e di controllo del giudice per le indagini preliminari che deve essere aumentata in funzione delle esigenze prima sottolineate: il tema investe le c.d. finestre giurisdizionali, cioè la possibilità di adire direttamente il giudice, nella fase investigativa, per peculiari esigenze connesse all’attività di investigativa difensiva;
- il rispetto delle garanzie difensive (con i connessi problemi relativi al “momento” dell’informazione, ai suoi contenuti, ai diritti difensivi connessi alla ricerca di elementi probatori concretamente esercitabili; alle investigazioni difensive ed alla necessità di rendere effettivi i poteri investigativi del difensore consentendo di “ricorrere” al giudice nei casi di oggettiva difficoltà);
- la completezza delle indagini rispetto ai temi dell’accertamento (evitando, però, di appesantire le indagini, chiedendo alle stesse la ricostruzione di fatti eccentrici rispetto alle necessità dell’azione);
- la durata prestabilita e verificabile (concetto che, se da un lato non deve ingessare ed ostacolare le potenzialità investigative, dall’altro deve costituire un diritto riconoscibile e controllabile dal giudice, attraverso la previsione di meccanismi di controllo reali e finalizzati alla verifica dell’utilizzabilità/inutilizzabilità delle attività investigative rispetto ai tempi prestabiliti di durata della fase);
- la segretezza quale valore strumentale alle esigenze dell’accertamento, ma in equilibrio, non in conflitto, con le garanzie di informazione e conoscenza da parte della difesa, premessa per l’attivazione del diritto previsto dagli artt. 24 e 111 Cost.; la continuità investigativa;
- la snellezza delle indagini (evitando, cioè, strutture pesanti, non essenziali rispetto agli scopi concreti da perseguire);
- il riconoscimento di poteri investigativi effettivi in capo sia al pubblico ministero sia alla polizia giudiziaria, capaci di raggiungere gli scopi delineati;
- il riconoscimento del valore essenziale del coordinamento investigativo, auspicabile a tutti i livelli;
- il c.d. doppio binario (la previsione, cioè, in taluni casi e per talune fattispecie di reato, particolarmente gravi, di discipline normative differenziate, coerenti con le differenti esigenze investigative che quelle fattispecie propongono).
A questa elencazione di punti qualificanti e condivisi, devono aggiungersi i nodi problematici (alcuni di natura prevalentemente politica), affrontati e risolti, prima di approntare le linee direttive delle indagini preliminari: chi le svolge e con quali poteri; si acquisiscono elementi che possono avere ingresso nel dibattimento e in che misura; che durata debbono avere; come devono concludersi.
Le direttive proposte tendono a costruire una fase investigativa che, dopo aver sciolto i nodi politici richiamati, punta ad equilibrare i temi prima evocati.
L’equilibrio fonda su due poli: da un lato, l’art. 111 Cost. che individua un modello processuale fondato sul contraddittorio; dall’altro, la funzione delle indagini di consentire la costruzione effettiva di un’ipotesi accusatoria utile ad innescare il meccanismo dibattimentale (connotazione che si oppone, come già sottolineato, decisamente ad ogni tentativo di disegnare le indagini come luogo generale di formazione della prova; anche se la polivalenza delle indagini e la proiezione verso sentenze allo stato degli atti riconosce la forte attitudine degli elementi investigativi di trasformarsi in elementi capaci di fondare il giudizio).
Si deve aggiungere, per completare il quadro generale, che l’art. 111 comma 3 Cost. prevede un sistema di garanzie che riguardano anche la fase investigativa ed impongono di prevedere l’anticipazione in tale momento procedurale dell’attivazione di talune fondamentali garanzie difensive.
L’anticipazione dell’operatività concreta del disposto dell’art. 111 comma 3 Cost. alla fase delle indagini preliminari comporta significative conseguenze in punto di costruzione del modello processuale, essenzialmente connesse al momento della conoscenza dell’esistenza del procedimento e dell’accusa e alla possibilità di rivolgersi direttamente al giudice per le necessità difensive: evitando, però, accuratamente di appesantire la fase investigativa e di trasformarla in una fase di raccolta delle prove (sarebbe un intollerabile ritorno al passato).
L’impostazione della fase investigativa riconosciuta nella legge delega non diverge, nei suoi tratti essenziali, da quella disegnata nel c.p.p. del 1988, anche se non mancano elementi che la caratterizzano in modo peculiare. In particolare, essa punta alla strutturazione omogenea ed equilibrata delle esigenze prima individuate (punto 2) evidenziate da quasi venti anni di esperienza giurisprudenziale elaborata nell’operatività del c.p.p. attualmente vigente e da un ricco dibattito dottrinale.
Le differenze più significative rispetto a quelle del 1988 sono concentrate nelle fasi dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato, della definizione stessa di notizia di reato, nei meccanismi di proroga dei termini di durata delle indagni stesse, nella spedizione dell’informazione di garanzia, nelle c.d. finestre giurisdizionali e nella conclusione della fase (azione o archiviazione).
Per il resto, invece, si è tentato di razionalizzare il modello investigativo esistente, affidando al pubblico ministero la conduzione e la responsabilità delle indagini ed alla polizia giudiziaria il compito fondamentale di prendere notizie dei reati e di coadiuvare il pubblico ministero nell’esercizio delle attività investigative. Naturalmente, anche il pubblico ministero dovrà/potrà prendere notizia dei reati, nei limiti stabiliti dalla legge, cioè secondo scansioni normative che potranno anche limitare, senza annullare, questo potere rispetto a specifiche e predeterminate fattispecie di reato.
In particolare, la fase delle indagini preliminari, nell’intenzione posta a fondamento della legge delega, resta una fase procedimentale che precede l’esercizio dell’azione penale ed è ovviamente orientata a porre in essere tutte le attività necessarie all’assunzione delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. Questo epilogo (l’esercizio dell’azione o, all’opposto, la richiesta di archiviazione) rappresenta il fine che orienta le indagini e le spiega dal punto di vista funzionale, strutturale e contenutistico.
La celebrazione a distanza del dibattimento, poi, è un fatto che tradisce tutti i principi del giudizio e rende molto problematiche le acquisizioni probatorie. Esso dipende anche dalla durata delle indagini e dai tempi (talora esagerati) che separano la chiusura delle indagini dall’inizio del dibattimento, Quindi, la ragionevole durata del processo coinvolge anche la fase investigativa nonostante la lettera dell’art. 111 Cost. si riferisca, formalmente, solo al processo (forse inteso in una accezione generale e omnicomprensiva). Ma è evidente che un mancato controllo sui tempi di durata delle indagini finisce per incidere in modo irreversibile sulla concreta riconoscibilità del principio di ragionevolezza dei tempi. Da questa semplice considerazione, alla quale si uniscono le già richiamate esigenze difensive, nasce l’idea di contingentare la durata delle indagini riconoscendo al giudice un potere di verifica concreta circa il dies a quo.
La fase investigativa partecipa, indiscutibilmente, alla complessiva vocazione del sistema processuale di giungere al suo epilogo in tempi ragionevoli. Questa essenziale caratteristica, prevista, peraltro, in modo espresso e forte dall’art. 111 Cost., pur nella naturale relatività del riferimento, non può che trovare le sue fondamenta nelle indagini preliminari. Esse rappresentano il primo momento della complessa scansione procedurale e proprio per questo la loro durata “ragionevole” configura un esempio per il prosieguo della vicenda.
Il compito di direzione delle indagini deve essere affidato al pubblico ministero, così come al medesimo organo vanno riconosciuti, come vedremo, poteri di acquisizione della notizia di reato.
Il dominus delle indagini è, cioè, il pubblico ministero, il quale ha il compito di guidarle, avvalendosi anche dell’attività investigativa della polizia giudiziaria, posta alle dipendenze dell’autorità giudiziaria. Il ruolo di guida, affidato all’organo dell’accusa, rappresenta, quindi, uno dei dati centrali della struttura che si vuole disegnare con riferimento alle investigazioni.
Le indagini preliminari hanno una naturale vocazione alla segretezza, valore dal quale dipende la buona riuscita delle stesse e, contemporaneamente, modo per tutelare la persona sottoposta alle indagini da nocive pubblicazioni di notizie sull’esistenza del procedimento e sui suoi contenuti. L’esigenza di segretezza investigativa aumenta proporzionalmente a seconda delle categorie di reati rispetti ai quali l’attività investigativa viene attivata.
Contemporaneamente, però, essa deve confrontarsi con la connessa esigenza di conoscenza dell’esistenza dell’attività investigativa da parte della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa, premessa indispensabile per attivare le indagini difensive o, più in generale, per attivare l’elaborazione difensiva. Vi è dunque la necessità di cercare un equilibrio che tenga conto della varie esigenze richiamate, apparentemente in conflitto, ma in realtà entrambe orientate “alle necessità dell’accertamento” che richiede segretezza e, contemporaneamente, partecipazione informata dell’interessato.
Va, in questo ambito, precisato che la segretezza investigativa, intesa quale dovere di non divulgare i contenuti delle indagini preliminari all’esterno, costituisce una caratteristica che coinvolge la fase nella sua interezza; mentre la segretezza proiettata nei confronti della persona sottoposta alle indagini deve avere una durata oggettivamente limitata: cessa, naturalmente, con l’esercizio di atti investigativi invasivi che, coinvolgendo direttamente diritti della persona, richiedono l’attivazione difensiva; cessa, in ogni, caso dopo un tempo predeterminato, dal momento che, dopo una prima fase investigativa, l’informazione di garanzia diventa ineludibile, come ineludibili (in quanto fondamentali) sono le necessità difensive che essa coinvolge e le esigenze connesse.
La scelta effettuata dalla Commissione fonda sulla creazione di un sistema nel quale, in una prima fase, dalla durata limitata e predeterminata, prevale la segretezza investigativa (l’indagine è, cioè, generalmente segreta e non viene comunicato nulla tranne che non debbano essere compiuti atti invasivi cui consegue necessariamente l’attivazione difensiva); successivamente, invece, pur restando la segretezza investigativa quale valore, prevale la generale necessità di spedire l’informazione di garanzia, contenente l’accusa. Il punto centrale del sistema sarà quello di individuare il tempo “predeterminato e congruo” entro il quale spedire, in ogni caso, l’informazione di garanzia, la cui funzione è proprio quella di consentire l’attivazione difensiva in tutta la sua latitudine ed a prescindere dalle esigenze dell’accertamento. La congruità del termine, oltre il quale la segretezza nei confronti della persona sottoposta alle indagini diventa patologica, dovrà essere individuata naturalmente considerando la peculiarità dell’accertamento di talune fattispecie di reato, particolarmente gravi e connotate da una spiccata pericolosità.
In nessun caso, però, l’informazione alla difesa potrà essere omessa. Potrà essere ritardata per tipologie di reato predeterminate, ma entro tempi congrui dovrà comunque essere spedita anche in queste ultime ipotesi.
In ogni caso, quindi, dopo un tempo prefissato, la difesa sarà messa in condizione di intervenire, di attivarsi e di elaborare, se ritiene, il suo contributo investigativo.
Nello specifico, per quanto concerne la conoscenza delle indagini preliminari, indispensabile per poter attivare le investigazioni difensive e per poter comunque attivare la difesa, è stata prevista, come abbiamo già sottolineato, la comunicazione dell’informazione di garanzia al momento del compimento del primo atto cui il difensore ha il diritto di assistere e comunque non oltre un termine prestabilito, decorrente dalla acquisizione della notizie di reato. L’informazione di garanzia deve contenere le generalità della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa, la enunciazione sintetica dell’accusa e dei motivi che la sostengono e l’indicazione dei diritti dell’accusato. Anche l’invio dell’informazione di garanzia potrà essere ritardata per particolari tipologie di reato e per peculiari esigenze investigative, fermo restando il dovere di spedirla ogni volta che deve essere compiuto un atto cui il difensore ha il diritto di assistere.
E’ stato, poi, previsto che l’azione penale non possa essere esercitata prima che sia decorso un congruo termine dalla notifica dell’informazione di garanzia. Tale sub direttiva (la n. 60.11 seconda parte) ha la funzione di dare concretezza all’informaizone di garanzia, necessaria proprio per l’attivazione dei poteri investigativi difensivi e, più in generale, per l’eserczio di tutte le prerogative difensive.
A completamento dell’ambito connesso alla segretezza investigativa, è stata prevista, poi, la comunicabilità delle iscrizioni nel registro delle notizie di reato su richiesta della persona sottoposta alle indagini, del difensore o della persona offesa, con l’eccezione dei casi in cui il pubblico ministero, per ragioni investigative, ritenga di disporre la segretazione. In questo ultimo caso, però, la segretazione deve avere un durata temporale limita alle reali esigenze investigative e comunque non deve superare un termine massimo.
In questa prospettiva, è stato, innanzitutto, stabilito che il pubblico ministero ha il potere-dovere di compiere indagini in funzione dell’esercizio dell’azione penale, proiettate, cioè, all’epilogo naturale verso cui tende l’azione dell’accusa: la richiesta di procedere al giudizio.
Le indagini devono essere, poi, complete e devono avere quale contenuto l’accertamento di fatti specifici, tra cui si è ritenuto di comprendere anche quelli favorevoli alla persona sottoposta alle indagini.
L’aspetto della completezza delle indagini, inteso nel senso di indagini che esplorano tutti i temi ragionevolmente utili alla ricostruzione del fatto, corrisponde agli insegnamenti della Corte costituzionale che, sin dal 1991 (sent. n. 88 del 1991), ha richiamato l’attenzione del legislatore sull’esigenza di completezza delle indagini, costruendo il concetto come un valore da coltivare ed ampliare. Anche la necessità di accertare fatti specifici costituisce una caratteristica ineludibile, per evitare che le attività investigative siano proiettate verso l’accertamento di “fenomeni sociali” e che perdano di vista la loro essenziale funzione direzionata alle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale, quindi la richiesta di un giudizio nella prospettiva di un accertamento della responsabilità penale per un fatto di reato specifico e determinato nei contenuti normativi.
Le indagini devono avere, poi, un termine di durata prestabilito e congruo, che possa consentire sia al pubblico ministero di effettuare le investigazioni necessarie alle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale sia alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa di aver una certezza sui tempi investigativi massimi. Termine che decorre dalla acquisizione della notizia di reato nominativa e che possono essere prorogati una sola volta attraverso un meccanismo che prevede la richiesta di proroga del pubblico ministero motivata con l’indicazione degli atti investigativi da svolgere e dei tempi necessari a svolgerli e la decisione del giudice per le indagini preliminari, sganciata da ogni automatismo, con la quale lo stesso può concedere una proroga commisurata alle reali esigenze investigative, entro i limiti massimi fissati dalla legge.
Questo sistema vuole togliere ogni connotazione di automatismo alla proroga delle indagini preliminari, riconducendo il meccanismo alla sua naturale funzione: consentire l’”eccezionale” utilizzazione di un termine investigativo ulteriore (cioè maggiore) rispetto a quello ordinario prestabilito (e congruo) nei casi di effettive e dimostrate esigenze connesse alle indagini da svolgere, previa indicazione specifica delle attività investigative da svolgere e dei tempi necessari per effettuarle. Il pubblico ministero deve, cioè, mettere il giudice nella condizione di conoscere il programma investigativo che legittima la richiesta di proroga per poter valutare se e con quale ampiezza temporale concedere la proroga.
La problematica della ritardata iscrizione è stata ritenuta, sin dalle prime battute del c.p.p. del 1988, una delle problematiche di maggiore delicatezza per le indiscutibili interrelazioni che essa aveva con alcuni nervi scoperti della procedura penale ed in particolare con quelli afferenti al controllo dei potere del pubblico ministero nella fase investigativa, a lui solo affidata. La giurisprudenza, pur rendendosi conto della delicatezza del versante in quanto iscrivere con ritardo una notizia significa dilatare arbitrariamente i tempi delle indagini aggirando, di fatto, la previsione normativa, ha sempre optato per una soluzione morbida. Ha, cioè, prevalentemente affermato che la ritardata iscrizione non può dar luogo a sanzioni processuali, potendo, invece, avere consistenti riverberi penali e disciplinari per il pubblico ministero inadempiente. Soluzione insoddisfacente dal momento che la ritardata iscrizione crea un vulnus interno alla fase di raccolta degli elementi investigativi e lede in modo significativo i diritti della persona sottoposta alle indagini. Per tale semplice ragione essa deve trovare all’interno del sistema una risposta adeguata ed equilibrata.
In questo ambito specifico, peraltro, la Corte costituzionale, ha chiarito, in una prospettiva sostanzialmente diversa e condivisibile, come l’iscrizione abbia natura ricognitiva e non costitutiva, esistendo un vero e proprio diritto alla corretta iscrizione della notizia di reato (immediatamente successiva alla sua acquisizione nominativa). La ricerca di un meccanismo di controllo affidabile ha fatto concentrare l’attenzione sul giudice per le indagini preliminari e sulla sua essenziale funzione di controllo.
Il controllo effettivo e pregnante del giudice costituisce, infatti, un momento essenziale dei meccanismi di iscrizione della notizia di reato e di proroga dei termini della indagini preliminari.
Per dare certezza al principio di durata limitata delle indagini e per evitare problemi connessi alla tempestività della iscrizione, fondamentale per dare concretezza al primo principio, è stata stabilita la inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine previsto o prorogato e, soprattutto, il potere del giudice, su istanza dell’interessato di verificare la correttezza dell’iscrizione retrodatando, ove necessario, la iscrizione medesima al momento nel quale doveva essere effettuata. Nella direttiva 60.5 è stato anche indbiduato un momento processuale nel quale è attivabile la verifica della corretta iscrzione. La commissione ha inteso individuare nel momento immdiatamente successivo al compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della regolare costituzione delle parti nell’udienza di conclusione delle indagini prleiminari o, se questa manchi, in giudizio il segmento procedurale nel quale inserire la richiesta di verifica della corretta iscrizone della notizia di reato. La scelta è dovuta alla necessità di evitare interventi pregiudizievoli nel corso delle indagini e per evitare inopportune discovery infrainvestigative. Inoltre, la difesa, nel momento processuale indicato, avrà a disposizone tutti gli elementi per sollevare a ragion veduta l’eccezione di inutilizzabilità degli atti compiuti dopo lo scadere del termine computato a seguito della corretta datazione dell’iscrizione.
Sia il meccanismo di durata delle indagini, sia il meccanismo di comunicabilità dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato subirà deroghe nei casi di reati di particolare gravità per i quali sono inevitabilmente necessari tempi investigativi maggiori e maggiore segretezza.
In questa prospettiva, il pubblico ministero può effettuare ogni attività investigativa utile, esplorando ogni tema necessario ai fini delle sue determinazioni. Anche la completezza investigativa, cui mira l’attività del pubblico ministero, è un elemento particolarmente significativo, che, come abbiamo già sottolineato, deve essere valorizzato e controllato dal giudice, in sede di valutazione sugli epiloghi delle indagini medesime (esercizio dell’azione o controllo sulla richiesta di archiviazione).
Il potere del pubblico ministero concerne lo svolgimento delle attività investigative necessarie ai fini richiamati, potendo, in particolare, procedere ad interrogare l’imputato, raccogliere informazioni, procedere a confronti, a individuazioni di persone e di cose, ad accertamenti tecnici, ad ispezioni, potrà disporre perquisizioni, sequestri e, previa autorizzazione del giudice, intercettazioni di conversazioni e di altre forme di comunicazione, di immagini e di dati personali. L’organo dell’accusa, potrà, nei casi di urgenza, disporre direttamente l’intercettazione o le altre forma di captazione: queste, però, dovranno essere convalidate entro tempestivamente, con previsione di inutilizzabilità assoluta delle intercettazioni compiute in mancanza di provvedimento convalidato.
Il pubblico ministero deve documentare l’attività compiuta secondo specifiche e differenziate modalità comunque idonee allo scopo ed espressamente previste.
Nello svolgimento delle indagini, poi, l’organo di accusa potrà avvalersi della polizia giudiziaria, in virtù della dipendenza funzionale che caratterizza i rapporti con quest’ultima.
E’ stato anche previsto il potere del pubblico ministero di svolgere attività integrative di indagine dopo l’esercizio dell’azione penale, comunicandole tempestivamente alle altre parti.
Tra i vari uffici del pubblico ministero deve esservi un collegamento investigativo espressamente disciplinato. Il tema del coordinamento investigativo, specificamente trattato in altra parte della relazione, costituisce un punto qualificante della fase investigativa dal momento che esso costituisce un approdo colturale indiscutibile: questa ottica, è stato previsto il potere di coordinamento del procuratore generale presso la Corte di appello e del procuratore nazionale antimafia per specifiche tipologie di reati (quelli di tipo mafioso o aggravati dalla finalità mafiosa e i reati di terrorismo). La particolare attenzione al coordinamento investigativo segue una apprezzabile linea legislativa sviluppatasi negli ultimi anni, che, prendendo spunto da esigenze concrete connesse alle indagini per i reati di criminalità organizzata, punta a rendere il coordinamento investigativo, pur nella differenza ovvia di forme, un dato normativo che informa l’intera fase investigativa, in tutte le sue latitudini ed orienta le relazioni tra gli uffici e con gli organi deputati al coordinamento.
Dal canto suo, invece, per la polizia giudiziaria è stato previsto, in via generale, innanzitutto il potere-dovere di prendere notizia dei fatti costituenti reato e di descriverli, fornendo al pubblico ministero l’indispensabile dato iniziale utile a impostare le indagini preliminari. Deve, poi e conseguenzialmente, assicurare le fonti di prova, anche per mezzo di investigazioni scientifiche. Questa attività caratterizza in modo peculiare l’attività della polizia giudiziaria dal momento che attraverso di essa si assicurano al procedimento prima ed al processo poi le fonti probatorie indispensabili alla ricostruzione del fatto ed alla verifica della utilità del dibattimento e, successivamente, della responsabilità penale. Il riferimento all’investigazione scientifica, quale riconoscimento di queste specifica attività e della sua autonomia nell’ambito delle prime indagini, colma un vuoto rappresentato dalla stessa polizia scientifica in sede di audizione.
Alla polizia giudiziaria è riconosciuto, poi, il fondamentale compito di impedire che i reati vengano portati ad ulteriori conseguenze: attività di prevenzione e di intervento essenziale nella logica preventiva che deve ispirare uno stato moderno.
E’ stato previsto, poi, il potere della polizia giudiziaria di procedere, per l’identificazione della persona sottoposta alle indagini, previa autorizzazione del pubblico ministero, al prelievo coattivo di capelli o di saliva, nel rispetto della dignità personale del soggetto e senza alcuna possibilità di utilizzare a fini probatori i campioni così prelevati.
La constatazione dell’importanza del DNA e delle tecniche di identificazione personale con mezzi scientifici consiglia di prevedere la possibilità di utilizzare, solo a fini identificativi, queste nuove tecniche purché siano determinate le sostanze prelevabili coattivamente, sia espressamente garantita la dignità personale del soggetto e l’inutilizzabilità a fini probatori dei campioni acquisiti. Queste tre garanzie costituiscono l’imprescindibile corredo del prelevamento di campioni a fini identificativi per evitare che si trasformi in una pratica deleteria laddove, invece, esso costituisce un modo essenziale per identificare i soggetti.
Prima che il pubblico ministero intervenga con le direttive utili allo svolgimento proficuo delle indagini, è stato previsto il potere-dovere della polizia giudiziaria di raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole e di assumere sommarie informazioni da chi non si trovi in stato di arresto o di fermo, con l’assistenza del difensore.
E’ stato previsto, inoltre, il potere-dovere della polizia giudiziaria di assumere sul luogo e nell’immediatezza del fatto, anche senza l’assistenza del difensore, notizie ed indicazioni utili ai fini dell’immediata prosecuzione delle indagini, con divieto di ogni documentazione e utilizzazione processuale, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria.
Questi poteri costituiscono i modi attraverso i quali, in via autonoma, la polizia giudiziaria deve poter effettuare tutte le attività che ritiene opportune per raggiungere le finalità accertative che le competono anche prima che il pubblico ministero abbia effettivamente assunto la direzione delle indagini ed impartito le direttive necessarie allo svolgimento delle stesse, potendo anche assumere sommarie informazione dalla persona sottoposta alle indagini, che non si trovi in stato di privazione della libertà personale e a condizione che la persona sia assistita dal difensore.
Diversamente, invece, e solo per poter procedere nella indagini, la polizia giudiziaria può assumere, sul luogo e nell’immediatezza del fatto, notizie utili anche senza l’assistenza del difensore quando le notizie vengono fornite dalla persona sottoposta alle indagini o che comunque debba assumere questa qualità.
La peculiare differenza rispetto al sistema vigente e che non viene fatta alcuna distinzione tra dichiarazioni provocate e dichiarazioni spontanee, sicché ad entrambe si applica lo stesso regime delineato in via ovviamente generale.
Nella enunciazione delle direttive si è ritenuto opportuno chiarire in modo esplicito il dato, prevedendo espressamente il divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio e per l’applicazione di una misura cautelare personale delle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini senza l’assistenza della difesa.
La polizia giudiziaria ha anche l’obbligo di riferire al pubblico ministero immediatamente la notizia del reato, indicando tutto quanto necessario e cioè le attività compiute e gli elementi sino ad allora acquisiti. Viene previsto il divieto di utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni o dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini. La polizia giudiziaria, prima che il pubblico ministero intervenga impartendo le direttive per lo svolgimento delle indagini, deve raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole ponendo in essere le attività necessarie. Nel momento in cui il pubblico ministero interviene, la polizia giudiziaria deve compiere gli atti ad essa specificamente delegati dal pubblico ministero, svolgendo, nell’ambito delle direttive impartite, tutte le attività di indagine necessarie per accertare i reati, nonché le attività richieste da elementi successivamente emersi, informando prontamente il pubblico ministero.
La polizia giudiziaria, dovrà procedere, in casi predeterminati di necessità e di urgenza, a perquisizioni e a sequestri, comunicando immediatamente i relativi atti al pubblico ministero.
Una volta che il pubblico ministero ha assunto la direzione delle indagini preliminari, la polizia giudiziaria dovrà compiere tutti gli atti che le vengono espressamente delegati dall’organo dell’accusa e, nell’ambito delle direttive alla stessa impartite, dovrà svolgere tutte le attività di indagine per accertare i reati e attività richieste da elementi successivamente emersi, informando, in questo caso, senza alcun ritardo il pubblico ministero. Anche la polizia giudiziaria dovrà attivarsi per far rispettare le previste garanzie difensive nel compimento degli atti ad essa delegati o posti in essere in via autonoma e di iniziativa.
Viene previsto, infine, l’obbligo della polizia giudiziaria di documentare secondo specifiche modalità tutta l’attività compiuta, anche attraverso mezzi audiovisivi e strumenti elettronici, in modo da rendere controllabile l’attività stessa.
Deve essere prevista, poi, la trasmissione, in casi predeterminati, di informazioni e di copie di atti, anche coperti da segreto, ad altra autorità giudiziaria penale e, ai fini della prevenzione di determinati delitti, al ministro dell’interno con la facoltà del destinatario della richiesta di trasmissione di rigettarla con decreto motivato.
Infine, la direttiva 57.5. consente l’impiego di tecniche investigative speciali per reati particolarmente gravi: si intende alludere alla possibilità per la polizia giudiziaria, dandone avviso al pubblico ministero, o per il pubblico ministero medesimo, di omettere o ritardare un atto di indagine, al fine dell’individuazione o della cattura dell’autore del reato o dell’acquisizione di elementi di prova; alla possibilità, per gli stessi fini, di procedere ad acquisti simulati o prestare assistenza ad appartenenti ad associazioni criminose; alla possibilità di utilizzare documenti o identità di copertura. Operazioni che risultano utili soprattutto, ma non esclusivamente, nelle indagini per i reati transfrontalieri.
Per quanto concerne le garanzie difensive, è stato previsto il diritto dell’imputato e della persona offesa di nominare, innanzitutto, un difensore tecnico per l’attivazione concreta delle prerogative difensive che non possono in alcun modo prescindere dalla difesa tecnica. A ciò si aggiunge, per rendere concreta la difesa, la necessità di individuare specificamente gli atti del pubblico ministero ai quali il difensore ha diritto di assistere, precisando che, in ogni caso, tra di essi devono in ogni caso rientrare, per la loro delicatezza, invasività o per la essenziale funzione difensiva che rivestono, l’interrogatorio e i confronti con l’imputato, nonché le perquisizioni, le ispezioni e i sequestri. Questa elencazione, alla quale potranno aggiungersi altri atti specifici, costituisce il minimo inderogabile, ove la presenza del difensore tecnico non può in alcun modo essere sacrificata.
Consegue, sul piano logico, la necessità di prevedere il diritto del difensore di ricevere avviso del compimento degli atti cui ha diritto di assistere, esclusi, ovviamente, gli atti di perquisizioni e sequestro che essendo tipici atti a sorpresa, non possono essere comunicati al difensore prima del loro compimento.
In questi casi, però, vive il diritto del difensore ad assistere senza preavviso. Infine, deve essere prevista la disciplina del deposito degli atti compiuti dal pubblico ministero, con la ulteriore previsione di ipotesi nelle quali, ricorrendo gravi motivi specificamente individuati, il deposito può essere ritardato.
Queste direttive completano il profilo statico delle garanzie difensive (conoscenza del procedimento e dell’accusa e possibilità di nominare un difensore tecnico cui dovranno essere effettuate le comunicazioni utili alla esplicazione del diritto di assistere la persona sottoposta alle indagini) e costituiscono la premessa per la esplicazione del profilo difensivo dinamico che consiste nella possibilità concreta di difendersi provando. La conoscenza delle indagini è anche la premessa per l’attivazione di un potere investigativo in capo alla persona sottoposta alle indagini, al suo difensore ed alla persona offesa che si traduce nella possibilità di svolgere attività investigative tipizzate nella forma e nella facoltà di chiedere direttamente al giudice l’effettuazione di particolari atti necessari alle esigenze investigative che per la loro peculiarità non possono essere svolte direttamente dall’interessato (le c.d. finestre giurisdizionali).
In questa direzione, infatti, è stato previsto innanzitutto il fondamentale potere di effettuare investigazioni difensive per le finalità proprie della difesa, ponendo in essere una serie di specifici atti investigativi attraverso modalità determinate e documentati in modo idoneo. Queste attività, per la loro specifica vocazione difensiva, potranno essere utilizzate dal difensore ove ritenute utili.
Insieme al potere di svolgere attività investigative difensive è stata, poi, prevista la possibilità di rivolgersi direttamente al giudice per le necessità difensive che non si riescono a soddisfare attraverso le indagini della difesa.
Le scelte poste a base delle direttive sulle investigazioni difensive e sulle finestre giurisdizionali prendono spunto da un dato consolidato e condiviso nella cultura giuridica e nel sistema processuale: la vera difesa consiste nel difendersi provando. Questa affermazione, ricca di riferimenti e di interrelazioni, richiede, inannzitutto la concreta possibilità per la difesa di effettuare attività di ricerca di elementi probatori utili.
La disciplina delle indagini difensive, introdotta nel nostro ordinamento processuale con la legge 7 dicembre 2000 n. 397, nasce come una delle prime forme di attuazione del “giusto processo” disegnato dalla riforma dell’articolo 111 della Costituzione.
La generica previsione di facoltà di individuazione e di ricerca di elementi di prova a favore dell’assistito e di acquisizione di informazioni da parte di persone in grado di renderne, contenuta nell’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale che costituiva l’unico riferimento normativo in materia di attività di indagine difensiva, pur con le integrazioni dettate dalla legge 8 agosto 1995 n. 332, si è rilevata immediatamente inadeguata a corrispondere alla realizzazione effettiva dei valori del nuovo disposto costituzionale.
Il contraddittorio come metodo di formazione della prova, la parità delle parti davanti al giudice terzo ed imparziale, il principio del “difendersi provando”, hanno imposto l’introduzione di una disciplina articolata che regolasse, tipizzandoli, i poteri e le modalità di indagine del difensore e assicurasse l’utilizzabilità dei risultati ai fini della decisione.
Pertanto, pur condividendo i valori sottesi alla legge vigente, la Commissione ha operato nella prospettiva di superare alcune lacune, emerse nella sperimentazione pur breve della normativa, attinenti ai poteri di investigazione e, in specie, a quelli disponibili dalla persona offesa, e di conferire alla disciplina una migliore rispondenza al principio costituzionale della parità delle parti, rivedendo l’individuazione degli interlocutori del difensore nel momento dell’attività di ricerca della prova a favore del proprio assistito.
Si è potenziata, quindi, la facoltà del difensore di svolgere investigazioni, anche con l’ausilio di investigatori privati e di consulenti, per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, con forme e finalità specificamente stabilite (direttiva 61.1): l’ampiezza del riferimento alle “investigazioni” è stata intesa come certamente comprensiva delle attività di indagine già previste dalla normativa vigente ma anche potenzialmente suscettibile di ulteriori arricchimenti dei poteri investigativi, riservandone opportunamente al legislatore delegato la definizione nel dettaglio e sempre nel rispetto del criterio di tipizzazione delle forme e delle finalità, ribadito a conclusione della prima direttiva.
In osservanza del principio sancito dall’art. 24 co. 2 della Costituzione, secondo il quale “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, si è altresì mantenuta l’estensione del potere investigativo del difensore ad ogni stato e grado del procedimento, inclusa la fase dell’esecuzione e il giudizio di revisione, ribadendo così il valore innovativo della disciplina vigente rispetto alle originarie previsioni dell’art. 38 disp. att. c.p.p., laddove soddisfa le esigenze di ricerca della prova da parte della difesa non solo nel dibattimento ma nell’intero percorso del procedimento.
Con il riferimento indistinto alla figura del difensore si è inteso, infine, riconoscere uguale titolarità di poteri di indagine per la difesa della persona sottoposta a procedimento e per quella della persona offesa.
Nel quadro della condivisione e della conferma dei principi essenziali della vigente disciplina delle indagini difensive, si è ribadita l’esclusione esplicita dell’obbligo di denuncia da parte del difensore anche con riguardo ai reati dei quali abbia avuto notizia nel corso dell’attività investigativa (direttiva 61.2), corollario necessario dei requisiti di libertà, autonomia e indipendenza che devono informare l’attività dell’avvocato, finalizzata alla tutela di diritti e di interessi di parti private, per espresso dettato delle regole deontologiche (preambolo del codice Deontologico Forense, 17 aprile 1997 e successive modifiche).
La specifica esclusione dell’obbligo di denuncia in capo al difensore che conduce le investigazioni difensive ha, inoltre, il valore significante dell’affermazione che anche nell’esercizio di tale attività defensionale l’avvocato non riveste la funzione di pubblico ufficiale, del tutto inconciliabile con la natura privata degli interessi tutelati.
Si è trattato, pertanto, di mantenere ferma la specifica espressione di un principio che, anche alla luce di recenti pronunce (Cass. Sez. Un., 27 giugno 2006, n. 3200) è ricorrentemente soggetto a discussione e si è ritenuto debba opportunamente essere definito in sede legislativa nel quadro dei canoni del giusto processo dettati dalla norma costituzionale, tra i quali la contrapposizione davanti al giudice di due parti diverse per qualità e ruoli, seppure pari nel contraddittorio, è elemento essenziale e inalienabile.
L’innovazione rispetto alla disciplina vigente, contenuta nella direttiva 61.3, attiene all’individuazione dell’interlocutore del difensore dell’indagato nello svolgimento dell’attività di indagine difensiva.
La scelta prende spunto dall’art. 111 comma 3 Cost. che individua nel giudice il soggeto di riferimento da adire per le necessità evocate e proietta il sistema verso le c.d. finestre giurisdizionali, cioè possibilità concrete di rivolgersi al giudice, nel corso delle indagini.
Ipotesi, quelle contemplate, ricorrenti in tutti i casi in cui il compimento dell’atto di indagine richiede la collaborazione necessaria di un terzo, come nell’acquisizione di informazioni o nell’accesso a luoghi privati o non aperti al pubblico e questi la rifiuti, ovvero in quelli in cui l’attività investigativa consiste nell’acquisizione di dati o elementi personali (tabulati telefonici, supporti telematici, documenti bancari, ecc.) appartenenti o custoditi presso altri soggetti.
A differenza della disciplina attuale, che stabilisce interlocuzioni differenziate con il pubblico ministero e con il giudice a seconda degli atti di indagine, si è individuato nel giudice il soggetto cui rivogersi, in linea col dettato costituzionale previsto dall’art. 111 comma 3 Cost.
Si è ritenuto, pertanto, di superare l’asimmetria ricorrente nella disciplina vigente che vede una parte, la difesa, richiedere all’altra parte, l’accusa, la collaborazione per lo svolgimento di atti di indagine difensiva.
Con ciò non si è affatto esclusa, peraltro, ogni forma di partecipazione del titolare dell’indagine pubblica, prevedendo sia la comunicazione del decreto del giudice che dispone l’assunzione o autorizza il compimento dell’atto di indagine richiesto, ma anche l’immediato inserimento nel fascicolo delle indagini preliminari del verbale dell’atto di indagine assunto dal giudice o di quello autorizzato.
Il che, naturalmente, significa altresì che il ricorso all’intervento del giudice per il compimento di atti di indagine difensiva, comportando il coinvolgimento di un soggetto pubblico, determina il venir meno della disponibilità discrezionale dell’esito dell’attività in capo al difensore, sussistente, invece, in tutte le ipotesi in cui egli sia autore esclusivo dell’atto investigativo.
Si è ritenuto, infine, di qualificare la richiesta dell’atto di indagine proveniente dal difensore della persona sottoposta alle indagini prevedendo che essa debba indicare i requisiti di pertinenza e di rilevanza dell’atto richiesto.
La disposizione ha l’evidente finalità di scongiurare l’attivazione del giudice nella ricerca di prove inconferenti con il procedimento in corso: d’altra parte, l’aver circoscritto al sindacato dei soli parametri di pertinenza e di rilevanza dell’atto rispetto all’indagine in corso, è scelta che corrisponde all’esigenza di evitare la configurazione in capo al giudice di doveri e poteri istruttori, del tutto incompatibili con il modello del processo accusatorio cui pure la presente legge delega è informata.
In termini speculari e coerenti con l’impianto del processo di parti, si è ritenuto che analoghe richieste di compimento di atti di indagine provenienti dal difensore della persona offesa debbano essere rivolte al pubblico ministero (direttiva 61.4).
Tale scelta non soltanto è apparsa congruente con le finalità di ricerca degli elementi di prova a sostegno dell’accusa che accomunano l’attività della parte pubblica e della parte offesa privata, ma anche corrispondente ad un obiettivo di migliore efficienza del sistema, considerato che le richieste della persona offesa sarebbero meglio e più prontamente valutate e soddisfatte dal soggetto titolare e autore dell’indagine.
Ulteriore innovazione alla disciplina attualmente vigente è l’esclusione dell’attività di indagine preventiva se non per il difensore della persona offesa, dettata dalla chiara formula della direttiva 61.4.
La scelta è stata determinata dalla considerazione che la finalità precipua cui è diretta l’attuale previsione dell’investigazione compiuta “per l’eventualità che si instauri un procedimento penale”, ovvero quella di assicurare la migliore tempestività alla costruzione dell’impianto probatorio difensivo, potrà essere soddisfatta dalla previsione di una più tempestiva conoscenza della pendenza del procedimento penale, realizzata dall’anticipazione, rispetto a quanto attualmente previsto dall’art. 369 c.p.p., dell’informazione di garanzia entro un tempo “predeterminato e congruo” dall’avvio dell’indagine.
In tal modo si è inteso, altresì, superare una previsione che, sia pure di rara attuazione pratica, presenta rischi seri di potenzialità invasiva della vita privata del cittadino anche a prescindere dal riferimento ad un fatto oggetto di indagine e, non ultimo, di censure di attività di inquinamento probatorio la cui ipotizzabilità anche astratta finisce per minare la solidità complessiva del modello che riconosce al difensore la legittimazione al compimento di indagini a favore del proprio assistito.
Si è ritenuto, invece, di mantenere ferma la facoltà di investigazioni preventive per il difensore della persona offesa, eccettuati gli atti che richiedono l’intervento o l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, considerando che l’obiettivo cui esse sono dirette, ovvero la ricerca di elementi di prova a sostegno di un’ipotesi d’accusa che si intende rappresentare all’autorità giudiziaria, oltre a rendersi frequentemente necessario per assicurare il dovuto fondamento all’atto di denuncia, si rende comunque immediatamente oggetto della valutazione critica del pubblico ministero che può scongiurare i rischi altrimenti paventati nello svolgimento di indagini private avulse dalla pendenza di un procedimento penale.
E’ stato riproposto, alla direttiva n. 59, l’istituto dell’incidente probatorio, con la previsione della possibilità di attivarlo nella fase che precede quella tipica di formazione della prova, su richiesta del pubblico ministero e dell’accusato, solo in casi predeterminati ed eccezionali e con la garanzia del contraddittorio.
Si è ritenuto di individuare solo la generica previsione dell’istituto e dei suoi tratti essenziali, limitando le indicazioni semplicemente alla sua vocazione a formare la prova anticipatamente in situazioni eccezionali e con le garanzie del contraddittorio, rinviando al legislatore delegato, in sede di redazione dell’articolato, una più specifica disciplina con l’esatta individuazione dei casi e dei modi di realizzazione dell’istituto.
Durante i lavori per la messa a punto della bozza definitiva di legge delega era stata individuata, in verità, una disciplina più specifica dell’istituto attraverso la previsione del potere del pubblico ministero e dell’accusato, nell’ipotesi in cui vi è fondato motivo di ritenere che la prova non sia rinviabile al dibattimento, di chiedere al giudice, con incidente probatorio, che si proceda all’esame dell’imputato, a confronti, a esperimenti giudiziali, a perizie e all’assunzione di testimonianze. Era stato, poi, previsto che per le ricognizioni si procedesse di norma con incidente probatorio. La direttiva contemplava anche l’obbligo di garantire la partecipazione in contraddittorio del pubblico ministero e dei difensori delle parti l’direttamente interessate, il divieto di verbalizzare e di utilizzare le dichiarazioni concernenti persone diverse da quelle chiamate a partecipare. Dal punto di vista delle modalità di svolgimento, era anche stata individuato il potere-dovere del giudice di dichiarare inammissibili le richieste irrilevanti o dilatorie, e di prevedere che il giudice, su richiesta motivata del pubblico ministero, possa dilazionare l’assunzione dell’incidente probatorio chiesto dall’imputato, quando esso arrecherebbe pregiudizio al compimento di determinate indagini preliminari e per il tempo strettamente necessario alla conclusione di tali indagini e sempre che il ritardo non pregiudichi la formazione della prova chiesta dall’imputato. Infine, era stato contemplato l’obbligo di depositare, prima dell’udienza di assunzione dell’incidente probatorio, la richiesta motivata del pubblico ministero con gli atti di indagine compiuti, salvo che il giudice, su richiesta del pubblico ministero, non disponga diversamente.
Non sono mancate richieste di modifica della disciplina dell’istituto di segno opposto: da un lato, ampliando il ricorso all’incidente probatorio (richiesta proveniente dalla magistratura); dall’altro, ridimensionandolo significativamente (richiesta proveniente dall’avvocatura).
La Commissione ha ritenuto, invece, corretto delineare solo i tratti essenziali dell’incidente probatorio, ribadendo la sua utilità, senza, però, addentrarsi nella specifica disciplina, lasciata al futuro legislatore delegato. L’esatta individuazione dei caratteri essenziali dell’incidente probatorio è, però, più che sufficiente a dettare i criteri di fondo del futuro assetto normativo. La predeterminazione dei casi e l’eccezionalità degli stessi delimita significativamente le possibilità di ricorso all’incidente probatorio alle ipotesi di effettiva necessità di acquisire anticipatamente la prova secondo la regola della irripetibilità–non rinviabilità della prova. La garanzia del contraddittorio scandisce, in armonia con l’art. 111 Cost., il modo naturale di acquisizione di ogni dato probatorio.
 
17. il coordinamento investigativo
La necessità di specifiche direttive in materia di coordinamento investigativo è stata riconosciuta dalla Commissione in ragione dell’obiettiva esigenza di razionale completamento di un processo di costruzione normativa avviato soltanto dopo la codificazione del 1988, sul presupposto che l’introduzione di regole processuali deputate ad assicurare il proficuo raccordo informativo ed operativo degli uffici del pubblico ministero corrisponda ad un bisogno reale di razionalizzazione dell’agire giudiziario, in ciò traducendosi praticamente la più generale domanda collettiva volta ad evitare conflitti e contraddizioni dell’azione dei pubblici poteri.
Come noto, in materia di coordinamento investigativo, le scelte originarie del legislatore del 1988 furono altre, accogliendosi l’idea di un sistema di disciplina dell’azione degli uffici dei pubblici ministeri titolari di indagini collegate complessivamente ancorato al presupposto della spontaneità della collaborazione degli organi d’indagine e dall’assenza di sanzioni processuali per l’ipotesi di crisi di effettività del suo funzionamento.
Il primo tentativo di correzione fu costituito dall’introduzione dell’art. 118-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, operata dall’art. 9 del d.lgs. 14 gennaio 1991 n. 12. Con tale norma si affidava al procuratore generale presso la corte d’appello – da solo o d’intesa con altri procuratori generali in caso di collegamenti interdistrettuali - il compito di promuovere il coordinamento delle indagini relative ai delitti più gravi, a tal fine prevedendosi un obbligo di informativa dei procuratori della Repubblica circa l’apertura di procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 407 cpv. lett. a) c.p.p.
Nel volgere di pochi mesi, seguirono altre e rilevanti modifiche legislative. Dapprima, attraverso l’introduzione del primo comma-bis dell’art. 372 c.p.p. realizzata dall’art. 3 del d.l. 292/1991 convertito con modificazioni nella l. 356 dell’8 novembre 1991; quindi, in materia di criminalità organizzata mafiosa, con l’affermarsi della più radicale scelta di andare apertamente verso la concentrazione delle indagini in capo soltanto a taluni uffici, con contestuale introduzione, nella medesima materia, di articolate funzioni eteronome di impulso e coordinamento delle indagini collegate (d.l. 20 novembre 1991 n.367, convertito con modificazioni nella legge 20 gennaio 1992 n.8).
Le indagini relative ai reati ricompresi nel novero di quelli di cui al vigente art. 51 comma 3-bis c.p.p. vennero così poste al centro di un articolato sistema di coordinamento, all’interno del quale le funzioni di impulso e coordinamento della direzione nazionale antimafia assumevano rilievo assolutamente innovativo.
La materia di possibile coordinamento delle indagini collegate definita dall’art. 371 c.p.p. veniva così, di fatto, a scomporsi definitivamente, dando origine a tre sottosistemi.
Le indagini in materia di reati di mafia (e legalmente assimilati) ne costituiscono il primo e più compiuto livello di articolazione funzionale.
La materia di collegamento investigativo non attratta nella sfera di attribuzione delle d.d.a. e della d.n.a. veniva così a comporsi in due ulteriori sottosistemi, l’area dei quali risultando rispettivamente definita:
a) dai reati corrispondenti alle previsioni residue dell’art. 407 cpv. lett. a), in relazione ai quali l’effettività del coordinamento era (ed è) affidata agli strumenti dell’art. 118-bis disp. att. e 372 comma 1-bis c.p.p.;
b) dai casi individuati in via assolutamente residuale, nei quali il coordinamento continuava (e tuttora continua) a reggersi sulla disponibilità degli uffici inquirenti interessati.
Soprattutto, appare interessante sottolineare come la forza decrescente degli strumenti di coordinamento utilizzabili con riferimento a ciascuno dei tre sottosistemi appena enunciati ha costituito nella più recente legislazione (in materia di associazioni criminose finalizzate al contrabbando di tabacchi lavorati esteri così come per i delitti in materia di tratta di persone introdotti con la l. n. 228 dell’11 agosto 2003) il fondamentale argomento per giustificare l’estensione delle attribuzioni delle direzioni distrettuali antimafia e della Direzione nazionale antimafia, derivando dalla progressiva dilatazione dell’orbita applicativa dell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., l’applicabilità, oltre che del più incisivo regime di ricerca della prova tipico delle indagini relative ai delitti di mafia, soprattutto, dei meccanismi di concentrazione della legittimazione inquirente e di più serrato coordinamento tipici dei delitti già attratti nella sfera di attribuzioni delle procure distrettuali antimafia.
Nell’uno e nell’altro caso, ancora incidentalmente, si può osservare che a giustificare quelle scelte di politica criminale ha concorso anche la considerazione obiettiva che un efficace coordinamento investigativo è tanto più necessario nelle materie criminologiche segnate dalla dimensione transnazionale dei fenomeni illeciti e dalle correlative esigenze di cooperazione internazionale.
Parallelamente, intanto, il sistema si è arricchito di previsioni normative finalizzate al contemperamento delle istanze di duttilità ed efficacia delle indagini preliminari con quelle di garanzia delle ragioni difensive coinvolte nell’azione investigativa, come dimostra la vicenda dell’introduzione dell’art. 54-quater c.p.p.
Questa faticosa opera di assestamento normativo, avviatasi nel volgere di pochi anni dall’entrata in vigore del codice di rito penale del 1988, è ben lungi dal potersi dire conclusa, perché residuano significativi margini di razionalizzazione del sistema, obiettivamente riconoscibili con riguardo, soprattutto, da un lato, alla perdurante assenza di un centro unitario di imputazione delle funzioni di coordinamento investigativo in materia di indagini relative a delitti con finalità di terrorismo, e, dall’altro lato, al residuare di ambiti investigativi, sovente anche assai rilevanti, sottratti all’azione di coordinamento del procuratore generale presso la corte d’appello.
Sul primo versante, come noto, alla riconosciuta (per effetto del decreto legge 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni con la legge n. 438 del 15 dicembre 2001) necessità di procedere alla concentrazione della legittimazione investigativa in capo soltanto agli uffici distrettuali del pubblico ministero, corrispose la scelta di lasciare invariata la disciplina del coordinamento delle indagini collegate.
Tale situazione appare bisognosa di superamento, poiché priva il coordinamento tra le procure distrettuali della chiave razionale offerta dall’esistenza di una struttura centrale in grado di raccogliere, analizzare ed elaborare i dati e le informazioni provenienti dai singoli ambiti di iniziativa giudiziaria e così innervare funzioni di coordinamento, ma altresì perché viene a mancare la possibilità di coniugare la specificità dell’intervento giudiziario necessario in materia di terrorismo con l’esigenza di una visione complessiva dei fenomeni criminali più gravi in grado di cogliere le multiformi connessioni operative fra l’azione di gruppi terroristici e quella della criminalità organizzata e di porsi come premessa di un razionale impiego delle conoscenze accumulate e delle risorse disponibili.
La necessità di ciò è, del resto, particolarmente visibile nella prospettiva della cooperazione internazionale, che chiama i singoli stati a dotarsi, anche nella materia in esame, di strumenti di azione preventiva e repressiva in grado di interagire secondo regole di semplicità, rapidità ed efficienza, ciò che appare incompatibile con il frazionamento territoriale delle funzioni di coordinamento interno che caratterizza le indagini in tema di delitti con finalità di terrorismo e con le obiettive istanze di semplificazione della cooperazione possibile tra Stati.
Su questo terreno, in particolare, le difficoltà di agire coordinato nel singolo ambito nazionale si esaltano, dal momento che non è ragionevole pensare di potere credibilmente agire nello scenario della cooperazione internazionale caricando i già complessi problemi della collaborazione fra autorità di Paesi diversi del peso aggiuntivo della difficoltà di un coordinamento interno anche soltanto potenzialmente sofferto ed incerto.
Sul presupposto di ciò, si è scelto (in ciò registrandosi all’interno della Commissione una sostanziale identità di visioni) di prevedere l’assegnazione delle funzioni di coordinamento delle indagini in materia di reati con finalità di terrorismo all’ufficio del procuratore nazionale antimafia (ciò che potrebbe giustificare anche il mutamento di tale ultima denominazione).
L’opzione astrattamente alternativa di prevedere l’istituzione di un nuovo ufficio giudiziario è stata esclusa riconoscendosi le difficoltà e le obiettive diseconomie di un sistema che scegliesse di dotarsi di distinti centri di esercizio delle funzioni di coordinamento in ambito nazionale delle indagini in tema di criminalità organizzata e di terrorismo.
La duplicazione delle funzioni comporterebbe, infatti, inevitabilmente il pericolo di una loro sovrapposizione o persino contraddizione ogni qual volta le indagini rivelassero, come l’esperienza ha già dimostrato, la concretezza delle connessioni fenomenologiche fra la criminalità dell’una e dell’altra specie.
In ogni caso, sul piano pratico, ben difficilmente il nuovo ufficio potrebbe assicurare immediatamente operatività adeguata alla complessità delle funzioni da attribuirgli e all’urgenza delle sfide criminali, senza considerare l’aggravio burocratico e le difficoltà del raccordo delle procure distrettuali con due distinti organi di coordinamento nazionale.
L’ipotesi di unitaria organizzazione delle funzioni di coordinamento delle indagini in tema di reati di criminalità organizzata e con finalità di terrorismo consentirebbe di raggiungere ulteriori, non secondari vantaggi, sul piano:
a) dell’immediata operatività di strutture ormai da tempo efficaci, secondo modelli di riconosciuta funzionalità e sperimentata compatibilità con le autonome prerogative degli uffici territoriali;
b) della immediata disponibilità di risorse e strutture già disponibili (si pensi al complesso sistema informatico che collega tutte le procure distrettuali alla Direzione nazionale antimafia al fine del loro coordinamento), in luogo di quelle da apprestarsi attraverso la costituzione di nuove strutture;
c) della maggiore facilità della collaborazione giudiziaria internazionale (individuandosi un unico centro di contatto a fini di scambio informativo, oltre che per le finalità proprie della Rete Giudiziaria Europea e delle funzioni di corrispondente nazionale del membro nazionale di Eurojust);
d) della possibilità di lettura globale di dinamiche criminali sovente insuscettive di letture frazionate; e) della semplicità del raccordo fra la funzione di coordinamento investigativo e quelle assegnate agli organi centrali di polizia giudiziaria.
Quanto all’ampiezza semantica della formula delitti di criminalità organizzata, essa non può che definirsi, in conformità alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità e di parte della dottrina, che in rapporto ai fini per i quali la nozione viene in rilievo.
Ne consegue che nella prospettiva dell’attuazione delle direttive in parola la nozione suddetta dovrà intendersi riferita non già al mero agire delittuoso attraverso stabili strutture organizzate, ma alle manifestazioni delittuose della criminalità organizzata di tipo mafioso nonché a quelle ulteriori, specifiche tipologie delittuose che appaia al legislatore necessario assimilare alla delinquenza mafiosa.
Sul secondo versante, ha trovato unanime accoglimento l’idea di estendere l’area delle funzioni di coordinamento del procuratore generale presso la corte d’appello al complesso delle materie di indagine, diverse da quelle ricondotte alla sfera di attribuzione del procuratore nazionale, suscettive di rivelare profili di collegamento e, dunque, esigenze di razionale governo delle possibili difficoltà del raccordo operativo tra uffici diversi.
La necessità di perseguire obiettivi di completezza, tempestività e imparzialità delle investigazioni già attraverso la disciplina delle attività del pubblico ministero è alla base della previsione dell’attribuzione agli organi titolari di funzioni di coordinamento, nell’ambito della rispettive sfere di attribuzioni, di poteri tipici delle relazioni di sovraordinazione funzionale e, fra questi, di avocazione delle indagini in casi, da prevedersi tassativamente dal legislatore, di gravi inerzie ed ingiustificate violazioni dei doveri di coordinamento.
In generale, spetterà al legislatore delegato l’individuazione dei casi e dei modi del coordinamento investigativo delle indagini collegate, sul presupposto, ormai permeante il sistema, che, salva la facoltà del legislatore di tipizzare i casi nei quali le ragioni dell’unità dei procedimenti prevalgono in modo così netto da incidere direttamente sul tema dell’individuazione del giudice competente quelle che comunque possono giustificare la trattazione unitaria di procedimenti distinti, nella specifica dimensione della conduzione delle indagini preliminari, il legislatore, senza pronunciarsi sul problema della concentrazione delle attività dinanzi alla medesima autorità, può e deve riconoscere che tra procedimenti possono esservi legami di reciproca influenza tali da imporre ovvero comunque consentire il coordinamento delle attività d’indagine condotte da più uffici.
All’interno di tale sistema così delineato, la connessione opera già nella fase delle indagini preliminari, ma in modo assai meno rigido, trattandosi di contemperare le esigenze di trattazione unitaria dei procedimenti connessi, con le ragioni di duttilità e proficuità proprie della fase procedimentale deputata alla ricerca delle fonti di prova, ciò che è appunto assicurato dalla funzione di collegamento, legalmente descritta guardando al piano fattuale e senza distinzione alcuna tra possibilità di cognizione unitaria o disgiunta, come la dottrina assolutamente prevalente riconosce allorquando afferma che ambito e finalità del coordinamento investigativo riguardano direttamente ed immediatamente anche l’intera materia della connessione, indipendentemente dall’idoneità della natura del legame tra i procedimenti a giustificare la loro trattazione unitaria, potendo, quando procedono per reati connessi, i pubblici ministeri optare per la concentrazione dei procedimenti (d’intesa fra loro ovvero promuovendo un contrasto positivo) ovvero per valorizzare innanzitutto il coordinamento delle rispettive attività.
La discrezionalità delle valutazioni del p.m. è, naturalmente, suscettiva di temperamenti legali in riferimento a specifiche ragioni (è il caso, oltre che della procedura di controllo attualmente disciplinata dall’art. 54-quater c.p.p., della norma introdotta dalla legge di conversione del d.l. 341/2000 che estende tendenzialmente alla fase investigativa la regola della separazione d’urgenza che obbligatoriamente governa le valutazioni processuali del rischio di scarcerazione degli imputati per i quali non esistano altri titoli di detenzione), ma, in generale, non suscettiva di vincoli incompatibili con l’esigenza di consentire l’orientamento delle scelte dell’organo inquirente sulla base di elementi variegati e complessi, generalmente connessi alla considerazione dello stato e delle modalità delle attività d’indagine in svolgimento.
La considerazione di quanto sinora esposto rende obiettivamente evidente la necessità di una coerente disciplina dei contrasti, positivi e negativi, tra uffici del pubblico ministero e, in particolare, l’esigenza di privilegiare nella regolazione delle procedure di designazione dell’organo requirente obiettivi di semplicità e rapidità e, nel contempo, di piena valorizzazione degli esiti indiziari già acquisiti.

18. Azione penale ed archiviazione
decorrente dall’acquisizione della notizia di reato»). A tale esigenza – tanto più avvertita dalla Commissione dopo avere riconosciuto la legittimità delle investigazioni del pubblico ministero dirette all’acquisizione della notizia di reato (vedi sub direttiva 54) – si accompagna quella di consentire al giudice, su istanza dell’interessato, la “retrodatazione” del termine investigativo iniziale (si veda ancora la direttiva 60: «5. potere-dovere del giudice, su istanza dell’interessato, subito dopo il compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della costituzione delle parti nell’udienza di conclusione delle indagini preliminari o, se questa manchi, in giudizio, di accertare la data di effettiva acquisizione della notizia di reato agli atti del procedimento, ai fini della valutazione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari»). Al riguardo, si è ritenuto, per un verso, che l’erronea indicazione della data di acquisizione della notizia di reato da parte del pubblico ministero (nel senso, ovviamente, dell’indicazione di una data successiva a quella di effettiva acquisizione) dovesse comportare soltanto l’inutilizzabilità degli atti investigativi compiuti dopo la scadenza del “vero” termine investigativo e non anche l’inutilizzabilità degli atti investigativi compiuti tra la data di acquisizione effettiva della notizia e la data di acquisizione indicata nel registro. Per altro verso, si è ritenuto opportuno non solo confinare il potere di retrodatazione del giudice alla sola verifica della utilizzabilità degli atti investigativi compiuti fuori termine, ma anche dislocare tale verifica, da effettuarsi su istanza dell’interessato, in uno specifico momento processuale («subito dopo il compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della costituzione delle parti nell’udienza di conclusione delle indagini preliminari o, se questa manchi, in giudizio»). Conviene inoltre ribadire che il giudice non dovrà essere chiamato a sindacare la correttezza della data di iscrizione della notizia di reato ma la correttezza della data di acquisizione, indicata all’atto dell’iscrizione. L’inciso «agli atti del procedimento» punta, infine, a evitare che il vaglio giurisdizionale possa estendersi ad atti inseriti ab origine in fascicoli relativi ad altri, ed ancora riservati, procedimenti. Le direttive 63-65 contengono i criteri ai quali dovrà ispirarsi il legislatore delegato nel disciplinare l’istituto dell’archiviazione della notizia di reato. Quanto ai presupposti dell’archiviazione, indicati nella prima parte della direttiva 63 («1. potere-dovere del giudice di disporre, su richiesta del pubblico ministero, l’archiviazione per essere ignoti gli autori del reato o per insostenibilità dell’accusa in giudizio, anche per la particolare tenuità del fatto»), si è ritenuto opportuno, in primo luogo, promuovere la “insostenibilità dell’accusa in giudizio” a criterio di carattere generale per la legittima desistenza dall’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Ciò nella convinzione che tale presupposto – comune al provvedimento liberatorio terminativo dell’udienza di conclusione delle indagini – debba essere inteso come comprensivo non soltanto delle fattispecie di “infondatezza” in senso stretto della notizia di reato, ma anche delle ipotesi attualmente disciplinate dall’art. 411 c.p.p. (improcedibilità, estinzione del reato, non previsione del fatto come reato), nonché, in genere, di tutte le ipotesi di prevedibile esito abortivo dell’imputazione, quale che sia la formula di proscioglimento che si presume verrebbe adottata in sede processuale. Scompare per questo motivo il richiamo, contenuto nella direttiva 50 della legge delega del 1987, alla improcedibilità dell’azione penale quale causa “speciale” di archiviazione. In questo modo dovrebbero essere superate le incertezze interpretative derivanti dall’attuale disposto dell’art. 411 c.p.p. (da non riprodurre in sede di attuazione della delega), il quale, dichiarando archiviabili per una ragione diversa dalla loro infondatezza le notizie di reato concernenti fatti estinti o non previsti dalla legge come reato o perseguibili solo in presenza di una condizione di procedibilità in concreto insussistente, sembrerebbe escludere dal perimetro operativo degli artt. 408-414 c.p.p. le notizie di reato non definibili stricto sensu infondate ma neppure ricomprese in quel catalogo (ad esempio, le notizie di fatti non costituenti reato o non punibili). Per queste stesse ragioni – vale a dire, per la sua sostanziale superfluità – la Commissione ha ritenuto di non inserire nella direttiva un richiamo alla possibilità di decretare l’archiviazione “per intervenuta oblazione”, come pure era stato proposto. Chiarito che si è ritenuto, per contro, di assegnare ancora autonomo rilievo, in ragione delle sue peculiarità, all’archiviazione delle notizie di reato concernenti soggetti ignoti, un discorso più articolato merita il riferimento alla possibilità di decretare l’archiviazione “anche per la particolare tenuità del fatto”. Al riguardo, la Commissione – unanimemente favorevole a estendere al processo ordinario l’istituto della tenue offensività, sinora confinato, a titolo sperimentale, nel sottosistema minorile e in quello di pace – ha dovuto affrontare in via pregiudiziale due delicate questioni. In primo luogo, si doveva decidere se configurare la tenuità del fatto come causa di esclusione della punibilità (secondo il modello già normativamente sperimentato in ambito minorile) oppure come causa di esclusione della procedibilità (secondo il modello già normativamente sperimentato nell’ambito del procedimento di pace). In secondo luogo, si trattava di stabilire se consentire la declaratoria di tenuità del fatto anche in sede di archiviazione della notizia di reato o soltanto in ambito processuale (id est, con sentenza): in altre parole, se configurare o meno la modesta offensività della condotta come una causa di legittima desistenza dall’esercizio dell’azione penale. Si tratta, è bene precisarlo, di due variabili indipendenti: in quanto causa di improcedibilità, è scontato che la modesta offensività della condotta criminosa avrebbe potuto e dovuto essere annoverata tra i presupposti di legittima rinuncia alla potestas agendi; ma la scelta di configurare la particolare tenuità del fatto come causa di non punibilità non impedisce di prevedere che la tenuità venga ugualmente dichiarata con archiviazione. Quanto al primo dilemma, si è ritenuto che il compito di fornire il più corretto inquadramento sistematico all’istituto non potesse che essere affidato ai lavori di riforma del codice penale. L’opinione della Commissione è che sarebbe peraltro inopportuno configurare la tenuità del fatto come causa di improcedibilità, sia per il rilievo che una simile qualificazione risulta più coerente con la previsione di cause di mancato esercizio o di mancato proseguimento dell’azione penale legate alla valutazione di interessi esterni al fatto e al suo autore, sia perché la disciplina processuale dell’improcedibilità (e in particolare, la precedenza logica che va riconosciuta all’improcedibilità rispetto alle altre cause di proscioglimento) stenta a conciliarsi con i contenuti della declaratoria di tenuità, che non può prescindere dall’analisi del merito della causa e che dovrebbe intervenire, almeno in sede dibattimentale, soltanto dopo l’accertamento degli altri elementi costitutivi del reato. Quanto all’alternativa archiviazione/sentenza (rectius, archiviazione e sentenza o solo sentenza), la prima soluzione presa in esame è stata quella di prevedere, in accordo con un diffuso orientamento dottrinale, che la tenuità del fatto potesse venire dichiarata soltanto dopo l’esercizio dell’azione penale, con sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento. A sostegno di tale soluzione si è fatto rilevare, nel corso della discussione, come la declaratoria di tenuità non possa prescindere dall’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto tenue: e ciò sia sul piano logico, non potendo essere valutata, in concreto, la tenuità di un fatto di reato se non dopo averne ricostruito i connotati oggettivi e soggettivi di illiceità, sia sul piano giuridico, dal momento che una decisione di tenuità adottata “in ipotesi di responsabilità” graverebbe pesantemente e in maniera del tutto ingiustificata sulla reputazione e sull’onorabilità del suo destinatario (il quale, come è ovvio, potrebbe non avere mai commesso il fatto asseritamente tenue, o averlo commesso in presenza di cause scriminanti). La decisione della quale si discute andrebbe pertanto necessariamente adottata in un contesto “garantito”, nel cui ambito l’imputato possa rivendicare e far valere il suo diritto a essere prosciolto per tenuità del fatto da un giudice che abbia previamente accertato la sua responsabilità. Accolte simili premesse, si sarebbe dovuta coerentemente escludere la possibilità di dichiarare la non punibilità (o l’improcedibilità) per tenuità del fatto in sede di archiviazione della notizia di reato; accertata nel corso della fase investigativa la modesta offensività dell’episodio criminoso, il pubblico ministero non avrebbe potuto interrompere le indagini e chiedere una declaratoria di tenuità “in ipotesi di responsabilità”. A questo modello di regolamentazione dell’istituto – destinato a introdurre forme di esercizio sostanzialmente astratto dell’azione penale (in quanto il pubblico ministero, in possesso di elementi investigativi tali da rendere probabile un proscioglimento dibattimentale per tenuità del fatto, avrebbe dovuto comunque esercitare l’azione) e a rendere necessaria, di conseguenza, una rimodulazione dello stesso concetto di “superfluità” del processo adottato dalla Corte costituzionale a parametro fondamentale delle scelte dell’organo inquirente in materia di azione penale – si è opposto, in primo luogo, che esso non avrebbe comportato alcun significativo guadagno in termini di economia processuale e quindi di durata ragionevole dei processi. E’ stato osservato, infatti, che l’ampliamento dello spettro decisionale conseguente all’introduzione della nuova formula di proscioglimento comporterà un inevitabile appesantimento delle cadenze processuali, dovuto anche al notevole incremento degli obblighi motivazionali negativi gravanti sul giudice: appesantimento al quale, nella prospettiva in esame, non avrebbe fatto riscontro alcun risparmio di tempo e di risorse processuali in fase investigativa, dovendo l’indagine sul fatto tenue svolgersi comunque in maniera completa e dovendo l’azione penale venire necessariamente esercitata. Il rischio paventato da taluni commissari è che, a simili condizioni, il vaglio di tenuità del fatto finisse per retrocedere a sedi procedimentali non soltanto non garantite, ma addirittura sottratte al controllo giurisdizionale: il riferimento è alla possibile disinvolta “cestinazione” delle notizie di reato concernenti i fatti di scarsa portata lesiva, ma anche alla selezione delle notitiae criminis effettuata sulla base dei “criteri di priorità” individuati dal capo dell’ufficio, tra i quali tradizionalmente figura – e non potrà non figurare anche nel momento in cui la materia dovesse trovare finalmente una compiuta regolamentazione normativa – la dimensione concretamente offensiva dell’illecito. Il pericolo, in altre parole, era che al cospetto di un illecito rivelatosi “tenue” fin dalla prima delibazione della notitia criminis, il pubblico ministero, anziché indagare in maniera completa ed esercitare l’azione penale solo per assicurare all’imputato una sentenza di proscioglimento, avrebbe potuto preferire il commodus discessus dell’abbandono della notizia di reato sullo scaffale degli affari “non prioritari” (se non quello, ancora più insidioso, del ricorso al “modello 45”): con buona pace, è appena il caso di osservarlo, non solo delle aspettative di giustizia del denunciato e dell’offeso, ma anche del rispetto del principio di obbligatorietà. Quanto alle obiezioni in ordine alla ritenuta impossibilità (logica e giuridica) di decidere nel senso della tenuità senza avere previamente accertato la responsabilità dell’indagato, si è ritenuto, in primo luogo, che la valutazione di possibile superfluità del dibattimento legata alla modesta offensività della condotta criminosa possa essere effettuata in molti casi dal pubblico ministero anche assumendo come mera ipotesi la responsabilità dell’indagato. E’ quanto accade, del resto, in ambito minorile secondo la stessa Corte costituzionale: «è evidente – si legge in Corte cost. 22 ottobre 1997, n. 311 – che il giudice per le indagini preliminari è chiamato a pronunciarsi sulla richiesta del pubblico ministero in astratto e assumendo l’ipotesi accusatoria, per l’appunto, come mera ipotesi, e non dopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l’imputato ne porta la responsabilità». Quanto all’obiezione legata all’ingiustificato “stigma di colpevolezza” che un’eventuale archiviazione per tenuità imprimerebbe sull’indagato totalmente estraneo ai fatti addebitatigli, si è ritenuto che la giusta esigenza di salvaguardare la reputazione dell’indagato non possa ricevere tutela dal procedimento penale se non all’interno dei confini segnati dalla sua funzione, che è quella di accertare le responsabilità penali e di infliggere le pene. Nei confronti dell’”archiviato per tenuità” residuerebbe, a ben vedere, il dubbio che egli abbia tenuto un comportamento (magari riprovevole ma) che l’ordinamento non ritiene meritevole di pena. Ciò si verifica, tuttavia, anche quando un cittadino venga denunciato per un fatto infamante del quale non è assolutamente responsabile ma che, pacificamente, non è previsto dalla legge come reato. In simili circostanze, sarebbe palesemente ultroneo pretendere che il pubblico ministero svolga indagini ed eserciti l’azione penale al solo fine di salvaguardare il diritto del denunciato al proscioglimento con formula pienamente liberatoria. Alla soluzione favorevole ad ammettere la declaratoria di tenuità del fatto “in ipotesi di responsabilità” è stata infine opposta un’ultima obiezione. Tra i presupposti della tenuità rilevanti nell’ambito del processo minorile e del processo di pace figura, come è noto, l’occasionalità della condotta criminosa: ed è ragionevole prevedere che tale presupposto sarà mantenuto anche nella versione “ordinaria” dell’istituto che è attualmente allo studio della Commissione di riforma del codice penale. Non contenendo neppure per implicito l’affermazione che il fatto si è verificato ed è stato commesso dalla persona sottoposta a indagine, il provvedimento di archiviazione per tenuità del fatto, si è osservato, non potrebbe essere addotto a dimostrazione del carattere non occasionale di una seconda condotta criminosa di scarsa offensività addebitata al medesimo soggetto. Consentire la declaratoria di tenuità “in ipotesi di responsabilità” vorrebbe dire, pertanto, vanificare lo stesso presupposto dell’occasionalità e rassegnarsi alla serialità bagatellare. Anche questa obiezione, tuttavia, non è stata ritenuta insuperabile dalla Commissione. Il requisito dell’occasionalità può essere infatti smentito anche da un comportamento successivo a quello ritenuto occasionale: nell’ipotesi considerata, dunque, la totale assenza di preclusività del provvedimento di archiviazione renderebbe possibile non soltanto indagare sul secondo episodio criminoso ma anche riaprire le indagini nei confronti del primo, che non apparirebbe più occasionale alla luce della probabile reiterazione; il carattere occasionale o meno delle due condotte verrebbe così valutato unitariamente. In questi termini, la declaratoria di tenuità del fatto mediante archiviazione potrebbe funzionare come una sorta di sospensione condizionale dell’azione penale, con benefici effetti di prevenzione speciale nei confronti del soggetto che ne fosse destinatario. Per tutte queste ragioni si è ritenuto preferibile ricondurre la declaratoria di particolare tenuità del fatto nell’alveo dell’ordinaria procedura di archiviazione. La soluzione prefigurata – tipizzazione normativa delle ipotesi di legittima desistenza dall’azione penale per la modesta offensività della condotta; previsione di un controllo giurisdizionale sulla legittimità della scelta abdicativa strutturato nelle forme “tradizionali” della procedura di archiviazione (con relativo coinvolgimento della persona offesa dal reato); possibilità per il pubblico ministero di richiedere e ottenere l’archiviazione non appena, nel corso delle indagini, il fatto si appalesi tenue – è sembrata quella concretamente più idonea a coniugare il principio di mitezza della risposta sanzionatoria all’illecito penale con l’esigenza di razionalizzare le dinamiche di gestione del potere di azione, oggi obiettivamente alterate da uno squilibrio tra risorse operative e compiti istituzionali che chiama il pubblico ministero a compiere scelte ispirate a criteri largamente autoreferenziali. Conviene peraltro precisare – per non alimentare equivoci analoghi a quelli che la Commissione ha inteso scongiurare eliminando dal testo della direttiva il riferimento alle cause di improcedibilità – che la tenuità del fatto non assume, nell’economia della direttiva, i connotati di una causa di archiviazione ulteriore rispetto a quella derivante dalla ritenuta impossibilità di sostenere l’accusa. Occorre cioè ribadire che tale presupposto (la “non sostenibilità dell’accusa in giudizio”) abbraccia tutte le ipotesi di prevedibile esito proscioglitivo del dibattimento, ivi comprese le cause di improcedibilità e le cause di non punibilità e dunque, in prospettiva futura, anche la tenuità del fatto. Da questo punto di vista, l’inciso “anche per la particolare tenuità del fatto” può dunque suonare – ed effettivamente è – superfluo: la sua funzione è unicamente quella di ribadire, per un verso, l’impellente necessità di introdurre una causa generale di improcedibilità o di non punibilità legata alla scarsa offensività della condotta criminosa (per le stesse ragioni l’inciso figura, ad esempio, nella direttiva 27.2 dedicata alle formule dibattimentali di proscioglimento); per altro verso, quella di chiarire che non esistono ragioni perché la tenuità del fatto non possa essere dichiarata con provvedimento di archiviazione al pari di tutte le altre cause di improcedibilità o non punibilità. Tornando ai contenuti della direttiva 63, la Commissione, quanto alla procedura di controllo sul rispetto dell’obbligo di agire costituzionalmente imposto al pubblico ministero («2. potere-dovere del giudice di ordinare al pubblico ministero l’iscrizione delle notizie di reato risultanti dagli atti d’indagine diverse o ulteriori rispetto a quelle oggetto della richiesta del pubblico ministero; 3. potere-dovere del giudice, nel caso in cui non accolga la richiesta di archiviazione, di richiedere al pubblico ministero lo svolgimento di ulteriori indagini o la formulazione dell’imputazione; 4. adozione del provvedimento di archiviazione con decreto motivato; 5. determinazione dei casi nei quali la decisione del giudice è adottata con ordinanza, sentiti il pubblico ministero e le persone interessate se compaiono; 6. determinazione dei casi in cui il provvedimento di archiviazione può essere sottoposto a impugnazione dalla persona sottoposta a indagine e dall’offeso dal reato»), ha in primo luogo ritenuto – non senza qualche incertezza – che dovesse venire ribadita la scelta, ormai radicata nel nostro ordinamento processuale, di affidare la funzione di controllo all’organo giurisdizionale. Quanto alle forme di esercizio di tale funzione, si è riproposto lo schema risultante dall’attuale disciplina codicistica, imperniato sul potere-dovere del giudice di ordinare al pubblico ministero, in caso di mancato accoglimento della richiesta di archiviazione, lo svolgimento di ulteriori indagini o l’immediata formulazione del¬l’imputa¬zione. Si è tuttavia precisato che il giudice, investito della richiesta di archiviazione di una o più notizie di reato, potrà anche ordinare al pubblico ministero l’iscrizione nell’apposito registro di notitiae criminis diverse e ulteriori rispetto a quelle che costituiscono oggetto delle richieste dell’organo inquirente, purché risultanti dagli atti investigativi. Si è voluto, in questo modo, recepire l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che hanno sottolineato, per un verso, in conformità all’opinione già espressa sul punto dalla Corte costituzionale, come non si possa limitare il sindacato del giudice dell’archiviazione «all’interno dei soli confini tracciati dalla notitia criminis delibata dal pubblico ministero», se non giungendo al paradosso di «delegare […] all’arbitrio dell’organo assoggettato al controllo il potere di ritagliare la quantità e la qualità dell’intervento dell’organo che quel controllo è istituzionalmente chiamato ad esercitare»; ma hanno chiarito, per altro verso, come l’assenza di un effetto rigorosamente devolutivo della richiesta di archiviazione non possa tradursi nel potere del giudice di ordinare direttamente la formulazione dell’imputazione nei confronti di soggetti non ancora iscritti nell’apposito registro, in quanto ciò comporterebbe «il totale scavalcamento dei poteri di iniziativa del pubblico ministero» (nonché, si potrebbe aggiungere, una palese violazione dei diritti difensivi dei destinatari dell’imputazione coatta). Di qui la soluzione adottata, che limita i poteri del giudice alla sola emanazione dell’ordine di iscrizione e – implicitamente – all’indicazione delle ulteriori indagini da svolgere: soluzione da ritenersi applicabile, com’è naturale, anche alla particolare ipotesi della richiesta di archiviazione per essere ignoti gli autori del reato. Restano le direttive concernenti da un lato i diritti partecipativi del pubblico ministero, dell’indagato e della persona offesa alla procedura di archiviazione, dall’altro l’impugnabilità e la preclusività dei provvedimenti del giudice. Il riferimento si indirizza, dunque, non soltanto ai punti 4, 5 e 6 della direttiva 63, ma anche alla direttiva 64 («1. facoltà della persona offesa dal reato di chiedere di essere avvisata della proposizione della richiesta di archiviazione e conseguente obbligo del pubblico ministero di comunicazione della richiesta; 2. facoltà della persona offesa dal reato di presentare al giudice opposizione motivata alla richiesta di archiviazione») e alla direttiva 67 («riapertura, in casi determinati, delle indagini preliminari in relazione ai fatti oggetto di archiviazione, con idonee garanzie per la persona sottoposta alle nuove indagini, e previsione di un termine di durata»). Al riguardo, il dibattito interno alla Commissione ha più volte evidenziato come il principale limite della vigente disciplina codicistica sia quello di assoggettare le notizie di reato lato sensu infondate alla medesima procedura archiviativa sia nell’ipotesi in cui la loro infondatezza emerga ictu oculi o all’esito di accertamenti estremamente sommari del pubblico ministero (si pensi alla notizia di reato concernente un fatto prescritto da anni; alla pacifica assenza di una condizione di procedibilità; al fatto la cui particolare tenuità risulti palese; alla denuncia concernente un reato destinato a estinguersi in tempi brevissimi se l’autore del fatto tiene un determinato comportamento riparatorio entro un termine previsto dalla legge), sia nell’ipotesi in cui la loro infondatezza emerga all’esito di un’indagine preliminare estremamente lunga e complessa e, magari, particolarmente invasiva. Nel primo caso (riconducibile alla vecchia categoria concettuale della “manifesta infondatezza” della notitia criminis), l’attuale procedura di archiviazione pecca per eccesso, imponendo cadenze rituali e obblighi motivazionali sproporzionati rispetto alle esigenze da soddisfare; nel secondo caso essa pecca per difetto, non offrendo, in particolare, alla persona sottoposta alle indagini una serie di garanzie la cui previsione si impone ormai come necessaria conseguenza della tendenziale completezza – nonché, molto spesso, della grave afflittività – dell’indagine preliminare infruttuosa (diritto alla “formula” archiviativa più favorevole e alla preclusività del provvedimento di archiviazione; diritto di rinunciare ad amnistia e prescrizione; conseguente previsione di forme di coinvolgimento preventivo dell’”archiviando” nella procedura di emanazione del provvedimento del giudice, dalla quale oggi, in alcuni casi, egli è completamente estromesso; impugnabilità del provvedimento per far valere i propri diritti ecc.). Al riguardo, la Commissione ha ritenuto opportuno non vincolare il legislatore delegato all’adozione di una particolare soluzione normativa. Si è tuttavia voluta rimarcare la necessità di assegnare alla procedura di archiviazione, per quanto possibile, fisionomie parzialmente differenziate in ragione sia dei contenuti della richiesta del pubblico ministero, sia del tipo di indagine preliminare che precede tale richiesta. Il ricorso a procedure archiviative maggiormente garantite andrà, in particolare, ritenuto necessario – almeno di regola – una volta superata la soglia procedimentale coincidente con la comunicazione dell’accusa all’indagato (comunicazione che, secondo quanto stabilisce la direttiva 60.11, andrà comunque effettuata “non oltre un congruo termine dall’acquisizione della notizia di reato”). Con specifico riferimento, infine, alla direttiva 63.6 («determinazione dei casi in cui il provvedimento di archiviazione può essere sottoposto a impugnazione dalla persona sottoposta a indagine e dall’offeso dal reato»), il riferimento generico alla “impugnazione” del provvedimento archiviativo – anziché alla sua ricorribilità per cassazione – va inteso come un’apertura alla previsione di verifiche di merito del suddetto provvedimento, precluse, in quanto tali, al giudice di legittimità.] Il tentativo di riscrittura della disciplina dell’azione penale non poteva che prendere le mosse dalla constatazione delle gravi patologie che affliggono le attuali dinamiche di esercizio della potestas agendi da parte del pubblico ministero. Si allude, naturalmente, alla pratica impossibilità di dare attuazione al principio di obbligatorietà dell’azione penale, derivante dallo squilibrio esistente tra il numero delle notizie di reato che pervengono agli uffici di procura e le risorse umane e materiali di cui tali uffici dispongono: squilibrio che costringe i magistrati del pubblico ministero a compiere quotidiana¬mente scelte di politica criminale delle quali non rispondono politicamente, con buona pace del principio di soggezione del pubblico ministero sol¬tanto alla legge implicito nell’art. 112 Cost. e della sua funzione di irrinunciabile presidio dell’indipendenza esterna del rappresen¬tante dell’accusa.
Al riguardo si impone immediatamente un chiarimento. La regola dell’obbligatorietà è violata se il pubblico ministero non esercita l’azione penale quando sussistono le condizioni di legge che ne rendono doveroso l’esercizio (non infondatezza della notizia di reato), oppure se il pubblico ministero non compie le attività necessarie perché quelle condizioni si realizzino (vale a dire, se non vengono svolte tutte le indagini necessarie per sondare la fondatezza della notizia di reato). Benché la sua riconducibilità al perimetro operativo dell’art. 112 Cost. sia quanto meno dubbia, non va tuttavia sottovalutata, come è ovvio, la patologia inversa: l’ipotesi, cioè, dell’azione penale che venga esercitata nonostante manchino le condizioni di legge. L’eccesso di zelo, l’accanimento persecutorio, il “messianesimo inquisitorio” (per usare l’efficace espressione di uno studioso di diritto costituzionale) sono fenomeni non meno preoccupanti della colpevole inerzia, delle coperture, degli “insabbiamenti” che si è soliti tradizionalmente associare al cattivo esercizio del potere di agire. Lo dimostra la più recente legislazione processuale in materia di azione penale, quasi esclusivamente animata dal timore di scongiurare le iniziative azzardate del pubblico ministero: iniziative che il legislatore ha cercato di prevenire intervenendo sia in ambito ordinamentale (la titolarità esclusiva dell’azione penale recentemente assegnata al procuratore capo e il complessivo irrigidi¬mento dei vincoli gerarchici interni all’ufficio giocano a favore dell’inerzia piuttosto che dell’azzardo investigativo) sia in ambito processuale (con il neonato art. 405 comma 1-bis c.p.p. che, addirittura, utilizza lo strumento dell’archiviazione per frenare le iniziative penali avventate anziché per porre rimedio alla colpevole inattività del pubblico ministero).
Tentare di prevenire l’abuso delle funzioni inquirenti – limitando i danni “da azione penale temeraria” – è un compito al quale la Commissione non si è certamente sottratta: né è mancata la consapevolezza che per affrontare adeguatamente il tema dell’azione penale ci si sarebbe dovuti interrogare non soltanto sul comportamento del pubblico ministero una volta acquisita la notizia di reato, ma anche sulle dinamiche di acquisizione della notizia stessa (selezione delle notitiae criminis da parte della polizia giudiziaria, poteri di ricerca e acquisizione delle notizie di reato da parte del pubblico ministero ecc.: v. infra, il commento alla direttiva 54 della delega).
In questa sede, l’attenzione sarà tuttavia rivolta al principio di obbligatorietà inteso nella sua accezione più comune – ossia come principio che impone di agire penalmente quando ne ricorrano le condizioni – e agli strumenti normativi che ne possano garantire l’effettività.
L’idea che occuparsi di tutte le notizie di reato acquisite fosse un compito concretamente irrealizzabile dagli uffici di procura è stata accettata per molti anni con una certa rassegnazione dalla dottrina del processo penale (quella, s’intende, non disposta a mettere in discussione il principio di obbligatorietà, dal momento che i fautori del principio di opportunità ne hanno fatto uno degli argomenti-chiave per caldeggiare l’introduzione di tale principio nel nostro ordinamento). Molto spesso ci si è accontentati del generico auspicio che il legislatore contribuisse a riportare su livelli di normalità il carico giudiziario, attraverso un’opera di massiccia depenalizzazione o in altro modo (ad esempio, aumentando le fattispecie di reato perseguibili a querela di parte). S’intende che l’auspicio deve essere rinnovato, anche se finora il suo destinatario non ha inviato segnali confortanti: così come non può non essere rinnovato l’invito a eliminare o ridurre lo squilibrio tra mezzi e fini aumentando le risorse umane e materiali a disposizione dei magistrati.
Da qualche tempo, tuttavia, si è diffusa la consapevolezza che l’art. 112 Cost. si presti a letture non rigide, coraggiosamente “aperte”, compatibili con istituti e soluzioni normative nuove che potrebbero restituire vigore alla regola dell’obbligatorietà.
Una prima soluzione proposta al riguardo è quella che consiste nel per¬mettere agli uffici del pubblico ministero di selezionare legittimamente le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di parametri normativi che andrebbero apposita¬mente individuati in sede parlamentare (i c.d. “criteri di priorità”), e in esecuzione di programmi operativi periodica¬mente stilati dagli stessi dirigenti degli uf¬fici alla luce di quei parametri. Come è stato puntualmente osservato, tale soluzione permetterebbe di «convertire in vincolata la discrezionalità libera della quale gode attualmente il pubblico ministero nel fissare l’ordine dei procedimenti», conferendo «legittimazione democratica agli indirizzi di politica criminale, oggi affidati a soggetti irresponsabili sul piano politico». Una seconda soluzione – perfettamente in grado di coesistere con la prima – è rappresentata invece dall’amplia¬mento normativo dei presupposti di operatività dell’archiviazione: in particolare, dall’idea che si possa consentire al pubblico ministero di rinunciare legittimamente all’azione penale anche nei casi in cui il reato ipotizzato non superi in concreto una soglia minima di offensività. Infine, si va sempre più diffondendo tra gli studiosi del processo penale la convinzione che debbano essere attribuiti poteri di iniziativa penale a soggetti privati, se non, addirittura, a soggetti pubblici diversi dal pubblico ministero.
Sono istituti dei quali già esistono taluni prototipi più o meno funzionanti nel nostro ordinamento. Il riferimento è principalmente all’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998 per quanto riguarda i criteri di priorità, all’art. 34 d.lgs. 274/2000 per quanto riguarda l’archiviazione per irrilevanza del fatto, agli artt. 21 ss. del medesimo d.lgs. per quanto riguarda il coinvolgimento diretto di soggetti privati nelle dinamiche di instaurazione del processo. La possibilità di estenderne e generalizzarne l’ambito operativo è già stata presa in considerazione in numerosi progetti di riforma: inevitabile, dunque, che anche la Commissione si facesse carico del problema.
Per quanto riguarda il sistema dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, nel corso dei lavori della Commissione è emersa, in primo luogo, la convinzione che un siffatto sistema non risulterebbe affatto incompatibile con il principio di obbligatorietà. Scopo delle guide-lines, si è fatto rilevare, è soltanto quello di stabilire in quale ordine le informative di reato devono essere prese in esame dal titolare del potere di azione: l’obbligo di investigare e l’obbligo di agire che l’art. 112 Cost. accolla al pubblico ministero rimarrebbero dunque intatti anche nei confronti delle notizie di reato ritenute dal legislatore non prioritarie. L’obiezione è che indicare le priorità significa, di fatto, consegnare le notitiae criminis postergate a un’inevitabile prescrizione: ma, si replica, questa non è una conseguenza diretta del sistema di cui si ipotizza l’introduzione, bensì l’effetto di una causa remota, rappresentata dal già descritto divario tra numero dei procedimenti e risorse disponibili. Con l’indicazione dei criteri di priorità sarebbe se non altro il legislatore, anziché il capo dell’ufficio di procura, a decidere quali reati devono prescriversi per difetto delle risorse necessarie a garantirne l’accertamento.
Ciò premesso, si è tuttavia ritenuto che le numerose domande alle quali sarebbe stato necessario dare risposta per introdurre una simile riforma nel nostro ordinamento – come andrebbe strutturata la procedura di individuazione normativa dei criteri? quali soggetti istituzionali andrebbero coinvolti nella fase di instaurazione di tale procedura (ministro della giustizia, consiglio superiore della magistratura, procuratore generale presso la corte di cassazione)? quale tipo di atto parlamentare andrebbe adottato (risoluzione, ordine del giorno, legge)? quali cadenze temporali, quali contenuti, quale livello di dettaglio avrebbero dovuto caratterizzare l’intervento legislativo? quali parametri avrebbero dovuto assumere rilevanza nell’indivi¬duazione dei criteri di priorità (esclusivamente parametri di natura sostanziale come il grado di disvalore dell’azione, il grado di disvalore dell’evento, l’intensità della colpevolezza, o anche parametri di matrice processuale come il pregiudizio che il ritardo avrebbe arrecato alla formazione della prova e all’accertamento dei fatti, la prognosi favorevole o sfavorevole in ordine agli esiti dell’indagine, le conseguenze della condanna per l’imputato, l’interesse della persona offesa)? come tenere conto delle particolari esigenze dei diversi territori e delle diverse sedi giudiziarie? come garantire effettività al sistema così congegnato? – avrebbero condotto la Commissione oltre i limiti segnati dai suoi compiti istituzionali, sia per l’inevitabile sconfinamento sul terreno delle dinamiche di formazione della volontà parlamentare, sia per le altrettanto inevitabili interferenze con la riforma della legge di ordinamento giudiziario.
Si è dunque preferito soprassedere, nell’attesa che progetti legislativi di più ampio respiro permettano finalmente di varare una riforma che la Commissione, è bene ribadirlo, ritiene non solo compatibile con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, ma ormai imprescindibile per restituire effettività e concretezza a tale principio. Quanto all’attribuzione di poteri di iniziativa penale a soggetti privati, il dibattito interno alla Commissione si è sviluppato sulla base di talune premesse largamente condivise. Nessun dubbio che si tratti, in linea generale, di una prospettiva riformatrice non soltanto pienamente sintonica con il modello costituzionale di giurisdizione penale, ma anche coerente con il crescente diffondersi di logiche privatistiche e negoziali in settori dell’ordinamento tradizionalmente improntati al dogma dell’indi¬sponibilità (come, ad esempio, nel settore amministrativo e in quello tributario). Altrettanto condivisa, all’interno della Commissione, è risultata l’opzione programmatica di prendere in considerazione soltanto l’ipotesi di attribuire il potere di esercitare l’azione penale all’offeso dal reato. Sono state dunque immediatamente scartate le proposte, più innovative, di attribuire il potere di azione anche al quivis de populo (quanto meno in determinati settori dell’ordinamento ove il controllo popolare appaia partico¬larmente utile) oppure a soggetti specializzati come le ASL in materia di sicurezza sul lavoro, gli uffici tecnici comunali in materia edilizia, gli organi regionali di protezione civile in materia di tutela dell’ambiente. Quest’ultima proposta, in particolare, è stata accantonata per il timore di consegnare le chiavi dell’azione penale a organi politicamente controllabili.
Ciò premesso, il dibattito si è sviluppato sul duplice versante dell’opportunità politica e della legittimità costituzionale della riforma. Sul primo versante, la principale obiezione da fronteggiare rimane quella fondata sul timore di un abuso del potere di azione da parte del privato, il quale, ovviamente, valuta con minore lucidità del pubblico ministero le vicende che lo coinvolgono. Si teme, in altre parole, che resti ancora valido quanto scriveva il ministro della giustizia nella relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1905: «una riforma legislativa non può produrre utili effetti se il Paese non vi sia preparato. Ora, l’educazione civile non è giunta presso di noi a tal segno, da indurne che l’azione popolare possa recare all’amministrazione della giustizia quell’ausilio che si ripromettono i suoi propugnatori. L’istituto, dal punto di vista della scienza astratta, ha un carattere liberale e democratico; ma, nelle condizioni presenti dei nostri co¬stumi, sarebbe pericoloso alla tranquillità dei cittadini [...]. Vi sarebbe a temere che l’esercizio dell’azione penale servisse ad appagare odii e a suscitare vendette, o divenisse mezzo di accuse temerarie, o ca¬lunniose, o di sordide speculazioni».
Assegnare il potere di azione al privato, è stato osservato, significherebbe inoltre attribuire al medesimo la facoltà di provocare – a carico del destinatario dell’accusa – i gravi effetti stigmatizzanti ricollegati alla mera assunzione della qualità di imputato: anche se il fatto stesso che l’accusa provenga da un soggetto privato anziché da un magistrato dovrebbe in qualche misura limitare tali effetti. Un’altra obiezione molto seria è che attribuendo ai privati il potere di agire penalmente si rischia di pregiudicare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, favorendo le persone offese più abbienti e in possesso di maggiori risorse per coltivare la propria pretesa. In breve, la preoccupazione, da un lato, è quella di trasferire anche sul piano della contesa giudiziaria le disparità economiche, sociali, culturali esistenti tra i consociati; dall’altro, quella di esporre la giustizia penale ai sentimenti e agli interessi personali, favorendo atteggiamenti gratuitamente perscutori o vendicativi.
Quanto ai rapporti tra l’azione penale privata e il principio di obbligatorietà, è noto l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui l’azione penale privata sarebbe compatibile con l’art. 112 Cost. purché il legislatore ne configuri la titolarità non come titolarità esclusiva, ma come titolarità concorrente con quella del pubblico ministero. Tale orientamento è parso ad alcuni dei commissari perfino troppo restrittivo: in fondo, è stato osservato, l’art. 112 Cost. intende dire – e si limita a dire – che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi previsti dal legislatore ordinario; quest’ultimo, dunque, sarebbe libero di attribuire anche in via esclusiva poteri di iniziativa processuale a soggetti diversi dal pubblico ministero. Ad altri, invece, l’orientamento della Corte costituzionale è parso eccessivamente permissivo, dal momento che – si è detto – ammettere che il privato possa esercitare l’azione penale in via concorrente o sussidiaria rispetto al pubblico ministero significa riconoscere che quest’ultimo si è già collocato fuori dell’area della legalità, ossia postulare come fisiologica, in qualche misura, la violazione della legge. Va detto però che questa opinione è rimasta isolata: al contrario, è emersa molto forte la convinzione che l’azione penale privata possa rivelarsi uno strumento prezioso proprio per rimediare alle inerzie del pubblico ministero nell’esercizio dei suoi poteri di azione e per dare piena attuazione a quel “diritto alla giurisdizione” che spetta a ogni cittadino a norma dell’art. 24 Cost.
S’intende che nel parlare di “inerzia” del pubblico ministero non si allude necessariamente a un’inerzia colpevole. Non si pensa, cioè, soltanto all’ipotesi alla quale alludeva Francesco Carrara in un celebre passaggio del suo Programma dedicato all’azione penale privata: «sia libero il pubblico accusatore di negare l’opera e l’aiuto suo a sostegno di una querela che nella sua opinione egli non crede giusta. Ciò sta benissimo […]. Ma sia libero anche il privato di fare a meno di quello appoggio [e] di esercitare la sua azione coi propri mezzi e a suo esclusivo pericolo, [perché] i giudizi o i pregiudizi (ossia le divinazioni) dei pubblici ministeri [non] hanno il dono dell’infallibilità». L’inazione del pubblico ministero che potrebbe trovare un efficace rimedio nell’intervento sostitutivo dei privati è – oggi – quella che si manifesta in relazione alle notizie di reato che gli uffici di procura non possono coltivare per mancanza di risorse umane e materiali. Il tema dell’azione penale privata si è quindi strettamente intrecciato, nel dibattito interno alla Commissione, con il tema dei criteri di priorità nell’esercizio della potestas agendi. Ne è emersa la convinzione che l’azione privata potrebbe servire proprio a colmare i vuoti di risposta giurisdizionale che attualmente si registrano in relazione ai reati non “prioritari” nell’agenda del procuratore della repubblica. Una soluzione, dunque, che, a un tempo, offrirebbe maggiori garanzie all’offeso e servirebbe a rendere più efficace e rapido il sistema penale, avvicinando i cittadini alla giustizia e conferendo maggiore credibilità al sistema.
Per rimanere coerente con queste premesse, la Commissione ha dovuto però farsi carico di un duplice ordine di problemi: 1) il rischio di un sovraccarico di lavoro per le autorità giudicanti (cioè il rischio che il sistema non riuscisse ad assorbire l’inevitabile incremento delle richieste di attivazione della giurisdizione penale); 2) l’esigenza di ridurre ai minimi termini il livello di coinvolgimento del pubblico ministero nel processo avviato su iniziativa altrui.
Quest’ultimo profilo si è rivelato particolarmente delicato e problematico. L’esperienza storica e comparatistica – la citazione diretta del codice 1865; la citazione diretta per i reati di ingiuria e diffamazione del codice 1913; la citation directe del codice di procedura penale francese vigente – offre all’attenzione dello studioso del processo penale un modello standard di giudizio a iniziativa privata in cui la persona offesa si limita a promuovere, senza realmente esercitarla, l’azione penale: ossia provoca l’instaurazione del giudizio, ma, come è stato scritto, «una volta raggiunto lo scopo, vale a dire la fissazione dell’udienza […], viene esautorata della funzione di accusatrice, a quel punto assegnata soltanto al magistrato». Non a caso, in questi modelli – con la sola eccezione del sistema del 1913 – la parte privata è poi obbligata a costituirsi parte civile nel processo (anche se in Francia si ammette che il danneggiato possa costituirsi parte civile senza chiedere un risarcimento). Sono sistemi che hanno sempre sofferto in qualche modo di questo loro carattere ibrido, perché in fondo non corrispondono alla più autentica filosofia dell’istituto, che è quella evocata dall’immagine carrariana di un offeso che «esercita la sua azione coi propri mezzi e a suo esclusivo pericolo» e del pubblico ministero che – per citare ancora Carrara – «si tiene in disparte e rimane spettatore inerte della lotta che va a impegnarsi fra l’offeso e l’asserito offensore». Non è un caso, probabilmente, che l’istituto della citazione diretta abbia trovato scarsissima applicazione nella prassi giudiziaria dei codici 1865 e 1913. Sistemi di questo genere, inoltre, non risolverebbero se non in parte il problema attuale del sovraccarico di lavoro degli uffici di procura, perché comunque costringerebbero in qualche misura il pubblico ministero a occuparsi anche delle notizie non prioritarie.
L’opinione della Commissione è che debbano pertanto ipotizzarsi modelli di giurisdizione penale nei quali il processo non solo nasca, ma viva e muoia (rectius: non solo possa nascere, ma possa vivere e morire) senza pubblico ministero. Tenuto conto sia delle residue perplessità che l’istituto suscita sul piano dell’opportunità politica, sia dei rischi di eccessivo sovraccarico per gli organi giudicanti che esso provoca, si è ritenuto, tuttavia, che un simile ambizioso modello di giustizia penale a iniziativa privata potesse ancora trovare spazio unicamente nei confini del procedimento di pace. Si è pertanto deciso di limitare l’intervento riformatore a una riscrittura dell’istituto del ricorso immediato della persona offesa attualmente disciplinato dagli artt. 21 ss. del d.lgs. 274/2000. Tale ricorso è stato qualificato senza mezzi termini come forma di esercizio privato dell’azione penale: inoltre, e soprattutto, il meccanismo di instaurazione del rito su iniziativa dell’offeso è stato configurato in modo tale da consentire la celebrazione del processo anche in difetto di ogni iniziativa della parte pubblica, secondo principi e regole per la cui dettagliata descrizione si rinvia al commento alla direttiva 86 della delega.
Del tutto imprescindibile, allo scopo di restituire effettività al canone costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, è stata infine ritenuta l’introduzione nel nostro sistema processuale di forme di archiviazione legate alla scarsa offensività della condotta criminosa. Al riguardo, per l’illustrazione delle soluzioni adottate, si rinvia al commento alla direttiva 63 della delega.
La direttiva 54 («1. disciplina del potere-dovere del pubblico ministero di svolgere investigazioni dirette all’acquisizione della notizia di reato») conferisce al pubblico ministero il potere-dovere di svolgere investigazioni dirette alla formazione della notizia di reato. Benché non se ne faccia esplicita menzione, presupposto indispensabile per l’esercizio di tale potere-dovere è l’esistenza di un’informativa di reato non qualificabile come notitia criminis per genericità o incompletezza di rappresentazione. L’attività di ricerca della notizia di reato dovrà pertanto svilupparsi, per usare l’efficace espressione di uno studioso, all’interno di «coordinate già date di sospetta reità» (pur non sfuggendo alla Commissione che il discrimine tra un’attività di ricerca della notitia criminis avviata in totale mancanza di un sospetto di reità e un’attività del medesimo tipo avviata in presenza di un sospetto che il pubblico ministero abbia tratto da una fonte informale, potrà, in concreto, risultare assai labile).
La Commissione ha ritenuto che attribuire al pubblico ministero il potere-dovere di cui trattasi fosse indispensabile per garantire un esercizio dell’azione penale esteso anche ad ambiti oggettivi e soggettivi in relazione ai quali potrebbe mancare o essere debole l’iniziativa autonoma degli organi di polizia, pur sempre soggetti all’influenza delle relative strutture politico-amministrative di appartenenza. In questo senso, la direttiva va dunque intesa come strettamente funzionale alla tutela del principio di obbligatorietà. Si è inoltre ritenuto che il coinvolgimento del pubblico ministero nelle attività di formazione della notitia criminis fosse una scelta maggiormente coerente con la logica sottesa a taluni istituti previsti dalla legislazione processuale speciale – come il colloquio investigativo, le operazioni sotto copertura e le intercettazioni preventive – che testimoniano il già avvenuto superamento della tradizionale concezione dell’organo inquirente come passivo recettore delle notizie di reato.
Il riferimento a una puntuale disciplina del potere-dovere del pubblico ministero di “costruire” la notizia di reato riflette, tuttavia, l’esigenza di sottoporre tale potere-dovere a una stringente regolamentazione normativa. Tale esigenza nasce, per un verso, dalla constatazione che l’assenza di vincoli normativi ha favorito, talora, il ricorso a discutibili modalità di esercizio del potere di cui all’art. 330 c.p.p., prevalentemente incentrate su un uso improprio del cosiddetto “registro delle non notizie di reato”; per altro verso, dalla consapevolezza che affidare alla piena discrezionalità dell’organo inquirente l’an e il quomodo dello svolgimento delle investigazioni di cui trattasi finirebbe per trasformare tali investigazioni – concepite come strumento di salvaguardia del principio di obbligatorietà – in un rimedio peggiore del male, dando definitivamente ragione a chi, in dottrina, dopo avere denunciato la «ineludibile valenza politica» delle indagini che hanno «come atto conclusivo la notizia di reato», ne invoca, coerentemente, la sottoposizione a controlli di carattere politico.
Sul primo versante (estensione oggettiva del potere-dovere investigativo del pubblico ministero), il legislatore delegato dovrà, pertanto, non soltanto tendenzialmente provvedere al contenimento delle investigazioni “per” la notizia di reato entro limiti cronologici e contenutistici predeterminati, ma anche dettare una specifica disciplina della registrazione delle informative generiche di reato che abbiano dato origine a tali investigazioni (distinguendo, peraltro, l’ipotesi in cui l’informativa non costituente notizia di reato per genericità o incompletezza di rappresentazione sia stata ricevuta dal pubblico ministero in forma qualificata, dall’ipotesi in cui lo spunto investigativo sia stato acquisito informalmente o sia emerso, come spesso accade, nel corso di un’indagine concernente una notitia criminis già iscritta nell’apposito registro). Quanto al rischio che le investigazioni asseritamente dirette alla formazione della notizia di reato possano in realtà nascondere indagini su notizie di reato già acquisite – quanto alla possibilità, cioè, che gli spazi di legittima “costruzione” della notitia criminis concessi al pubblico ministero vengano illegittimamente dilatati al fine di aggirare la disciplina dei termini investigativi –, si tratta di patologie alle quali pone rimedio la direttiva 60 (vedi) nella parte in cui attribuisce al giudice il potere di retrodatare il termine iniziale dell’indagine in sede di valutazione dell’utilizzabilità degli atti investigativi compiuti solo apparentemente nei termini di legge.
Quanto, invece, al possibile attrito con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, l’opinione di una parte della Commissione era che fosse necessario imporre tout court al legislatore delegato la previsione di un controllo giurisdizionale sull’attività e sulle determinazioni del pubblico ministero. Tale controllo avrebbe potuto strutturarsi sulla falsariga di quello già previsto dal codice di procedura penale per le investigazioni contro ignoti (anch’esse, in fondo, dirette a “costruire”, rendendola nominativa, la notizia di reato): rivelatesi infruttuose le investigazioni dirette alla formazione della notitia criminis, il pubblico ministero avrebbe dovuto chiedere al giudice per le indagini preliminari l’assenso alla mancata iscrizione dell’informativa generica di reato nel registro delle notitiae criminis; il giudice, investito della richiesta, avrebbe potuto dare il suo assenso oppure negarlo, ordinando all’inquirente l’iscrizione immediata della notizia già acquisita oppure disponendo la prosecuzione delle investigazioni dirette ad acquisirla. All’accoglimento di una simile proposta – così come di altre suggerite nel corso della discussione, imperniate, ad esempio, su un coinvolgimento attivo del denunciante nella procedura di controllo sul rispetto degli obblighi investigativi del pubblico ministero – si è tuttavia obiettato che la stessa avrebbe condotto a un insostenibile dispendio di risorse processuali, traducendosi nell’istituzione di controlli solo formalmente ossequiosi del principio di obbligatorietà. Si è inoltre fatto rilevare come il coinvolgimento del giudice in una fase addirittura precedente all’acquisizione della notizia di reato avrebbe determinato un’intollerabile espropriazione delle prerogative istituzionali del pubblico ministero in favore dell’organo giudicante, trascinando il secondo in aree che dovrebbero rimanere riservate alla responsabilità del primo.
Preso atto di questa divergenza di opinioni, si è ritenuto preferibile non vincolare in alcun modo il legislatore delegato circa l’an e il quomodo (forme, contenuti, estensione, natura) del controllo sugli obblighi investigativi gravanti sul pubblico ministero in presenza delle informative di reato generiche o incomplete: obblighi la cui sussistenza è stata peraltro ribadita attraverso la configurazione della situazione soggettiva gravante sull’organo dell’accusa come “potere-dovere” anziché come mera “facoltà”.
La direttiva 55 («definizione della notizia di reato come rappresentazione non manifestamente inverosimile di uno specifico accadimento storico, attribuito o meno a soggetti determinati, dalla quale emerga la possibile violazione di una disposizione incriminatrice contenuta nel codice penale o in leggi speciali») riflette l’esigenza, largamente condivisa nell’ambito della Commissione, di fornire una definizione normativa della notizia di reato. Scopo della direttiva è quello di delimitare e dare concretezza all’obbligo di iscrivere la notitia criminis nell’apposito registro, chiarendo definitivamente che cosa deve essere iscritto in tale registro e superando le ben note incertezze manifestatesi nell’utilizzo del c.d. “modello 45” da parte degli uffici di procura. Elementi strutturali della nozione accolta sono l’esistenza di una rappresentazione del fatto, la sua non manifesta inverosimiglianza (intendendosi per rappresentazione manifestamente inverosimile quella contraria a elementari leggi logiche o scientifiche oppure inconciliabile con fatti notori), il carattere specifico del fatto rappresentato, l’impossibilità di effettuare una diagnosi sicura e immediata di irrilevanza penale del medesimo.
Nel corso dei lavori della Commissione era stata avanzata la proposta di precisare ulteriormente il concetto con l’aggiunta di una speculare definizione normativa delle non-notizie di reato («informative di reato concernenti fatti palesemente non previsti dalla legge come reato, o la cui rappresentazione appaia manifestamente inverosimile per contrarietà a elementari leggi logiche o scientifiche o per inconciliabilità con fatti notori; informative di reato non costituenti notitia criminis per genericità o incompletezza di rappresentazione»). La proposta, tuttavia, è stata bocciata in quanto ritenuta meramente ripetitiva di concetti già desumibili a contrario dalla definizione accolta di notizia di reato.
Ugualmente minoritario è risultato l’orientamento tendente a inserire nella legge delega la previsione di forme di controllo – giurisdizionale o interno all’ufficio – sulla scelta del pubblico ministero di destinare l’informativa al registro delle “non-notizie di reato” anziché al registro delle notizie di reato. L’intento era quello di scongiurare, per il futuro, ogni condotta elusiva della regola dell’obbligatorietà imperniata sull’uso improprio del “modello 45”: anche in questo caso (vedi sub direttiva 54) si è tuttavia ritenuto che introdurre simili forme di controllo non corrispondesse né a criteri di oculata gestione delle limitate risorse materiali e umane delle quali dispongono gli uffici giudiziari, né – con specifico riferimento all’ipotesi di introdurre controlli di tipo giurisdizionale – a criteri di corretto riparto delle funzioni requirenti e giudicanti.
Nella direttiva 56 («1. obbligo del pubblico ministero di iscrizione della notizia del reato in apposito registro custodito negli uffici della procura della Repubblica, con indicazione della data della sua acquisizione e, appena possibile, del nominativo della persona alla quale il reato è attribuito; 2. obbligo del pubblico ministero di aggiornamento delle iscrizioni alle risultanze delle indagini in corso e all’eventuale mutamento del titolo del reato») viene disciplinato l’obbligo del pubblico ministero di iscrivere la notizia di reato in apposito registro custodito presso gli uffici di procura.
Rispetto al vigente assetto normativo, la novità è rappresentata dal fatto che il pubblico ministero deve indicare, all’atto dell’iscrizione, la data di acquisizione effettiva della notitia criminis. L’innovazione si spiega con l’intento, esplicitato nella prima parte della direttiva 60, di fare decorrere il termine a quo delle indagini preliminari dalla data di acquisizione effettiva della notizia di reato anziché, come oggi avviene, dalla data della sua iscrizione nel registro delle notitiae criminis («1. previsione di un termine per le indagini preliminari […] decorrente dall’acquisizione della notizia di reato»).
A tale esigenza – tanto più avvertita dalla Commissione dopo avere riconosciuto la legittimità delle investigazioni del pubblico ministero dirette all’acquisizione della notizia di reato (vedi sub direttiva 54) – si accompagna quella di consentire al giudice, su istanza dell’interessato, la “retrodatazione” del termine investigativo iniziale (si veda ancora la direttiva 60: «5. potere-dovere del giudice, su istanza dell’interessato, subito dopo il compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della costituzione delle parti nell’udienza di conclusione delle indagini preliminari o, se questa manchi, in giudizio, di accertare la data di effettiva acquisizione della notizia di reato agli atti del procedimento, ai fini della valutazione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari»). Al riguardo, si è ritenuto, per un verso, che l’erronea indicazione della data di acquisizione della notizia di reato da parte del pubblico ministero (nel senso, ovviamente, dell’indicazione di una data successiva a quella di effettiva acquisizione) dovesse comportare soltanto l’inutilizzabilità degli atti investigativi compiuti dopo la scadenza del “vero” termine investigativo e non anche l’inutilizzabilità degli atti investigativi compiuti tra la data di acquisizione effettiva della notizia e la data di acquisizione indicata nel registro. Per altro verso, si è ritenuto opportuno non solo confinare il potere di retrodatazione del giudice alla sola verifica della utilizzabilità degli atti investigativi compiuti fuori termine, ma anche dislocare tale verifica, da effettuarsi su istanza dell’interessato, in uno specifico momento processuale («subito dopo il compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della costituzione delle parti nell’udienza di conclusione delle indagini preliminari o, se questa manchi, in giudizio»). Conviene inoltre ribadire che il giudice non dovrà essere chiamato a sindacare la correttezza della data di iscrizione della notizia di reato ma la correttezza della data di acquisizione, indicata all’atto dell’iscrizione. L’inciso «agli atti del procedimento» punta, infine, a evitare che il vaglio giurisdizionale possa estendersi ad atti inseriti ab origine in fascicoli relativi ad altri, ed ancora riservati, procedimenti.
Le direttive 63-65 contengono i criteri ai quali dovrà ispirarsi il legislatore delegato nel disciplinare l’istituto dell’archiviazione della notizia di reato.
Quanto ai presupposti dell’archiviazione, indicati nella prima parte della direttiva 63 («1. potere-dovere del giudice di disporre, su richiesta del pubblico ministero, l’archiviazione per essere ignoti gli autori del reato o per insostenibilità dell’accusa in giudizio, anche per la particolare tenuità del fatto»), si è ritenuto opportuno, in primo luogo, promuovere la “insostenibilità dell’accusa in giudizio” a criterio di carattere generale per la legittima desistenza dall’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Ciò nella convinzione che tale presupposto – comune al provvedimento liberatorio terminativo dell’udienza di conclusione delle indagini – debba essere inteso come comprensivo non soltanto delle fattispecie di “infondatezza” in senso stretto della notizia di reato, ma anche delle ipotesi attualmente disciplinate dall’art. 411 c.p.p. (improcedibilità, estinzione del reato, non previsione del fatto come reato), nonché, in genere, di tutte le ipotesi di prevedibile esito abortivo dell’imputazione, quale che sia la formula di proscioglimento che si presume verrebbe adottata in sede processuale. Scompare per questo motivo il richiamo, contenuto nella direttiva 50 della legge delega del 1987, alla improcedibilità dell’azione penale quale causa “speciale” di archiviazione. In questo modo dovrebbero essere superate le incertezze interpretative derivanti dall’attuale disposto dell’art. 411 c.p.p. (da non riprodurre in sede di attuazione della delega), il quale, dichiarando archiviabili per una ragione diversa dalla loro infondatezza le notizie di reato concernenti fatti estinti o non previsti dalla legge come reato o perseguibili solo in presenza di una condizione di procedibilità in concreto insussistente, sembrerebbe escludere dal perimetro operativo degli artt. 408-414 c.p.p. le notizie di reato non definibili stricto sensu infondate ma neppure ricomprese in quel catalogo (ad esempio, le notizie di fatti non costituenti reato o non punibili). Per queste stesse ragioni – vale a dire, per la sua sostanziale superfluità – la Commissione ha ritenuto di non inserire nella direttiva un richiamo alla possibilità di decretare l’archiviazione “per intervenuta oblazione”, come pure era stato proposto.
Chiarito che si è ritenuto, per contro, di assegnare ancora autonomo rilievo, in ragione delle sue peculiarità, all’archiviazione delle notizie di reato concernenti soggetti ignoti, un discorso più articolato merita il riferimento alla possibilità di decretare l’archiviazione “anche per la particolare tenuità del fatto”.
Al riguardo, la Commissione – unanimemente favorevole a estendere al processo ordinario l’istituto della tenue offensività, sinora confinato, a titolo sperimentale, nel sottosistema minorile e in quello di pace – ha dovuto affrontare in via pregiudiziale due delicate questioni. In primo luogo, si doveva decidere se configurare la tenuità del fatto come causa di esclusione della punibilità (secondo il modello già normativamente sperimentato in ambito minorile) oppure come causa di esclusione della procedibilità (secondo il modello già normativamente sperimentato nell’ambito del procedimento di pace). In secondo luogo, si trattava di stabilire se consentire la declaratoria di tenuità del fatto anche in sede di archiviazione della notizia di reato o soltanto in ambito processuale (id est, con sentenza): in altre parole, se configurare o meno la modesta offensività della condotta come una causa di legittima desistenza dall’esercizio dell’azione penale. Si tratta, è bene precisarlo, di due variabili indipendenti: in quanto causa di improcedibilità, è scontato che la modesta offensività della condotta criminosa avrebbe potuto e dovuto essere annoverata tra i presupposti di legittima rinuncia alla potestas agendi; ma la scelta di configurare la particolare tenuità del fatto come causa di non punibilità non impedisce di prevedere che la tenuità venga ugualmente dichiarata con archiviazione.
Quanto al primo dilemma, si è ritenuto che il compito di fornire il più corretto inquadramento sistematico all’istituto non potesse che essere affidato ai lavori di riforma del codice penale. L’opinione della Commissione è che sarebbe peraltro inopportuno configurare la tenuità del fatto come causa di improcedibilità, sia per il rilievo che una simile qualificazione risulta più coerente con la previsione di cause di mancato esercizio o di mancato proseguimento dell’azione penale legate alla valutazione di interessi esterni al fatto e al suo autore, sia perché la disciplina processuale dell’improcedibilità (e in particolare, la precedenza logica che va riconosciuta all’improcedibilità rispetto alle altre cause di proscioglimento) stenta a conciliarsi con i contenuti della declaratoria di tenuità, che non può prescindere dall’analisi del merito della causa e che dovrebbe intervenire, almeno in sede dibattimentale, soltanto dopo l’accertamento degli altri elementi costitutivi del reato.
Quanto all’alternativa archiviazione/sentenza (rectius, archiviazione e sentenza o solo sentenza), la prima soluzione presa in esame è stata quella di prevedere, in accordo con un diffuso orientamento dottrinale, che la tenuità del fatto potesse venire dichiarata soltanto dopo l’esercizio dell’azione penale, con sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento. A sostegno di tale soluzione si è fatto rilevare, nel corso della discussione, come la declaratoria di tenuità non possa prescindere dall’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto tenue: e ciò sia sul piano logico, non potendo essere valutata, in concreto, la tenuità di un fatto di reato se non dopo averne ricostruito i connotati oggettivi e soggettivi di illiceità, sia sul piano giuridico, dal momento che una decisione di tenuità adottata “in ipotesi di responsabilità” graverebbe pesantemente e in maniera del tutto ingiustificata sulla reputazione e sull’onorabilità del suo destinatario (il quale, come è ovvio, potrebbe non avere mai commesso il fatto asseritamente tenue, o averlo commesso in presenza di cause scriminanti). La decisione della quale si discute andrebbe pertanto necessariamente adottata in un contesto “garantito”, nel cui ambito l’imputato possa rivendicare e far valere il suo diritto a essere prosciolto per tenuità del fatto da un giudice che abbia previamente accertato la sua responsabilità. Accolte simili premesse, si sarebbe dovuta coerentemente escludere la possibilità di dichiarare la non punibilità (o l’improcedibilità) per tenuità del fatto in sede di archiviazione della notizia di reato; accertata nel corso della fase investigativa la modesta offensività dell’episodio criminoso, il pubblico ministero non avrebbe potuto interrompere le indagini e chiedere una declaratoria di tenuità “in ipotesi di responsabilità”.
A questo modello di regolamentazione dell’istituto – destinato a introdurre forme di esercizio sostanzialmente astratto dell’azione penale (in quanto il pubblico ministero, in possesso di elementi investigativi tali da rendere probabile un proscioglimento dibattimentale per tenuità del fatto, avrebbe dovuto comunque esercitare l’azione) e a rendere necessaria, di conseguenza, una rimodulazione dello stesso concetto di “superfluità” del processo adottato dalla Corte costituzionale a parametro fondamentale delle scelte dell’organo inquirente in materia di azione penale – si è opposto, in primo luogo, che esso non avrebbe comportato alcun significativo guadagno in termini di economia processuale e quindi di durata ragionevole dei processi. E’ stato osservato, infatti, che l’ampliamento dello spettro decisionale conseguente all’introduzione della nuova formula di proscioglimento comporterà un inevitabile appesantimento delle cadenze processuali, dovuto anche al notevole incremento degli obblighi motivazionali negativi gravanti sul giudice: appesantimento al quale, nella prospettiva in esame, non avrebbe fatto riscontro alcun risparmio di tempo e di risorse processuali in fase investigativa, dovendo l’indagine sul fatto tenue svolgersi comunque in maniera completa e dovendo l’azione penale venire necessariamente esercitata. Il rischio paventato da taluni commissari è che, a simili condizioni, il vaglio di tenuità del fatto finisse per retrocedere a sedi procedimentali non soltanto non garantite, ma addirittura sottratte al controllo giurisdizionale: il riferimento è alla possibile disinvolta “cestinazione” delle notizie di reato concernenti i fatti di scarsa portata lesiva, ma anche alla selezione delle notitiae criminis effettuata sulla base dei “criteri di priorità” individuati dal capo dell’ufficio, tra i quali tradizionalmente figura – e non potrà non figurare anche nel momento in cui la materia dovesse trovare finalmente una compiuta regolamentazione normativa – la dimensione concretamente offensiva dell’illecito. Il pericolo, in altre parole, era che al cospetto di un illecito rivelatosi “tenue” fin dalla prima delibazione della notitia criminis, il pubblico ministero, anziché indagare in maniera completa ed esercitare l’azione penale solo per assicurare all’imputato una sentenza di proscioglimento, avrebbe potuto preferire il commodus discessus dell’abbandono della notizia di reato sullo scaffale degli affari “non prioritari” (se non quello, ancora più insidioso, del ricorso al “modello 45”): con buona pace, è appena il caso di osservarlo, non solo delle aspettative di giustizia del denunciato e dell’offeso, ma anche del rispetto del principio di obbligatorietà.
Quanto alle obiezioni in ordine alla ritenuta impossibilità (logica e giuridica) di decidere nel senso della tenuità senza avere previamente accertato la responsabilità dell’indagato, si è ritenuto, in primo luogo, che la valutazione di possibile superfluità del dibattimento legata alla modesta offensività della condotta criminosa possa essere effettuata in molti casi dal pubblico ministero anche assumendo come mera ipotesi la responsabilità dell’indagato. E’ quanto accade, del resto, in ambito minorile secondo la stessa Corte costituzionale: «è evidente – si legge in Corte cost. 22 ottobre 1997, n. 311 – che il giudice per le indagini preliminari è chiamato a pronunciarsi sulla richiesta del pubblico ministero in astratto e assumendo l’ipotesi accusatoria, per l’appunto, come mera ipotesi, e non dopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l’imputato ne porta la responsabilità». Quanto all’obiezione legata all’ingiustificato “stigma di colpevolezza” che un’eventuale archiviazione per tenuità imprimerebbe sull’indagato totalmente estraneo ai fatti addebitatigli, si è ritenuto che la giusta esigenza di salvaguardare la reputazione dell’indagato non possa ricevere tutela dal procedimento penale se non all’interno dei confini segnati dalla sua funzione, che è quella di accertare le responsabilità penali e di infliggere le pene. Nei confronti dell’”archiviato per tenuità” residuerebbe, a ben vedere, il dubbio che egli abbia tenuto un comportamento (magari riprovevole ma) che l’ordinamento non ritiene meritevole di pena. Ciò si verifica, tuttavia, anche quando un cittadino venga denunciato per un fatto infamante del quale non è assolutamente responsabile ma che, pacificamente, non è previsto dalla legge come reato. In simili circostanze, sarebbe palesemente ultroneo pretendere che il pubblico ministero svolga indagini ed eserciti l’azione penale al solo fine di salvaguardare il diritto del denunciato al proscioglimento con formula pienamente liberatoria.
Alla soluzione favorevole ad ammettere la declaratoria di tenuità del fatto “in ipotesi di responsabilità” è stata infine opposta un’ultima obiezione. Tra i presupposti della tenuità rilevanti nell’ambito del processo minorile e del processo di pace figura, come è noto, l’occasionalità della condotta criminosa: ed è ragionevole prevedere che tale presupposto sarà mantenuto anche nella versione “ordinaria” dell’istituto che è attualmente allo studio della Commissione di riforma del codice penale. Non contenendo neppure per implicito l’affermazione che il fatto si è verificato ed è stato commesso dalla persona sottoposta a indagine, il provvedimento di archiviazione per tenuità del fatto, si è osservato, non potrebbe essere addotto a dimostrazione del carattere non occasionale di una seconda condotta criminosa di scarsa offensività addebitata al medesimo soggetto. Consentire la declaratoria di tenuità “in ipotesi di responsabilità” vorrebbe dire, pertanto, vanificare lo stesso presupposto dell’occasionalità e rassegnarsi alla serialità bagatellare. Anche questa obiezione, tuttavia, non è stata ritenuta insuperabile dalla Commissione. Il requisito dell’occasionalità può essere infatti smentito anche da un comportamento successivo a quello ritenuto occasionale: nell’ipotesi considerata, dunque, la totale assenza di preclusività del provvedimento di archiviazione renderebbe possibile non soltanto indagare sul secondo episodio criminoso ma anche riaprire le indagini nei confronti del primo, che non apparirebbe più occasionale alla luce della probabile reiterazione; il carattere occasionale o meno delle due condotte verrebbe così valutato unitariamente. In questi termini, la declaratoria di tenuità del fatto mediante archiviazione potrebbe funzionare come una sorta di sospensione condizionale dell’azione penale, con benefici effetti di prevenzione speciale nei confronti del soggetto che ne fosse destinatario.
Per tutte queste ragioni si è ritenuto preferibile ricondurre la declaratoria di particolare tenuità del fatto nell’alveo dell’ordinaria procedura di archiviazione. La soluzione prefigurata – tipizzazione normativa delle ipotesi di legittima desistenza dall’azione penale per la modesta offensività della condotta; previsione di un controllo giurisdizionale sulla legittimità della scelta abdicativa strutturato nelle forme “tradizionali” della procedura di archiviazione (con relativo coinvolgimento della persona offesa dal reato); possibilità per il pubblico ministero di richiedere e ottenere l’archiviazione non appena, nel corso delle indagini, il fatto si appalesi tenue – è sembrata quella concretamente più idonea a coniugare il principio di mitezza della risposta sanzionatoria all’illecito penale con l’esigenza di razionalizzare le dinamiche di gestione del potere di azione, oggi obiettivamente alterate da uno squilibrio tra risorse operative e compiti istituzionali che chiama il pubblico ministero a compiere scelte ispirate a criteri largamente autoreferenziali.
Conviene peraltro precisare – per non alimentare equivoci analoghi a quelli che la Commissione ha inteso scongiurare eliminando dal testo della direttiva il riferimento alle cause di improcedibilità – che la tenuità del fatto non assume, nell’economia della direttiva, i connotati di una causa di archiviazione ulteriore rispetto a quella derivante dalla ritenuta impossibilità di sostenere l’accusa. Occorre cioè ribadire che tale presupposto (la “non sostenibilità dell’accusa in giudizio”) abbraccia tutte le ipotesi di prevedibile esito proscioglitivo del dibattimento, ivi comprese le cause di improcedibilità e le cause di non punibilità e dunque, in prospettiva futura, anche la tenuità del fatto. Da questo punto di vista, l’inciso “anche per la particolare tenuità del fatto” può dunque suonare – ed effettivamente è – superfluo: la sua funzione è unicamente quella di ribadire, per un verso, l’impellente necessità di introdurre una causa generale di improcedibilità o di non punibilità legata alla scarsa offensività della condotta criminosa (per le stesse ragioni l’inciso figura, ad esempio, nella direttiva 27.2 dedicata alle formule dibattimentali di proscioglimento); per altro verso, quella di chiarire che non esistono ragioni perché la tenuità del fatto non possa essere dichiarata con provvedimento di archiviazione al pari di tutte le altre cause di improcedibilità o non punibilità.
Tornando ai contenuti della direttiva 63, la Commissione, quanto alla procedura di controllo sul rispetto dell’obbligo di agire costituzionalmente imposto al pubblico ministero («2. potere-dovere del giudice di ordinare al pubblico ministero l’iscrizione delle notizie di reato risultanti dagli atti d’indagine diverse o ulteriori rispetto a quelle oggetto della richiesta del pubblico ministero; 3. potere-dovere del giudice, nel caso in cui non accolga la richiesta di archiviazione, di richiedere al pubblico ministero lo svolgimento di ulteriori indagini o la formulazione dell’imputazione; 4. adozione del provvedimento di archiviazione con decreto motivato; 5. determinazione dei casi nei quali la decisione del giudice è adottata con ordinanza, sentiti il pubblico ministero e le persone interessate se compaiono; 6. determinazione dei casi in cui il provvedimento di archiviazione può essere sottoposto a impugnazione dalla persona sottoposta a indagine e dall’offeso dal reato»), ha in primo luogo ritenuto – non senza qualche incertezza – che dovesse venire ribadita la scelta, ormai radicata nel nostro ordinamento processuale, di affidare la funzione di controllo all’organo giurisdizionale. Quanto alle forme di esercizio di tale funzione, si è riproposto lo schema risultante dall’attuale disciplina codicistica, imperniato sul potere-dovere del giudice di ordinare al pubblico ministero, in caso di mancato accoglimento della richiesta di archiviazione, lo svolgimento di ulteriori indagini o l’immediata formulazione del¬l’imputa¬zione. Si è tuttavia precisato che il giudice, investito della richiesta di archiviazione di una o più notizie di reato, potrà anche ordinare al pubblico ministero l’iscrizione nell’apposito registro di notitiae criminis diverse e ulteriori rispetto a quelle che costituiscono oggetto delle richieste dell’organo inquirente, purché risultanti dagli atti investigativi. Si è voluto, in questo modo, recepire l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che hanno sottolineato, per un verso, in conformità all’opinione già espressa sul punto dalla Corte costituzionale, come non si possa limitare il sindacato del giudice dell’archiviazione «all’interno dei soli confini tracciati dalla notitia criminis delibata dal pubblico ministero», se non giungendo al paradosso di «delegare […] all’arbitrio dell’organo assoggettato al controllo il potere di ritagliare la quantità e la qualità dell’intervento dell’organo che quel controllo è istituzionalmente chiamato ad esercitare»; ma hanno chiarito, per altro verso, come l’assenza di un effetto rigorosamente devolutivo della richiesta di archiviazione non possa tradursi nel potere del giudice di ordinare direttamente la formulazione dell’imputazione nei confronti di soggetti non ancora iscritti nell’apposito registro, in quanto ciò comporterebbe «il totale scavalcamento dei poteri di iniziativa del pubblico ministero» (nonché, si potrebbe aggiungere, una palese violazione dei diritti difensivi dei destinatari dell’imputazione coatta). Di qui la soluzione adottata, che limita i poteri del giudice alla sola emanazione dell’ordine di iscrizione e – implicitamente – all’indicazione delle ulteriori indagini da svolgere: soluzione da ritenersi applicabile, com’è naturale, anche alla particolare ipotesi della richiesta di archiviazione per essere ignoti gli autori del reato.
Restano le direttive concernenti da un lato i diritti partecipativi del pubblico ministero, dell’indagato e della persona offesa alla procedura di archiviazione, dall’altro l’impugnabilità e la preclusività dei provvedimenti del giudice. Il riferimento si indirizza, dunque, non soltanto ai punti 4, 5 e 6 della direttiva 63, ma anche alla direttiva 64 («1. facoltà della persona offesa dal reato di chiedere di essere avvisata della proposizione della richiesta di archiviazione e conseguente obbligo del pubblico ministero di comunicazione della richiesta; 2. facoltà della persona offesa dal reato di presentare al giudice opposizione motivata alla richiesta di archiviazione») e alla direttiva 67 («riapertura, in casi determinati, delle indagini preliminari in relazione ai fatti oggetto di archiviazione, con idonee garanzie per la persona sottoposta alle nuove indagini, e previsione di un termine di durata»).
Al riguardo, il dibattito interno alla Commissione ha più volte evidenziato come il principale limite della vigente disciplina codicistica sia quello di assoggettare le notizie di reato lato sensu infondate alla medesima procedura archiviativa sia nell’ipotesi in cui la loro infondatezza emerga ictu oculi o all’esito di accertamenti estremamente sommari del pubblico ministero (si pensi alla notizia di reato concernente un fatto prescritto da anni; alla pacifica assenza di una condizione di procedibilità; al fatto la cui particolare tenuità risulti palese; alla denuncia concernente un reato destinato a estinguersi in tempi brevissimi se l’autore del fatto tiene un determinato comportamento riparatorio entro un termine previsto dalla legge), sia nell’ipotesi in cui la loro infondatezza emerga all’esito di un’indagine preliminare estremamente lunga e complessa e, magari, particolarmente invasiva. Nel primo caso (riconducibile alla vecchia categoria concettuale della “manifesta infondatezza” della notitia criminis), l’attuale procedura di archiviazione pecca per eccesso, imponendo cadenze rituali e obblighi motivazionali sproporzionati rispetto alle esigenze da soddisfare; nel secondo caso essa pecca per difetto, non offrendo, in particolare, alla persona sottoposta alle indagini una serie di garanzie la cui previsione si impone ormai come necessaria conseguenza della tendenziale completezza – nonché, molto spesso, della grave afflittività – dell’indagine preliminare infruttuosa (diritto alla “formula” archiviativa più favorevole e alla preclusività del provvedimento di archiviazione; diritto di rinunciare ad amnistia e prescrizione; conseguente previsione di forme di coinvolgimento preventivo dell’”archiviando” nella procedura di emanazione del provvedimento del giudice, dalla quale oggi, in alcuni casi, egli è completamente estromesso; impugnabilità del provvedimento per far valere i propri diritti ecc.).
Al riguardo, la Commissione ha ritenuto opportuno non vincolare il legislatore delegato all’adozione di una particolare soluzione normativa. Si è tuttavia voluta rimarcare la necessità di assegnare alla procedura di archiviazione, per quanto possibile, fisionomie parzialmente differenziate in ragione sia dei contenuti della richiesta del pubblico ministero, sia del tipo di indagine preliminare che precede tale richiesta. Il ricorso a procedure archiviative maggiormente garantite andrà, in particolare, ritenuto necessario – almeno di regola – una volta superata la soglia procedimentale coincidente con la comunicazione dell’accusa all’indagato (comunicazione che, secondo quanto stabilisce la direttiva 60.11, andrà comunque effettuata “non oltre un congruo termine dall’acquisizione della notizia di reato”).
Con specifico riferimento, infine, alla direttiva 63.6 («determinazione dei casi in cui il provvedimento di archiviazione può essere sottoposto a impugnazione dalla persona sottoposta a indagine e dall’offeso dal reato»), il riferimento generico alla “impugnazione” del provvedimento archiviativo – anziché alla sua ricorribilità per cassazione – va inteso come un’apertura alla previsione di verifiche di merito del suddetto provvedimento, precluse, in quanto tali, al giudice di legittimità.

19. L'udienza di conclusione delle indagini
una regressione della fase giurisdizionale, segnata dall’inizio dell’azione penale, ad un momento procedimentale in cui gli interventi del giudice hanno un carattere puramente incidentale››. Pure su questo punto la Corte costituzionale ritenne che «la preclusione all’esperimento dell’incidente probatorio nella fase dell’udienza preliminare si rivela priva di ogni ragionevole giustificazione e lesiva del diritto delle parti alla prova e, quindi, dei diritti di azione e di difesa». Di conseguenza dichiarava costituzionalmente illegittimi gli artt. 392 e 393 del codice di procedura penale nella parte in cui non consentono che, nei casi previsti dalla prima di tali disposizioni, l’incidente probatorio possa essere richiesto ed eseguito anche nella fase dell’udienza preliminare. E ciò perché, sotto il profilo sistematico, l’interruzione nell’acquisibilità di prove non rinviabili apparve ed appare contraddittoria con la continuità che il legislatore ha assicurato all’attività di indagine, prevedendo che questa possa proseguire anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419 comma 3) e dopo il decreto che dispone il giudizio (art. 430), ben potendo darsi che per taluno degli elementi in tal modo acquisiti insorgano le situazioni di non differibilità della prova previste dall’art. 392 (cfr. sentenza n. 77 del 23 febbraio 1994). Dunque, seguendo questo impianto costruttivo, la disciplina tracciata negli artt. 413-419 (=artt. 416-425 c.p.p.) si incentra su un regime ordinario che vede l’udienza preliminare modellata come procedimento allo stato degli atti, cui può far seguito, eventualmente, un regime eccezionale imperniato su limitate acquisizioni probatorie caratterizzate da una efficacia interna alla fase e su un regime extra ordinem che consente l’ingresso di testimonianze, consulenze tecniche e interrogatori di coimputati quando, sui temi nuovi o incompleti indicati dal giudice, il pubblico ministero o le parti private ne facciano richiesta e il giudice ritenga decisiva la prova ai fini della sua pronuncia. Ma la crisi dell’udienza preliminare si è mostrata sul terreno delle prassi in più occasioni e per diversi profili. Così, ad esempio, >in tema di imputazione si è discusso se il pubblico ministero potesse adottare lo strumento modificatorio anche quando la “diversità” fosse già presente negli atti; oppure se il giudice avesse poteri sollecitatori rispetto all’accusa. Il vuoto normativo ha sostenuto prassi contrastanti ed ha spinto l’interpretazione sul fronte dell’analogia con l’art. 521 c.p.p. 1988 – forma ermeneutica impraticabile in materia attributiva di poteri, nonostante la Corte costituzionale sin dal 1995 (cfr. sentenza n. 95) avesse riconosciuto quel potere come ulteriore forma di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale – ; > in tema di applicabilità, in udienza, della clausola generale dell’art. 129 c.p.p. In materia, solo nel 1996 (cfr. SS.UU. 15 maggio 1996, Sala) – ma con contrastanti indirizzi successivi – la Cassazione ha riconosciuto al giudice dell’udienza preliminare il potere di applicarla in questa udienza, superando il rapporto di specialità tra gli artt. 129 e 425 c.p.p. Ma ciò, peraltro, ha ingenerato prassi devianti ed illegittime applicazioni de plano della “declaratoria”; > in tema di motivazione del decreto di rinvio a giudizio, prassi “infedele” adottata in interi contesti giudiziari; > in tema di poteri di restituzione della richiesta del pubblico ministero per vizi formali della domanda; >in tema di corretta qualificazione giuridica del fatto in sede di decreto di rinvio a giudizio; e così via, argomenti su cui spesso si è pronunziata anche la Corte costituzionale. Ancora. Sulle premesse logiche della nuova udienza – come è stato chiarito – pesa uno dei punti critici dell’attuale assetto processuale, il “nervo scoperto” delle prassi giudiziarie, costituito dall’art. 415-bis c.p.p. dell’attuale codice, norma che, secondo i responsabili dei Dipartimenti del Ministero e del Capo dell’Ispettorato auditi dal Comitato Scientifico (cfr., in particolare, il verbale n. 5 del 28 settembre 2006), rappresentano il “buco nero” dei tempi del processo, peraltro privo di reale portata operativa in ragione del quasi nullo ricorso alle risorse ivi offerte. La norma è stata introdotta dalla legge n. 479 del 1999 (cd. “legge Carotti”) ai fini della conoscenza del procedimento prima dell’esercizio dell’azione penale nella doppia logica della “completezza” delle indagini – suggerita anche dalla sentenza n. 88 del 28 gennaio 1991 – quale regola virtuosa per le determinazioni del giudice dell’udienza preliminare e per l’accesso ai riti “premiali” e del contestuale esercizio dei poteri difensivi prima dell’inizio dell’azione penale, essendo quasi mai praticato l’obbligo posto a carico del pubblico ministero dall’ultima parte dell’art. 358 c.p.p. di “ricercare anche elementi a favore” della persona sottoposta alle indagini e della inutile pratica di un previo interrogatorio della stessa persona in mancanza di discovery. Peraltro, la disposizione ha prodotto, in realtà, disorientamento giurisprudenziale quanto all’ambito applicativo – fino al continuo ricorso alla Corte costituzionale (16 maggio 2002, n. 203, in riferimento al giudizio immediato; 4 febbraio 2003, n.32, in riferimento al procedimento per decreto; 19 novenbre 2004, n. 349, per il procedimento dinanzi al giudice di pace) – in ragione di una sostanziale diffidenza, nella sua pratica attuazione, verso la filosofia del contatto tra le parti, non di queste con il giudice; soprattutto, quella norma è causa di stasi del procedimento-processo per i tempi lunghi riscontrati tra scadenza dei termini in essa previsti e fissazione dell’udienza preliminare. Si aggiunga che in una società su cui si eleva il “processo mediatico” a vero “luogo” della giurisdizione, l’involontario protagonista della vicenda – soprattutto se innocente – non vorrà più che essa si concluda con una archiviazione ma legittimamente pretenderà che la vicenda si chiuda con una sentenza di merito, neanche con il “non luogo a procedere”: in questo senso l’abolizione di quelle disposizioni assume pregnante forza garantista. Perciò oggi si coltiva la filosofia opposta e si organizzano i tempi e i modi del contatto delle parti con il giudice secondo la linea tracciata nel comma 3 dell’art. 111 Cost e si “procedimentalizza” l’avviso di conclusione delle indagini. Su altro fronte, poi – come è pure osservato in premessa – la moltiplicazione delle procedure per il giudizio – che fu felice intuizione del ministro Morlino nel Disegno di legge del 1979, poi portata a razionale attuazione dalla Commissione ministeriale che redasse il codice del 1988 – ha prodotto situazioni critiche non solo sul piano delle interpretazioni giudiziarie e costituzionali (come si dirà in altra parte: cfr. §§ 20 e 23), ma non ha giovato sul terreno dei tempi del processo per la necessaria moltiplicazione delle comunicazioni e delle notifiche oltre che delle sedi dei singoli giudizi, essendo stata ritenuta irrinunciabile la logica della premialità “in ogni giudizio” ai fini della tenuta del principio di eguale trattamento degli imputati. È accaduto, cioè, che la premialità dei “procedimenti speciali” non potesse essere accantonata in dibattimento; e si sono create, così, alterne vicende interpretative (cfr., ad esempio, la sentenza della Corte costituzionale n. 23 del 22 gennaio 1992) e la moltiplicazione delle risorse, facendo perdere, agli stessi, la loro genesi deflativa ed il noto rapporto tra costi e benefici, nonché la loro autonomia funzionale e strutturale. Queste situazioni processuali – oltre alla presenza di raccordi normativi poco chiari – hanno contribuito al fallimento della “scommessa” operata con il codice del 1988 e, per questo verso, all’aggravarsi dell’attuale situazione di “disastro” della giustizia penale. Per correggere questi difetti e per avviare a soluzione la crisi del processo penale, la Commissione ha scelto una filosofia diversa, razionale sul piano sistematico, ma, soprattutto, dettata dai bisogni di reale attuazione dei “principi” (= diritti) costituzionali (più volti richiamati), combinando efficienza e garanzia nell’ottica della giurisdizione e nel rispetto della “flessibile” parità delle parti: proposta l’azione, il giudice si appropria della vicenda processuale e la decide. Per coordinare tutto questo non poteva non agirsi sul fronte dell’abolizione dell’attuale disciplina dell’“avviso di conclusione delle indagini” e di modificarne filosofia e struttura nel senso della “chiamata” davanti al giudice previa imputazione – come atto di esercizio dell’azione penale – e, di conseguenza, sul fronte dei poteri del giudice dell’“udienza di conclusione delle indagini”. Va chiarito, peraltro, che il nuovo modulo processuale sfugge all’obiezione sostenuta sin dall’inizio di vita del codice del 1989 e che ha costituito il presupposto della legge n. 479 del 1999; quella, cioè, della vocatio di persona imputata che non abbia conosciuto, in occasione precedente, della vicenda che lo ha visto inconsapevole protagonista. Invero, la nuova struttura procedimentale si snoda per fasi progressive, la più significativa delle quali è quella della nuova “informazione di garanzia”, che assume, ora, funzione di atto per la conoscenza del procedimento, con addebito della “accusa” (si evoca, così, il termine utilizzato nell’art. 111 comma 3 Cost. con funzione diversa dalla “imputazione”, che resta atto di esercizio dell’azione penale) e che, contestualmente, apre all’”accusato”, prima dell’esercizio dell’azione, le “finestre di giurisdizione” imposte dalla disposizione costituzionale ora citata, che consentono discovery in progress, ad esempio nel caso in cui l’accusato chieda al giudice l’ascolto di persona già sentita dal pubblico ministero. Peraltro, il “fallimento” dei riti premiali – e segnatamente del “patteggiamento” – ha come presupposto critico la “lontananza” del giudice (l’accordo è tra le parti) e la non percezione del suo atteggiamento anche in tema di fattispecie penale, oltre alla possibilità di farvi ricorso in altra sede. Perciò si è pensato che la contestuale presenza della “triade di giudicanti” possa realizzare in questo momento una utile spinta alla applicazione della pena richiesta dall’imputato (quindi, non solo quella concordata dalle parti), spinta resa più forte dalle attività consentite in quella sede anche in materia di imputazione, oltre che da un rinnovato ruolo “collaborativo” del giudice”. E, dunque, l’“avviso” costituisce ora la chiamata davanti al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini; che nella filosofia di questa delega assume una pluralità di funzioni – da filtro contro le azioni azzardate a momento di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale, dall’applicazione della pena concordata o chiesta dall’imputato, alla formazione del fascicolo del dibattimento, con innovativi poteri di inclusione di atti su temi non controversi e di anticipazione di attività per il dibattimento. Insomma, si passa dal ricorso ai riti in chiave deflattiva all’esaltazione dei poteri del giudice per la deflazione del dibattimento senza incidere minimamente sulle garanzie dell’individuo e delle parti. A questo giudice, infatti, accedono anche – a richiesta – gli imputati chiamati per “citazione diretta” a giudizio: è il caso della persona sottoposta a misura cautelare che deve essere presentata a giudizio nei termini previsti in sede propria; è il caso della citazione diretta dell’imputato innanzi al tribunale come organo monocratico disposta dal pubblico ministero per ipotesi predeterminate. Originariamente era anche questo il caso della citazione diretta dell’arrestato in flagranza (direttiva n. 85. della “bozza” presentata il 18 luglio 2007). Epperò, come si dirà (cfr. § 22), le osservazioni contenute nei pareri e l’auspicio che fosse mantenuta una struttura analoga all’attuale “giudizio direttissimo” hanno spinto la maggioranza della Commissione ad abbandonare la prima opzione, che comunque viene offerta come soluzione alternativa al Parlamento. E poi, in questa nuova logica, la struttura dell’udienza assume forza “deontologica” per il pubblico ministero, chiamato a nuova “responsabilità” anche sul piano delle strategie processuali oltre che su quello della “completezza delle indagini” e dell’attenzione alle richieste operative offerte dalle altre “parti”. Ebbene, raccogliendo le fila di questa complessa vicenda e preso atto che ai rarissimi benefici del nuovo avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis c.p.p.) non hanno corrisposto eguali benefici sul terreno “deflativo”, la nuova “udienza di conclusione delle indagini” – che in parte raccoglie le inespresse potenzialità dell’udienza preliminare della legge sul processo minorile (art. 32) – procedimentalizza l’esercizio dell’azione penale del pubblico ministero, che convoca imputato e parti innanzi al giudice ai fini del controllo sull’esercizio dell’azione penale e della scelta del rito abbreviato o del dibattimento, ma anche ai fini della definizione anticipata del processo sull’accordo delle parti o a richiesta dell’imputato, la cui differente logica sarà esplicata in seguito (cfr. § 20). E’ questo il punto più delicato dell’intera vicenda legislativa della nuova udienza che sfrutta le nuove e più genuine potenzialità del “processo di parti”, che ha senso se correttamente contestualizzato alla volontà della parte. Insomma, alla monofunzionalità dell’udienza preliminare (come tale essa ha solo il compito di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale; perciò le modifiche della legge “Carotti” hanno fatto ritenere che fosse mutata, in sé, la natura di quella udienza: cfr. le pronunce della Corte costituzionale n. 335 del 2002 e n. 369 del 2003, con la quale ultima, però, essa parzialmente chiarisce il precedente pensiero e la pretesa confusione tra “merito” e “giudizio”) si oppone una polifunzionalità endemica dell’udienza di conclusione delle indagini, che moltiplica poteri e compiti del g.u.c.i. in ragione della “richiesta”: se è del pubblico ministero è domanda di giudizio (rectius: di dibattimento); se è dell’imputato può modificare le attribuzioni funzionali di quel giudice, spingendolo sulla sponda processuale (richiesta di rito) o di merito (applicazione di pena concordata e/o richiesta di condanna). Perciò, si diceva, che il nuovo sistema capovolge l’attuale ottica dell’art. 405 c.p.p.: se oggi il rito è scelto dal pubblico ministero, domani la selezione alternativa al dibattimento è affidata sempre e comunque all’imputato. In questa ottica pure le citazioni dirette sono richieste di giudizio (rectius: di dibattimento) vincolate al presupposto della limitazione della libertà personale o a fatti di minore gravità e/o complessità (giudizio innanzi al tribunale quale organo monocratico), rispetto alle quali l’imputato può azionare la richiesta di udienza di conclusione delle indagini per sfruttare le potenzialità “premiali” di questa. Dunque, l’udienza di conclusione delle indagini – eliminando prassi devianti che direttamente la riguardano e i punti conflittuali delle disposizioni ora in vigore – propone la sua centralità su più fronti, dal controllo sull’esercizio dell’azione all’anticipazione della condanna alla scelta del rito abbreviato – che, peraltro, si dirà, è auspicabile che sia celebrato, per le ragioni che si esplicheranno, da altro giudice – alla predisposizione del programma per il dibattimento; e la successione delle direttive risponde a questa scansione. Ma essa potrà assolvere a questa pluralità di funzioni solo a condizione che ad essa saranno riservate le risorse necessarie ed una appropriata organizzazione giudiziaria. Sul punto un’avvertenza è d’obbligo. Sul presupposto che la organizzazione segue e si adegua alle esigenze del processo – principio che capovolge il trend opposto di cui questo Paese ha abusato oltre misura – la quantità di poteri e compiti ora attribuiti a questo giudice “monocratico” – che giustifica anche l’autonomia funzionale del giudice per il rito abbreviato – richiede uno sforzo organizzativo dei Tribunali e la razionalizzazione delle risorse, non solo umane, quale premessa per la reale operatività del nuovo modello processuale; ma questo è compito che spetta ad altre Istituzioni, alle quali l’ “avvertenza” è rivolta – sin d’ora – per gli opportuni adeguamenti e per sottrarre ad esse l’alibi – più volte ripetuto – che certe crisi nascano dall’assetto normativo, non dall’esercizio consapevole e responsabile di altri compiti istituzionali. Queste premesse si riversano nelle diverse direttive di delega. Il punto 66.1 contiene le linee di essenza e le rigide indicazioni di contenuto dell’atto di esercizio dell’azione penale, con specifico riferimento alla imputazione, alla convocazione davanti al giudice, al deposito degli atti compiuti dal pubblico ministero e all’invito a depositare quelli investigativi compiuti dalla difesa e di cui essa intenda far uso. L’ulteriore novità è costituita dagli avvertimenti relativi alle scelte, non solo procedimentali, che l’imputato può operare in udienza. La previsione della sanzione “a pena di decadenza” – espressamente indicata in delega – dipende dalla elezione di questa sede a luogo esclusivo per la pratica delle opportunità premiali e deflattive. Per questa ragione dovrà prevedersi che l’atto di citazione debba essere consegnato a mani secondo la procedura delle direttive scritte nel punto 24. Per le stesse ragioni l’udienza potrà essere richiesta dall’imputato – in termini prestabiliti – nel caso delle citazioni dirette predisposte ai successivi punti. Il punto 66.2 esprime le direttive relative ai termini per la fissazione della udienza ed al deposito delle ulteriori attività investigative compiute dalle parti. Il punto 66.3 contiene le direttive per lo svolgimento dell’udienza. Le novità salienti sono costituite dalla richiesta di interrogatorio e dal potere probatorio – anche d’ufficio – vincolato a criteri di assoluta necessità per la decisione, ovviamente – e per le cose dette – non necessariamente quella di non luogo a procedere, così come per i poteri probatori previsti nell’art. 422 attuale c.p.p. La diversità è di sostanza; ed è praticabile oggi proprio perché è scomparsa, dalla cultura più accorta del Paese, la falsa identificazione tra giudice che procede di ufficio e giudice istruttore e/o tra poteri probatori di ufficio e “scorie inquisitorie”. La progressiva consapevolezza che il processo di parti non si identifica con la assoluta disponibilità della prova, per un verso; e la eguale convinzione della insopprimibilità di poteri probatori di ufficio per chi è obbligato alla decisione, soprattutto se questa è di merito; ed ancora, la puntualizzazione che l’inciso “anche di ufficio” significhi “anche di parte”; infine, l’osservazione che la oggettivizzazione e la direzione dei poteri previsti come ufficiosi serva a contestualizzare l’avvenimento probatorio e – così – a modificare la regola di presunzione di ammissibilità della prova in determinate evenienze; tutto ciò chiarisce che la dizione “prevedere che il giudice possa, anche d’ufficio, disporre l’acquisizione di prove rilevanti e decisive ai fini della deliberazione e che, dopo l’assunzione delle stesse, inviti le parti a concludere” di cui al punto in questione è congeniale alla nuova multifunzionalità dell’udienza di conclusione delle indagini e, quindi, all’obiettivo definitorio che la parte si prefigge. Sicché, l’”ampio” potere si aggancia, contestualmente, alle potenzialità definitorie dell’udienza, ma anche alla eventualità che in questa sede debba anticiparsi la prova per il dibattimento per far fronte alle evenienze dell’incidente probatorio. Epperò, la pluralità di funzioni suggerisce al legislatore delegato di distinguere impulso e modalità dell’atto, essendo evidente che, nell’ultima ipotesi, dovrà farsi ricorso ai vincoli propri dell’incidente probatorio e, quindi, anche in questa sede, a criteri di non rinviabilità della prova. E’ evidente, dunque, che il potere dovrà parametrarsi allo sbocco definitorio che via via si delinea in udienza, in ragione delle spinte e delle controspinte dei suoi protagonisti. Proprio per rimarcare la coerenza sistematica di questi poteri è opportuno ripetere che il pericolo che in questo modo si evochi il “giudice istruttore” è fondato su una falsa raffigurazione intellettuale di tale soggetto, che ha accompagnato la critica ai poteri ufficiosi del giudice sin dall’entrata in vigore dell’attuale codice (a proposito degli artt. 422 e 507 c.p.p.), soprattutto dopo il potenziamento di tali poteri operato con la legge n. 479 del 1999 (a proposito degli artt. 421-bis, 422, 507, 441 c.p.p.). La raffigurazione è falsa: il giudice era istruttore perché era unico operatore della prova, peraltro raccolta in segreto e con la totale esautorazione della difesa; questa situazione è ben lontana dalle nuove prospettive operative del giudice. E se, dal punto di vista tecnico è predisposto – in delega – il modo di gestione diretta (da parte del giudice) dell’interrogatorio e della prova dichiarativa, ciò risponde ai bisogni di snellezza funzionale dell’udienza; che, però, non sottraggono alle parti il potere di indicare e/o di proporre temi al giudice. Il punto 66.4 predispone poteri di indirizzo del giudice sulla scelta del rito e/o verso la definizione anticipata, nell’ottica del ruolo “collaborativo” e “solidaristico” che il giudice naturalmente assume in questa fase. Pure qui è indispensabile un chiarimento di natura culturale e di tipo semantico, dal momento che i due aggettivi certamente faranno scalpore, potendo strumentalmente esser letti come immissione del giudice nelle scelte delle parti e, quindi, come pericolosi prodromi di annunciata decisione e/o di prospettive di incompatibilità. Perciò è utile chiarire che essi predispongono niente altro che la “figura” di un “nuovo” giudice che – terzo rispetto all’avvenimento ed imparziale nel giudizio – non sia alieno – nella procedura in corso – da compiti attivi, non di incentivazione della soluzione a lui “gradita”, ma di suggerimento della molteplicità di percorsi operativi per la definizione della vicenda. Un giudice, insomma, che non si “comprometta” quanto al giudizio, né che invada l’ambito di selezione spettante al difensore: un giudice che “ricordi” gli sbocchi definitori e la loro impraticabilità futura non è certo un giudice “incompatibile”, ma, appunto, è chi solidaristicamente propone all’imputato il ventaglio delle scelte che sono di fronte a lui. Non percepire questi segnali di novità è frutto di una cultura che alimenta la diffidenza verso il giudice e/o, contestualmente, si aggrappa ad attuali prassi devianti certamente da evitare in futuro. I punti 66.5 e 66.6 si interessano delle vicende dell’imputazione, risolvendo anche, in radice, i poteri del giudice in questa materia e rinforzando le garanzie per l’imputato presente e/o assente. La materia è nota e le vicende che l’hanno riguardata sono state tutte richiamate, anche se in forma sintetica. In particolare, perciò, si sottolineano le novità salienti. Così, nel punto 66.5 la “diversità” del fatto esclude la “unità” dei fatti compiuti in esecuzione del medesimo disegno criminoso. E ciò non solo perché, nella specie, i fatti possono essere autonomi tra di loro, fattualmente e giuridicamente differenti, ma anche per eliminare una pregiudiziale e discrezionale valutazione sulla “medesimezza del disegno” da parte del pubblico ministero. Peraltro, il tema della imputazione è oggetto di naturale e non concorde dibattito, discutendosi ancora circa i profili differenzianti il fatto “diverso” e il fatto “nuovo”, che la giurisprudenza concordemente collega agli elementi del reato con risultati ermeneutici – però – niente affatto tranquillizzanti. Perciò è apparso opportuno, in materia, far ricorso al criterio della “autonomia” del fatto, criterio, peraltro, acquisito dalla Corte costituzionale e che meglio distingue il “fatto processuale” dal “fatto-reato”. In virtù di tale “autonomia”, è apparso indispensabile differenziare il regime processuale del concorso formale di reato da quello materiale, per il quale, tuttavia, il recupero operativo della unità del contesto processuale può essere utilmente adottato sfruttando le modalità contestative del “fatto nuovo”. Nel punto 66.6, poi, la convinzione che il vizio di imputazione costituisca scorretto esercizio dell’azione penale autorizza il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero. Tuttavia, esigenze di economia processuale e la natura della sede consentono un potere sollecitatorio del giudice al pubblico ministero, che non inficia assolutamente la libertà operativa del magistrato di accusa né riduce le garanzie per l’imputato, a cui favore milita la identità di termini tra vocatio originaria e nuova udienza di discussione, che, perciò, calca la mano sui bisogni selettivi della difesa in ragione della “diversa” contestazione. I punti 66.7, 66.8, 66.9 e 66.10 contengono le direttive in materia di conclusione dell’udienza e di attività “preparatorie” per il dibattimento. Le novità salienti sono rappresentate: dalla unità della regola di giudizio che potrebbe consentire l’abolizione di formule di proscioglimento incompatibili con la funzione di controllo affidata al g.u.c.i. in via primaria, formule che, peraltro, sono state fonte di equivoci dato il loro contestuale uso in disposizioni di differente funzione e natura (= artt. 129; 425; 530 c.p.p. 1988); dalla clausola di salvaguardia quanto all’applicazione della declaratoria di cause di non punibilità e della pronuncia sulla tenue offensività del fatto, per le quali la richiesta dell’una e/o dell’altra parte risulta necessaria per conferire al giudice poteri di merito e successiva inappellabilità della parte che ne ha fatto richiesta; dai limiti alla ricorribilità della sentenza emessa in caso di appello del pubblico ministero, essendo la doppia pronuncia sufficientemente garantista quanto alla pretesa punitiva dello Stato; dall’accordo sulla formazione del fascicolo, che, potendo riguardare anche temi non controversi, elimina il bisogno di una successiva udienza di preparazione del dibattimento; dall’obbligo di ordinare la trascrizione – mediante procedimento garantito – delle conversazioni e dei flussi telematici captati se l’opera non è stata compiuta in precedenza, proprio per evitare che essa possa complicare o ritardare il corso del dibattimento. Quanto ai poteri di definizione anticipata, la diversa numerazione (n. 67) ne esalta la novità sistematica e la problematicità politica.] L’udienza di conclusione delle indagini rappresenta il punto nevralgico del nuovo processo, assommando funzioni di garanzia e ruolo promozionale per la definizione anticipata della vicenda. L’origine delle vicende del “controllo sull’esercizio dell’azione”, quale ulteriore elemento di democraticità del processo e di verifica delle attività investigative del pubblico ministero, va rintracciata nella risalente giurisprudenza costituzionale.
Il primo deciso intervento è quello n. 62 del 1971, non unico rispetto a quel contesto normativo, nel quale le scelte ideologiche e la permanenza di soggetti pubblici del processo «anfibi» ne condizionavano gli interventi in apparenza concentrati, perciò, più nel versante del controllo sulle garanzie che sui profili di sistema. Per queste ragioni e per la «politica» stessa della Corte in quella epoca, appare evidente e dovuto il suo primo impegno sul versante della tutela dei diritti procedurali dell’individuo, che alimentò la stagione del garantismo difensivo, ponendo le basi di quel rinnovamento culturale che ha rappresentato l’avvio della stagione riformista degli anni ‘70 e ‘80.
All’epoca, perciò, l’incisiva opera della Corte è costellata di non rare pronunce di illegittimità sul versante del diritto di difesa (sent. n. 32 del 1964; n. 151 del 1967; n. 86 del 1968) fino al punto – su questo terreno – di contestare l’uso dei diritti operato dalla Corte di Cassazione e, perciò, di spingersi fino a dichiarare illegittimo l’atteggiamento ermeneutico di quel giudice: lo «scontro tra le due Corti» (cfr. specialmente la sent. n. 52 del 1965) si sviluppò, infatti, sul piano dell’interpretazione non su quello normativo. Ma l’operazione si è sviluppata anche attraverso il riconoscimento di una più avvertita sensibilità costituzionale del giudice delle leggi (cfr. ad esempio, la sent. n. 123 del 1971). Anzi, essa si è mossa sul terreno della violazione dell’art. 25 Cost. o della razionalità legislativa (sent. n. 16 del 1970; n. 175 del 1971; n. 103 del 1974; n. 95 del 1975) terreno direttamente connesso ai poteri discrezionali del pubblico ministero.
In questi rapporti si collocava l’osservazione del diritto al controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione; e non poteva essere altrimenti, all’epoca, dati i costi elevati di più radicali prese di posizioni sulla struttura del processo, per un verso, e la difficile rimozione di una cultura del pubblico ministero “parte imparziale”, dall’altro. Esce fuori un quadro preciso ed una visione decisa della Corte: posta la identità funzionale delle due istruzioni (sent. n. 32 del 1964; n. 11 e n. 52 del 1965; n. 151 del 1967; n. 117 del 1968) e, talvolta, anche della preistruzione (sent. n. 86 del 1968; n. 103 del 1974); e posta l’autonomia del Pretore in tema di discrezionalità del potere di istruire o meno la notizia in ragione della particolare struttura del processo (sent. n. 16 del 1970) e di rimuovere il precedente suo decreto di archiviazione (sent. n. 95 del 1975) – situazione nelle quali la Corte sembra sottolineare la parte funzionalmente giudiziale di quel soggetto –la Corte si attesta su una posizione di dovuta sindacabilità del potere valutativo del pubblico ministero in materia di «evidenza della prova» quale presupposto per la scelta del rito (n. 117 del 1968: con la quale dichiara la illegittimità costituzionale della situazione), anche quando il presupposto della scelta fosse costituito dalla confessione dell’imputato, perché pure qui essa è congiunta ad una valutazione di non utilità di eventuali ulteriori atti istruttori.
Il segnale fu raccolto dalla cultura giuridica sin dalla prima proposta di riforma del codice di procedura penale: il Progetto del 1978 prevedeva per la bisogna l’”udienza di smistamento”. Essa, però, presentava elementi ibridi sul piano soggettivo e di problematica commistione col giudizio sul piano oggettivo, tali da costituire un vero e proprio ripiegamento inquisitorio di dubbia coerenza col sistema complessivo del processo allora ipotizzato; “ripiegamento inquisitorio” utile ai fini dello sfoltimento del dibattimento realizzato con l’affidamento al giudice istruttore di compiti probatori rivolti all’assoluzione dell’imputato.
L’indirizzo – non condiviso – fu subito abbandonato: la nuova bozza di legge delega del 1979 indicò un percorso diverso per il recupero di efficienza della giurisdizione e l’invito al legislatore di praticare la strada dei “riti differenziati”, percorso su cui il legislatore di fine anni ottanta si inoltrò con significativa ed accurata abbondanza. Con il codice del 1988 il «controllo» è connotato di sistema, che oggi idealmente approda al “diritto al non processo” quale criterio di fondo che legittima la partecipazione della difesa anche in segmenti procedimentali finalizzati all’esercizio penale; ed ovviamente muta, in sua ragione, l’atteggiamento della Corte, ora rivolta più agli ambiti operativi che non al suo ottenuto riconoscimento legislativo.
Epperò, pure qui, seguendo il metodo di osservazione dei prodotti della Corte in apparenza estranei al tema specifico, assume rilievo centrale la sentenza n. 88 del 1991, nella quale essa dimostra il «vizio genetico» – interno – del nuovo codice nella debolezza del controllo giurisdizionale.
Nel codice del 1988 l’udienza preliminare assolve alla doppia funzione di controllo sull’esercizio dell’azione e di luogo per la pratica dei cc.dd. riti premiali; spesso reciprocamente condizionandosi (si pensi alle prime valutazioni in tema di “economicità” del rito abbreviato).
Quella Commissione si dedicò con particolare impegno al tema dell’udienza preliminare, nella consapevolezza del rilievo centrale che spetta all’istituto nella struttura del nuovo processo e per l’esistenza di profili problematici nella messa a punto della disciplina normativa alla quale affidarle una duplice ratio, di garanzia del diritto di difesa dell’imputato e, al tempo stesso, di economia processuale, suggerita dagli orientamenti espressi dal Parlamento, che assegnava all’udienza il ruolo di ‹‹filtro della richiesta di dibattimento avanzata dal pubblico ministero›› e la ‹‹funzione di decongestione del sistema››.
Quella Commissione, però, condivideva la preoccupazione di far rivivere la figura del “giudice istruttore”. Perciò, l’allora ipotizzato controllo giurisdizionale volto a delibare il fondamento dell’accusa non si tradusse ‹‹in un intervento così penetrante da assumere compiti di supplenza rispetto alle lacune nei risultati delle indagini svolte dal pubblico ministero o alle carenze nell’esercizio della attività difensiva››, anche perché la scelta fissata dalla legge-delega negava al giudice dell’udienza preliminare ‹‹qualsiasi potere di iniziativa nella raccolta della prova, anche quello suppletivo e residuale che viene riconosciuto al giudice del dibattimento››.
Come si sa, proprio su questi punti si è rivolta la particolare cura della Corte costituzionale e l’attenzione del legislatore.
La prima, sin dai primi passi del nuovo codice, richiamava l’attenzione del legislatore sul vulnus alla pratica deflativa prodotto dalla regola della “completezza” delle indagini (cfr., ancora, la sentenza n. 88 del 1991, cit.) sia sul fronte deliberativo del giudice dell’udienza preliminare, sia sulle enfatizzate pronunce alla stato degli atti. Di conseguenza, il secondo, prima con timidi ma significativi “ritocchi” e poi con un più incisivo intervento (cfr. la legge n. 479 del 16 dicembre 1999), si pose sulla logica opposta affidando al giudice, proprio, il controllo sulle indagini (art. 421-bis c.p.p.) e più penetranti poteri probatori (art. 422 c.p.p.) per vincere le maglie strette dell’originaria udienza preliminare, fonti del contestuale fallimento della sua funzione deflativa (nuovo art. 425 c.p.p.) e dell’impraticato ricorso ai riti.
Perciò, all’inizio (§ 4) si diceva che le novellazioni al codice hanno prodotto l’alterazione del sistema e la irrazionalità dei suoi gangli essenziali.
Peraltro, la permanente preoccupazione di un ritorno al giudice istruttore aveva spinto la Commissione ad escludere qualsiasi tipo di formazione anticipata della prova nell’udienza, avendo ritenuto in nessun modo praticabile il ricorso all’incidente probatorio, i cui presupposti sono ben diversi da quelli che caratterizzano il “supplemento istruttorio” ai fini della decisione nell’udienza preliminare; e ciò, anche perché si reputava ‹‹che, anche per questa via, si [sarebbe determinata] una regressione della fase giurisdizionale, segnata dall’inizio dell’azione penale, ad un momento procedimentale in cui gli interventi del giudice hanno un carattere puramente incidentale››.
Pure su questo punto la Corte costituzionale ritenne che «la preclusione all’esperimento dell’incidente probatorio nella fase dell’udienza preliminare si rivela priva di ogni ragionevole giustificazione e lesiva del diritto delle parti alla prova e, quindi, dei diritti di azione e di difesa». Di conseguenza dichiarava costituzionalmente illegittimi gli artt. 392 e 393 del codice di procedura penale nella parte in cui non consentono che, nei casi previsti dalla prima di tali disposizioni, l’incidente probatorio possa essere richiesto ed eseguito anche nella fase dell’udienza preliminare. E ciò perché, sotto il profilo sistematico, l’interruzione nell’acquisibilità di prove non rinviabili apparve ed appare contraddittoria con la continuità che il legislatore ha assicurato all’attività di indagine, prevedendo che questa possa proseguire anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419 comma 3) e dopo il decreto che dispone il giudizio (art. 430), ben potendo darsi che per taluno degli elementi in tal modo acquisiti insorgano le situazioni di non differibilità della prova previste dall’art. 392 (cfr. sentenza n. 77 del 23 febbraio 1994).
Dunque, seguendo questo impianto costruttivo, la disciplina tracciata negli artt. 413-419 (=artt. 416-425 c.p.p.) si incentra su un regime ordinario che vede l’udienza preliminare modellata come procedimento allo stato degli atti, cui può far seguito, eventualmente, un regime eccezionale imperniato su limitate acquisizioni probatorie caratterizzate da una efficacia interna alla fase e su un regime extra ordinem che consente l’ingresso di testimonianze, consulenze tecniche e interrogatori di coimputati quando, sui temi nuovi o incompleti indicati dal giudice, il pubblico ministero o le parti private ne facciano richiesta e il giudice ritenga decisiva la prova ai fini della sua pronuncia.
Ma la crisi dell’udienza preliminare si è mostrata sul terreno delle prassi in più occasioni e per diversi profili. Così, ad esempio,
>in tema di imputazione si è discusso se il pubblico ministero potesse adottare lo strumento modificatorio anche quando la “diversità” fosse già presente negli atti; oppure se il giudice avesse poteri sollecitatori rispetto all’accusa. Il vuoto normativo ha sostenuto prassi contrastanti ed ha spinto l’interpretazione sul fronte dell’analogia con l’art. 521 c.p.p. 1988 – forma ermeneutica impraticabile in materia attributiva di poteri, nonostante la Corte costituzionale sin dal 1995 (cfr. sentenza n. 95) avesse riconosciuto quel potere come ulteriore forma di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale – ;
> in tema di applicabilità, in udienza, della clausola generale dell’art. 129 c.p.p. In materia, solo nel 1996 (cfr. SS.UU. 15 maggio 1996, Sala) – ma con contrastanti indirizzi successivi – la Cassazione ha riconosciuto al giudice dell’udienza preliminare il potere di applicarla in questa udienza, superando il rapporto di specialità tra gli artt. 129 e 425 c.p.p. Ma ciò, peraltro, ha ingenerato prassi devianti ed illegittime applicazioni de plano della “declaratoria”;
> in tema di motivazione del decreto di rinvio a giudizio, prassi “infedele” adottata in interi contesti giudiziari;
> in tema di poteri di restituzione della richiesta del pubblico ministero per vizi formali della domanda; >in tema di corretta qualificazione giuridica del fatto in sede di decreto di rinvio a giudizio;
e così via, argomenti su cui spesso si è pronunziata anche la Corte costituzionale.
Ancora. Sulle premesse logiche della nuova udienza – come è stato chiarito – pesa uno dei punti critici dell’attuale assetto processuale, il “nervo scoperto” delle prassi giudiziarie, costituito dall’art. 415-bis c.p.p. dell’attuale codice, norma che, secondo i responsabili dei Dipartimenti del Ministero e del Capo dell’Ispettorato auditi dal Comitato Scientifico (cfr., in particolare, il verbale n. 5 del 28 settembre 2006), rappresentano il “buco nero” dei tempi del processo, peraltro privo di reale portata operativa in ragione del quasi nullo ricorso alle risorse ivi offerte.
La norma è stata introdotta dalla legge n. 479 del 1999 (cd. “legge Carotti”) ai fini della conoscenza del procedimento prima dell’esercizio dell’azione penale nella doppia logica della “completezza” delle indagini – suggerita anche dalla sentenza n. 88 del 28 gennaio 1991 – quale regola virtuosa per le determinazioni del giudice dell’udienza preliminare e per l’accesso ai riti “premiali” e del contestuale esercizio dei poteri difensivi prima dell’inizio dell’azione penale, essendo quasi mai praticato l’obbligo posto a carico del pubblico ministero dall’ultima parte dell’art. 358 c.p.p. di “ricercare anche elementi a favore” della persona sottoposta alle indagini e della inutile pratica di un previo interrogatorio della stessa persona in mancanza di discovery.
Peraltro, la disposizione ha prodotto, in realtà, disorientamento giurisprudenziale quanto all’ambito applicativo – fino al continuo ricorso alla Corte costituzionale (16 maggio 2002, n. 203, in riferimento al giudizio immediato; 4 febbraio 2003, n.32, in riferimento al procedimento per decreto; 19 novenbre 2004, n. 349, per il procedimento dinanzi al giudice di pace) – in ragione di una sostanziale diffidenza, nella sua pratica attuazione, verso la filosofia del contatto tra le parti, non di queste con il giudice; soprattutto, quella norma è causa di stasi del procedimento-processo per i tempi lunghi riscontrati tra scadenza dei termini in essa previsti e fissazione dell’udienza preliminare.
Si aggiunga che in una società su cui si eleva il “processo mediatico” a vero “luogo” della giurisdizione, l’involontario protagonista della vicenda – soprattutto se innocente – non vorrà più che essa si concluda con una archiviazione ma legittimamente pretenderà che la vicenda si chiuda con una sentenza di merito, neanche con il “non luogo a procedere”: in questo senso l’abolizione di quelle disposizioni assume pregnante forza garantista.
Perciò oggi si coltiva la filosofia opposta e si organizzano i tempi e i modi del contatto delle parti con il giudice secondo la linea tracciata nel comma 3 dell’art. 111 Cost e si “procedimentalizza” l’avviso di conclusione delle indagini.
Su altro fronte, poi – come è pure osservato in premessa – la moltiplicazione delle procedure per il giudizio – che fu felice intuizione del ministro Morlino nel Disegno di legge del 1979, poi portata a razionale attuazione dalla Commissione ministeriale che redasse il codice del 1988 – ha prodotto situazioni critiche non solo sul piano delle interpretazioni giudiziarie e costituzionali (come si dirà in altra parte: cfr. §§ 20 e 23), ma non ha giovato sul terreno dei tempi del processo per la necessaria moltiplicazione delle comunicazioni e delle notifiche oltre che delle sedi dei singoli giudizi, essendo stata ritenuta irrinunciabile la logica della premialità “in ogni giudizio” ai fini della tenuta del principio di eguale trattamento degli imputati. È accaduto, cioè, che la premialità dei “procedimenti speciali” non potesse essere accantonata in dibattimento; e si sono create, così, alterne vicende interpretative (cfr., ad esempio, la sentenza della Corte costituzionale n. 23 del 22 gennaio 1992) e la moltiplicazione delle risorse, facendo perdere, agli stessi, la loro genesi deflativa ed il noto rapporto tra costi e benefici, nonché la loro autonomia funzionale e strutturale.
Queste situazioni processuali – oltre alla presenza di raccordi normativi poco chiari – hanno contribuito al fallimento della “scommessa” operata con il codice del 1988 e, per questo verso, all’aggravarsi dell’attuale situazione di “disastro” della giustizia penale.
Per correggere questi difetti e per avviare a soluzione la crisi del processo penale, la Commissione ha scelto una filosofia diversa, razionale sul piano sistematico, ma, soprattutto, dettata dai bisogni di reale attuazione dei “principi” (= diritti) costituzionali (più volti richiamati), combinando efficienza e garanzia nell’ottica della giurisdizione e nel rispetto della “flessibile” parità delle parti: proposta l’azione, il giudice si appropria della vicenda processuale e la decide.
Per coordinare tutto questo non poteva non agirsi sul fronte dell’abolizione dell’attuale disciplina dell’“avviso di conclusione delle indagini” e di modificarne filosofia e struttura nel senso della “chiamata” davanti al giudice previa imputazione – come atto di esercizio dell’azione penale – e, di conseguenza, sul fronte dei poteri del giudice dell’“udienza di conclusione delle indagini”.
Va chiarito, peraltro, che il nuovo modulo processuale sfugge all’obiezione sostenuta sin dall’inizio di vita del codice del 1989 e che ha costituito il presupposto della legge n. 479 del 1999; quella, cioè, della vocatio di persona imputata che non abbia conosciuto, in occasione precedente, della vicenda che lo ha visto inconsapevole protagonista.
Invero, la nuova struttura procedimentale si snoda per fasi progressive, la più significativa delle quali è quella della nuova “informazione di garanzia”, che assume, ora, funzione di atto per la conoscenza del procedimento, con addebito della “accusa” (si evoca, così, il termine utilizzato nell’art. 111 comma 3 Cost. con funzione diversa dalla “imputazione”, che resta atto di esercizio dell’azione penale) e che, contestualmente, apre all’”accusato”, prima dell’esercizio dell’azione, le “finestre di giurisdizione” imposte dalla disposizione costituzionale ora citata, che consentono discovery in progress, ad esempio nel caso in cui l’accusato chieda al giudice l’ascolto di persona già sentita dal pubblico ministero.
Peraltro, il “fallimento” dei riti premiali – e segnatamente del “patteggiamento” – ha come presupposto critico la “lontananza” del giudice (l’accordo è tra le parti) e la non percezione del suo atteggiamento anche in tema di fattispecie penale, oltre alla possibilità di farvi ricorso in altra sede.
Perciò si è pensato che la contestuale presenza della “triade di giudicanti” possa realizzare in questo momento una utile spinta alla applicazione della pena richiesta dall’imputato (quindi, non solo quella concordata dalle parti), spinta resa più forte dalle attività consentite in quella sede anche in materia di imputazione, oltre che da un rinnovato ruolo “collaborativo” del giudice”.
E, dunque, l’“avviso” costituisce ora la chiamata davanti al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini; che nella filosofia di questa delega assume una pluralità di funzioni – da filtro contro le azioni azzardate a momento di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale, dall’applicazione della pena concordata o chiesta dall’imputato, alla formazione del fascicolo del dibattimento, con innovativi poteri di inclusione di atti su temi non controversi e di anticipazione di attività per il dibattimento. Insomma, si passa dal ricorso ai riti in chiave deflattiva all’esaltazione dei poteri del giudice per la deflazione del dibattimento senza incidere minimamente sulle garanzie dell’individuo e delle parti.
A questo giudice, infatti, accedono anche – a richiesta – gli imputati chiamati per “citazione diretta” a giudizio: è il caso della persona sottoposta a misura cautelare che deve essere presentata a giudizio nei termini previsti in sede propria; è il caso della citazione diretta dell’imputato innanzi al tribunale come organo monocratico disposta dal pubblico ministero per ipotesi predeterminate.
Originariamente era anche questo il caso della citazione diretta dell’arrestato in flagranza (direttiva n. 85. della “bozza” presentata il 18 luglio 2007).
Epperò, come si dirà (cfr. § 22), le osservazioni contenute nei pareri e l’auspicio che fosse mantenuta una struttura analoga all’attuale “giudizio direttissimo” hanno spinto la maggioranza della Commissione ad abbandonare la prima opzione, che comunque viene offerta come soluzione alternativa al Parlamento.
E poi, in questa nuova logica, la struttura dell’udienza assume forza “deontologica” per il pubblico ministero, chiamato a nuova “responsabilità” anche sul piano delle strategie processuali oltre che su quello della “completezza delle indagini” e dell’attenzione alle richieste operative offerte dalle altre “parti”.
Ebbene, raccogliendo le fila di questa complessa vicenda e preso atto che ai rarissimi benefici del nuovo avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis c.p.p.) non hanno corrisposto eguali benefici sul terreno “deflativo”, la nuova “udienza di conclusione delle indagini” – che in parte raccoglie le inespresse potenzialità dell’udienza preliminare della legge sul processo minorile (art. 32) – procedimentalizza l’esercizio dell’azione penale del pubblico ministero, che convoca imputato e parti innanzi al giudice ai fini del controllo sull’esercizio dell’azione penale e della scelta del rito abbreviato o del dibattimento, ma anche ai fini della definizione anticipata del processo sull’accordo delle parti o a richiesta dell’imputato, la cui differente logica sarà esplicata in seguito (cfr. § 20).
E’ questo il punto più delicato dell’intera vicenda legislativa della nuova udienza che sfrutta le nuove e più genuine potenzialità del “processo di parti”, che ha senso se correttamente contestualizzato alla volontà della parte.
Insomma, alla monofunzionalità dell’udienza preliminare (come tale essa ha solo il compito di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale; perciò le modifiche della legge “Carotti” hanno fatto ritenere che fosse mutata, in sé, la natura di quella udienza: cfr. le pronunce della Corte costituzionale n. 335 del 2002 e n. 369 del 2003, con la quale ultima, però, essa parzialmente chiarisce il precedente pensiero e la pretesa confusione tra “merito” e “giudizio”) si oppone una polifunzionalità endemica dell’udienza di conclusione delle indagini, che moltiplica poteri e compiti del g.u.c.i. in ragione della “richiesta”: se è del pubblico ministero è domanda di giudizio (rectius: di dibattimento); se è dell’imputato può modificare le attribuzioni funzionali di quel giudice, spingendolo sulla sponda processuale (richiesta di rito) o di merito (applicazione di pena concordata e/o richiesta di condanna). Perciò, si diceva, che il nuovo sistema capovolge l’attuale ottica dell’art. 405 c.p.p.: se oggi il rito è scelto dal pubblico ministero, domani la selezione alternativa al dibattimento è affidata sempre e comunque all’imputato. In questa ottica pure le citazioni dirette sono richieste di giudizio (rectius: di dibattimento) vincolate al presupposto della limitazione della libertà personale o a fatti di minore gravità e/o complessità (giudizio innanzi al tribunale quale organo monocratico), rispetto alle quali l’imputato può azionare la richiesta di udienza di conclusione delle indagini per sfruttare le potenzialità “premiali” di questa.
Dunque, l’udienza di conclusione delle indagini – eliminando prassi devianti che direttamente la riguardano e i punti conflittuali delle disposizioni ora in vigore – propone la sua centralità su più fronti, dal controllo sull’esercizio dell’azione all’anticipazione della condanna alla scelta del rito abbreviato – che, peraltro, si dirà, è auspicabile che sia celebrato, per le ragioni che si esplicheranno, da altro giudice – alla predisposizione del programma per il dibattimento; e la successione delle direttive risponde a questa scansione.
Ma essa potrà assolvere a questa pluralità di funzioni solo a condizione che ad essa saranno riservate le risorse necessarie ed una appropriata organizzazione giudiziaria.
Sul punto un’avvertenza è d’obbligo.
Sul presupposto che la organizzazione segue e si adegua alle esigenze del processo – principio che capovolge il trend opposto di cui questo Paese ha abusato oltre misura – la quantità di poteri e compiti ora attribuiti a questo giudice “monocratico” – che giustifica anche l’autonomia funzionale del giudice per il rito abbreviato – richiede uno sforzo organizzativo dei Tribunali e la razionalizzazione delle risorse, non solo umane, quale premessa per la reale operatività del nuovo modello processuale; ma questo è compito che spetta ad altre Istituzioni, alle quali l’ “avvertenza” è rivolta – sin d’ora – per gli opportuni adeguamenti e per sottrarre ad esse l’alibi – più volte ripetuto – che certe crisi nascano dall’assetto normativo, non dall’esercizio consapevole e responsabile di altri compiti istituzionali.
Queste premesse si riversano nelle diverse direttive di delega.
Il punto 66.1 contiene le linee di essenza e le rigide indicazioni di contenuto dell’atto di esercizio dell’azione penale, con specifico riferimento alla imputazione, alla convocazione davanti al giudice, al deposito degli atti compiuti dal pubblico ministero e all’invito a depositare quelli investigativi compiuti dalla difesa e di cui essa intenda far uso. L’ulteriore novità è costituita dagli avvertimenti relativi alle scelte, non solo procedimentali, che l’imputato può operare in udienza. La previsione della sanzione “a pena di decadenza” – espressamente indicata in delega – dipende dalla elezione di questa sede a luogo esclusivo per la pratica delle opportunità premiali e deflattive. Per questa ragione dovrà prevedersi che l’atto di citazione debba essere consegnato a mani secondo la procedura delle direttive scritte nel punto 24. Per le stesse ragioni l’udienza potrà essere richiesta dall’imputato – in termini prestabiliti – nel caso delle citazioni dirette predisposte ai successivi punti.
Il punto 66.2 esprime le direttive relative ai termini per la fissazione della udienza ed al deposito delle ulteriori attività investigative compiute dalle parti.
Il punto 66.3 contiene le direttive per lo svolgimento dell’udienza. Le novità salienti sono costituite dalla richiesta di interrogatorio e dal potere probatorio – anche d’ufficio – vincolato a criteri di assoluta necessità per la decisione, ovviamente – e per le cose dette – non necessariamente quella di non luogo a procedere, così come per i poteri probatori previsti nell’art. 422 attuale c.p.p. La diversità è di sostanza; ed è praticabile oggi proprio perché è scomparsa, dalla cultura più accorta del Paese, la falsa identificazione tra giudice che procede di ufficio e giudice istruttore e/o tra poteri probatori di ufficio e “scorie inquisitorie”. La progressiva consapevolezza che il processo di parti non si identifica con la assoluta disponibilità della prova, per un verso; e la eguale convinzione della insopprimibilità di poteri probatori di ufficio per chi è obbligato alla decisione, soprattutto se questa è di merito; ed ancora, la puntualizzazione che l’inciso “anche di ufficio” significhi “anche di parte”; infine, l’osservazione che la oggettivizzazione e la direzione dei poteri previsti come ufficiosi serva a contestualizzare l’avvenimento probatorio e – così – a modificare la regola di presunzione di ammissibilità della prova in determinate evenienze; tutto ciò chiarisce che la dizione “prevedere che il giudice possa, anche d’ufficio, disporre l’acquisizione di prove rilevanti e decisive ai fini della deliberazione e che, dopo l’assunzione delle stesse, inviti le parti a concludere” di cui al punto in questione è congeniale alla nuova multifunzionalità dell’udienza di conclusione delle indagini e, quindi, all’obiettivo definitorio che la parte si prefigge.
Sicché, l’”ampio” potere si aggancia, contestualmente, alle potenzialità definitorie dell’udienza, ma anche alla eventualità che in questa sede debba anticiparsi la prova per il dibattimento per far fronte alle evenienze dell’incidente probatorio. Epperò, la pluralità di funzioni suggerisce al legislatore delegato di distinguere impulso e modalità dell’atto, essendo evidente che, nell’ultima ipotesi, dovrà farsi ricorso ai vincoli propri dell’incidente probatorio e, quindi, anche in questa sede, a criteri di non rinviabilità della prova. E’ evidente, dunque, che il potere dovrà parametrarsi allo sbocco definitorio che via via si delinea in udienza, in ragione delle spinte e delle controspinte dei suoi protagonisti.
Proprio per rimarcare la coerenza sistematica di questi poteri è opportuno ripetere che il pericolo che in questo modo si evochi il “giudice istruttore” è fondato su una falsa raffigurazione intellettuale di tale soggetto, che ha accompagnato la critica ai poteri ufficiosi del giudice sin dall’entrata in vigore dell’attuale codice (a proposito degli artt. 422 e 507 c.p.p.), soprattutto dopo il potenziamento di tali poteri operato con la legge n. 479 del 1999 (a proposito degli artt. 421-bis, 422, 507, 441 c.p.p.). La raffigurazione è falsa: il giudice era istruttore perché era unico operatore della prova, peraltro raccolta in segreto e con la totale esautorazione della difesa; questa situazione è ben lontana dalle nuove prospettive operative del giudice. E se, dal punto di vista tecnico è predisposto – in delega – il modo di gestione diretta (da parte del giudice) dell’interrogatorio e della prova dichiarativa, ciò risponde ai bisogni di snellezza funzionale dell’udienza; che, però, non sottraggono alle parti il potere di indicare e/o di proporre temi al giudice.
Il punto 66.4 predispone poteri di indirizzo del giudice sulla scelta del rito e/o verso la definizione anticipata, nell’ottica del ruolo “collaborativo” e “solidaristico” che il giudice naturalmente assume in questa fase. Pure qui è indispensabile un chiarimento di natura culturale e di tipo semantico, dal momento che i due aggettivi certamente faranno scalpore, potendo strumentalmente esser letti come immissione del giudice nelle scelte delle parti e, quindi, come pericolosi prodromi di annunciata decisione e/o di prospettive di incompatibilità. Perciò è utile chiarire che essi predispongono niente altro che la “figura” di un “nuovo” giudice che – terzo rispetto all’avvenimento ed imparziale nel giudizio – non sia alieno – nella procedura in corso – da compiti attivi, non di incentivazione della soluzione a lui “gradita”, ma di suggerimento della molteplicità di percorsi operativi per la definizione della vicenda. Un giudice, insomma, che non si “comprometta” quanto al giudizio, né che invada l’ambito di selezione spettante al difensore: un giudice che “ricordi” gli sbocchi definitori e la loro impraticabilità futura non è certo un giudice “incompatibile”, ma, appunto, è chi solidaristicamente propone all’imputato il ventaglio delle scelte che sono di fronte a lui. Non percepire questi segnali di novità è frutto di una cultura che alimenta la diffidenza verso il giudice e/o, contestualmente, si aggrappa ad attuali prassi devianti certamente da evitare in futuro.
I punti 66.5 e 66.6 si interessano delle vicende dell’imputazione, risolvendo anche, in radice, i poteri del giudice in questa materia e rinforzando le garanzie per l’imputato presente e/o assente.
La materia è nota e le vicende che l’hanno riguardata sono state tutte richiamate, anche se in forma sintetica. In particolare, perciò, si sottolineano le novità salienti. Così, nel punto 66.5 la “diversità” del fatto esclude la “unità” dei fatti compiuti in esecuzione del medesimo disegno criminoso. E ciò non solo perché, nella specie, i fatti possono essere autonomi tra di loro, fattualmente e giuridicamente differenti, ma anche per eliminare una pregiudiziale e discrezionale valutazione sulla “medesimezza del disegno” da parte del pubblico ministero. Peraltro, il tema della imputazione è oggetto di naturale e non concorde dibattito, discutendosi ancora circa i profili differenzianti il fatto “diverso” e il fatto “nuovo”, che la giurisprudenza concordemente collega agli elementi del reato con risultati ermeneutici – però – niente affatto tranquillizzanti. Perciò è apparso opportuno, in materia, far ricorso al criterio della “autonomia” del fatto, criterio, peraltro, acquisito dalla Corte costituzionale e che meglio distingue il “fatto processuale” dal “fatto-reato”. In virtù di tale “autonomia”, è apparso indispensabile differenziare il regime processuale del concorso formale di reato da quello materiale, per il quale, tuttavia, il recupero operativo della unità del contesto processuale può essere utilmente adottato sfruttando le modalità contestative del “fatto nuovo”.
Nel punto 66.6, poi, la convinzione che il vizio di imputazione costituisca scorretto esercizio dell’azione penale autorizza il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero. Tuttavia, esigenze di economia processuale e la natura della sede consentono un potere sollecitatorio del giudice al pubblico ministero, che non inficia assolutamente la libertà operativa del magistrato di accusa né riduce le garanzie per l’imputato, a cui favore milita la identità di termini tra vocatio originaria e nuova udienza di discussione, che, perciò, calca la mano sui bisogni selettivi della difesa in ragione della “diversa” contestazione.
I punti 66.7, 66.8, 66.9 e 66.10 contengono le direttive in materia di conclusione dell’udienza e di attività “preparatorie” per il dibattimento. Le novità salienti sono rappresentate: dalla unità della regola di giudizio che potrebbe consentire l’abolizione di formule di proscioglimento incompatibili con la funzione di controllo affidata al g.u.c.i. in via primaria, formule che, peraltro, sono state fonte di equivoci dato il loro contestuale uso in disposizioni di differente funzione e natura (= artt. 129; 425; 530 c.p.p. 1988); dalla clausola di salvaguardia quanto all’applicazione della declaratoria di cause di non punibilità e della pronuncia sulla tenue offensività del fatto, per le quali la richiesta dell’una e/o dell’altra parte risulta necessaria per conferire al giudice poteri di merito e successiva inappellabilità della parte che ne ha fatto richiesta; dai limiti alla ricorribilità della sentenza emessa in caso di appello del pubblico ministero, essendo la doppia pronuncia sufficientemente garantista quanto alla pretesa punitiva dello Stato; dall’accordo sulla formazione del fascicolo, che, potendo riguardare anche temi non controversi, elimina il bisogno di una successiva udienza di preparazione del dibattimento; dall’obbligo di ordinare la trascrizione – mediante procedimento garantito – delle conversazioni e dei flussi telematici captati se l’opera non è stata compiuta in precedenza, proprio per evitare che essa possa complicare o ritardare il corso del dibattimento. Quanto ai poteri di definizione anticipata, la diversa numerazione (n. 67) ne esalta la novità sistematica e la problematicità politica.

20. le implicazioni decisorie: applicazione di pena concordata e condanna su richiesta
Il punto di crisi nella struttura normativa attuale dell’istituto del patteggiamento è costituito dall’assenza di un pieno accertamento di responsabilità, che impedisce l’assimilazione ad una ordinaria sentenza di condanna della sentenza patteggiata, che, pure applica, o meglio, secondo la formulazione ultima dovuta alla novella codicistica del cd. patteggiamento allargato, irroga una pena, in misura anche consistente.
Su questo connotato, ed in particolare sulla sua compatibilità con l’applicazione di una pena, si sono a lungo interrogati sia la dottrina che la giurisprudenza, costituzionale e di legittimità.
Sin dalla sentenza n. 313 del 1990 della Corte costituzionale, che riconobbe al giudice un sindacato forte sulla congruità della pena, emerse il difficile rapporto tra il potere dispositivo delle parti ed il potere di accertamento del fatto e della responsabilità del giudice, da esercitarsi in posizione di autonomia e con soggezione soltanto alla legge. Disse allora la Corte costituzionale che il potere delle parti non comprime quello del giudice, ma realizza una forma di collaborazione ad una rapida affermazione della giustizia, perché all’interno di un sistema a tendenza accusatoria i due poteri, delle parti e del giudice, possono collegarsi in vista di una più celere definizione del procedimento. Condizione per il riconoscimento della costituzionalità dell’istituto fu l’assenza di limiti invalicabili derivanti dalla volontà delle parti, che interferissero con l’esplicarsi della funzione giurisdizionale, e si ritenne sufficiente che il giudice avesse il potere ed il dovere di accertare l’assenza di elementi per un proscioglimento allo stato degli atti, e di valutare la correttezza della qualificazione giuridica, la sussistenza di circostanze attenuanti e la correttezza di criteri utilizzati nella prospettazione di un giudizio di bilanciamento con circostanze aggravanti, e quindi la congruità della pena da applicare.
Ma i quesiti e le tensioni sulla natura della sentenza di patteggiamento e sul suo contenuto di accertamento non si sopirono e attraversarono, da allora e per molti anni, la giurisprudenza di legittimità ed anche delle Sezioni unite, che, solo da ultimo, con la sentenza n. 23 del 29 novembre 2005, Diop, hanno preferito accantonare il problema, di difficile soluzione, per valorizzare esclusivamente il dato normativo della relazione di equiparazione alla sentenza di condanna, ritenendo così di stretta interpretazione le previsioni di deroga agli effetti propri delle sentenze di condanna.
Quest’ultimo approdo interpretativo, pur efficace nella soluzione di non poche questioni applicative, non è però in grado di tacitare i dubbi circa la compatibilità costituzionale di una condanna «senza giudizio», che in dottrina si sono posti con insistenza, specie in contrapposizione critica con la giurisprudenza che ha affermato l’assenza di un accertamento di responsabilità.
E le perplessità d’ordine costituzionale sono state acuite dalla novella del 2003 in tema di cd. patteggiamento allargato, che, pur mantenendo la regola di equiparazione alla sentenza di condanna e la regola di valutazione delineata con il riferimento all’art. 129 c.p.p., ha elevato a cinque anni di pena detentiva il limite massimo di pena patteggiabile, ed ha collegato alla sentenza effetti tipici delle ordinarie sentenze di condanna, quali il pagamento delle spese del procedimento, l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza anche oltre la eccezionale previsione della confisca c.d. obbligatoria.
Un limite di pena detentiva così elevato rende stridente il contrasto con la premessa di un accertamento di minore intensità rispetto a quello che, nel giudizio, giustifica l’irrogazione di pene di pari contenuto afflittivo. Una contraddizione questa difficilmente sanabile, per quanto si ragioni sul fondamento negoziale dell’istituto, tentando di estenderne quanto più possibile la portata giustificatrice sul piano della compatibilità costituzionale. La Commissione si è fatta carico del problema, ed ha inteso apprestare una soluzione, che, da un lato, faccia conservare le potenzialità deflattive del meccanismo premiale, e, dall’altro, sciolga o quanto meno riduca le indicate contraddizioni.
La strada forse di maggior coerenza, una volta accettate queste brevi considerazioni di premessa, avrebbe condotto all’eliminazione del patteggiamento, ma la Commissione ha preferito mantenere un istituto, che, benché discusso e problematico, ha comunque superato numerosi vagli di costituzionalità, ed è espressione di un valore da preservare, nella misura in cui attesta l’importanza riconosciuta dalla legge al consenso delle parti, alle loro intese negoziali nella gestione del processo.
Il patteggiamento tradizionalmente inteso, nella forma dell’accordo dell’imputato e del pubblico ministero sulla pena, è stato restituito ai limiti originariamente previsti dall’attuale codice di rito. Ha prevalso l’idea che l’accertamento incompleto di responsabilità può, con minore difficoltà, coniugarsi all’applicazione di una pena detentiva, che, non superiore ai due anni, è contenuta nell’ambito di operatività della sospensione condizionale della pena, e quindi è destinata nella generalità dei casi a non essere eseguita.
Movendo dal presupposto dell’accertamento incompleto di responsabilità, si è ribadito che la sentenza di patteggiamento non appartiene al novero delle sentenze di condanna, ma ad esse è soltanto equiparata: se ne evidenziano così meglio le peculiarità, e si dà una chiara indicazione di disciplina per tutti quegli effetti che non sono oggetto di un’espressa regolazione, facendo però salva la possibilità che leggi speciali possano articolare in modo diverso il rapporto tra le due categorie di sentenze.
L’accoglimento dell’accordo delle parti, che è comunque subordinato alle valutazioni del giudice in punto di corretta qualificazione dei fatti e di congruità della pena, oltre che, come già detto, dell’assenza delle condizioni per l’immediato proscioglimento, comporta un ampio ventaglio di effetti premiali, primo fra tutti la riduzione secca di 1/3, che incrementa il beneficio rispetto alla previsione del codice del 1988 di una riduzione “fino a un terzo”. L’accordo delle parti può avere ad oggetto, sempre nell’ottica di un rafforzamento della risposta premiale, l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione, in modo da agevolare la conclusione di soluzioni negoziate del processo come alternativa all’epilogo repressivo di tipo carcerario.
L’estensione dell’oggetto dell’accordo delle parti sino a comprendere l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione avrebbe potuto suggerire di elevare la soglia della pena detentiva ai tre anni, in modo da rafforzare l’efficacia deflattiva dell’istituto in coerenza con le attuali previsioni di ordinamento penitenziario circa i limiti di pena per l’ammissione, in via ordinaria, all’affidamento in prova al servizio sociale. L’opzione, pur plausibile, non è stata però coltivata, perché la Commissione ha ritenuto meritevole di maggiore considerazione l’esigenza di contenere l’ambito operativo del patteggiamento in ragione delle peculiarità appena sopra evidenziate, che hanno sconsigliato di ricercare un diverso punto di equilibrio tra bisogni di deflazione del carico processuale e pienezza dell’accertamento giudiziale. Va poi chiarito che l’inclusione delle misure alternative alla detenzione nel ventaglio degli effetti premiali dell’accordo non significa che il giudice della cognizione debba essere onerato di compiti valutativi propri, nel sistema attuale, della magistratura di sorveglianza. Il riferimento alle misure alternative alla detenzione, che peraltro tiene conto del probabile futuro riassetto dell’intero sistema sanzionatorio con l’elevazione al rango di pene principali anche di alcune delle attuali misure alternative, risponde soltanto al fine di accrescere l’efficace premiale della scelta concordata, fine che può essere perseguito dal legislatore senza i condizionamenti dell’attuale disciplina. Nulla vieta al legislatore di creare un altro modello di pena peraltro, come già detto, nella direzione di un progetto ben più ampio di revisione del sistema sanzionatorio, e di mutuarne la struttura da istituti aventi oggi altra fisionomia e funzione. Da quest’osservazione discende che l’applicazione della misura alternativa non potrà essere subordinata alle condizioni che oggi ne giustificano la concessione e che non dovrà aversi riguardo alla disciplina che attualmente regola il controllo, anche ai fini di una revoca, delle prescrizioni imposte. Il riferimento non potrà che essere, per valutarne la concreta applicabilità, alle regole proprie dell’istituto del patteggiamento.
Non si ha, poi, la condanna alle spese del procedimento, né la delibazione sulla domanda restitutoria o risarcitoria della parte civile, – se pure, in ossequio alla pronuncia della Corte cost. n. 443 del 1990, si mantiene la previsione della condanna alle spese di costituzione della parte civile –; né ancora l’applicazione di pene accessorie o di misure di sicurezza, fatta salva l’ipotesi della confisca obbligatoria. La sentenza di patteggiamento non ha poi alcun effetto vincolante per l’accertamento nei giudizi civili, amministrativi e nei procedimenti disciplinari, nei quali il fatto rilevante dovrà essere ricostruito autonomamente senza poter contare sulle scarne affermazioni di una sentenza, che per le sue peculiarità è bene che non abbia altra funzione se non quella di definire esclusivamente la vicenda processuale nella quale si inserisce. Su quest’ultimo punto il dibattito in Commissione ha registrato anche opinioni dissenzienti, che hanno ritenuto eccessiva la risposta premiale, a fronte di esigenze pressanti di una rapida ed efficace reazione disciplinare per tutti quei casi in cui l’illecito disciplinare ha come nucleo lo stesso fatto dell’illecito penale, il cui accertamento, allo stato della normazione, comporta spesso l’inibizione forzata, per un tempo a volte anche lungo, dell’iniziativa disciplinare. Il dissenso ha infine ceduto alla considerazione che la soluzione del paventato difetto di funzionamento va ricercata con interventi normativi su altro terreno e non con l’attribuzione di effetti vincolanti ad una decisione penale, che per struttura non si fonda sull’accertamento pieno del fatto.
Si prevede, infine, come nell’attuale sistema normativo, che alla pronuncia di patteggiamento segua l’estinzione del reato, se nei successivi cinque anni l’imputato non commette un reato della stessa indole; nulla si è specificato per il caso di commissione di un reato contravvenzionale, posto che la Commissione per la riforma del codice penale, presieduta dall’on. avv. Pisapia, sta ragionando sull’abolizione della distinzione tra delitto e contravvenzione.
Ed, infine, in conformità ancora una volta con il modello attualmente vigente, si è previsto che, ove la richiesta sia stata rigettata per incongruità della pena, il giudice del merito possa recuperare l’applicazione della diminuente all’esito del giudizio, se si riveli la congruità della richiesta.
Accanto a questo meccanismo, già sufficientemente sperimentato, la Commissione, utilizzando in funzione deflattiva del dibattimento la premialità sulla pena, ha costruito, sugli ampi poteri decisori del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini e sull’apporto del consenso dell’imputato, un epilogo di assoluta novità rispetto al sistema normativo attuale, e che ha un addentellato in un disegno di legge governativo della XIII Legislatura, presentato il 15 gennaio 1997 alla Camera dei deputati, n. 2968/C, e poi assorbito, unitamente a molti altri, in un testo coordinato che, approvato, è divenuto la legge n. 479 del 1999.
In quel disegno di legge si delineava, accanto alla figura del patteggiamento come applicazione della pena su richiesta delle parti, l’istituto della condanna a pena concordata, per le richieste di pena superiore ai due anni di reclusione e comunque non oltre il limite dei tre anni di pena. Con alcune esclusioni oggettive, per reati di particolare gravità e pericolosità, si prevedeva che l’imputato, con l’accordo del pubblico ministero, potesse chiedere l’applicazione di una pena con la diminuzione fino ad un terzo, eventualmente dichiarandosi pronto ad ammettere personalmente in udienza i fatti contestati, in modo da integrare un materiale di indagine segnato da insufficienze o contraddizioni. La sentenza di applicazione di pena era una sentenza di condanna, con tutti gli effetti propri delle sentenze di condanna, perché il giudice era chiamato ad una valutazione piena del materiale informativo ed all’applicazione di pena solo se quel materiale fosse tale da giustificare l’affermazione di responsabilità Rispetto a quel modello, il meccanismo disegnato dalla Commissione presenta analogie forti, ma anche sostanziali diversità, dal momento che si prevede che il giudice pronunci una vera e propria sentenza di condanna, con un significativo ampliamento della risposta premiale, ma non si condiziona la richiesta dell’imputato al consenso del pubblico ministero, non si prevedono esclusioni oggettive per categorie di reati, e soprattutto non si rafforza in alcun modo il legame tra la richiesta ed un’eventuale confessione dell’imputato.
Al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini è attribuito il potere di emanare una vera e propria sentenza di condanna, caratterizzata dal pieno accertamento della responsabilità dell’imputato, per il caso in cui questi faccia richiesta dell’immediata pronuncia.
L’imputato può avanzare la richiesta soltanto in sede di discussione finale, e quindi dopo che il pubblico ministero ha rassegnato le sue conclusioni. Si consente così che l’udienza abbia il suo fisiologico svolgimento e si evita che le attività anche di tipo istruttorio possano essere condizionate dalla prospettiva di una definizione con affermazione di responsabilità. Questa collocazione temporale della richiesta persegue poi il duplice obiettivo di porre l’imputato nelle migliori condizioni, per completezza di conoscenze processuali, di valutare la convenienza di una scelta indubbiamente grave, quale è quella della sollecitazione di una condanna, e di scongiurare la tentazione di utilizzazione anomala del potere di richiesta, per interrompere eventuali attività istruttorie.
L’interesse dell’imputato alla sollecitazione del potere giudiziale di condanna può, infatti, essere in concreto apprezzato nel perseguimento del consistente beneficio della riduzione di pena detentiva – di 1/2 per i reati di minore gravità e di 1/3 per i reati più gravi –, e dell’interruzione del processo, il cui svolgimento è in molti casi un’afflizione aggiuntiva.
Rispetto alla richiesta di giudizio abbreviato, che ha in più l’indubbio vantaggio di non pregiudicare l’esito assolutorio e di consentire l’esercizio di attività istruttoria finalizzata al proscioglimento, la richiesta di condanna con riduzione di pena, oltre ad offrire un maggiore beneficio in termini di riduzione di pena almeno per un consistente numero di reati, dà all’imputato la possibilità di vincolare il giudice, che si determini all’accoglimento della richiesta, alla pena nella misura indicata, fatto salvo ovviamente il filtro del giudizio di congruità, necessario perché al giudice è inibito l’esercizio del potere di autonoma commisurazione della pena.
La forte riduzione prevista per i reati meno gravi ha però fatto ritenere opportuno che la pena finale richiesta dall’imputato non possa comunque essere superiore ad un limite predeterminato, in modo da evitare eccessi di premialità a discapito delle esigenze di prevenzione generale e speciale.
La Commissione ha ritenuto opportuno affidare alla volontà politica la fissazione del limite massimo di pena irrogabile su richiesta dell’imputato, e la definizione del parametro di individuazione della diminuente da applicare, potendosi fare riferimento sia alle previsioni di pena edittale, nel suo limite massimo, che alla pena in concreto determinata e che si ritiene congrua in relazione a quello specifico fatto imputato. La Commissione non ha trascurato che, assumendo come base di riferimento la previsione del limite massimo di pena edittale, si potrà avere, almeno se non muterà il contesto normativo oggi caratterizzato da previsioni di pena, per alcuni reati, con una forbice molto ampia tra i limiti edittali, la sovrapposizione in concreto dell’ambito di operatività di questo meccanismo di definizione del procedimento con quello del patteggiamento infrabiennale. Ha però ritenuto che la sovrapposizione non sia di per sé un segnale di disarmonia sistematica con effetti inevitabilmente negativi di funzionamento degli istituti, potendo rivelarsi in concreto utile, ad esempio, che l’imputato possa sollecitare i poteri giudiziali di decisione in prospettiva della condanna, per l’eventualità che il pubblico ministero gli neghi il consenso alla richiesta concordata di pena.
Il risultato che si è inteso perseguire è evidente: una pena detentiva di misura consistente, che con ogni probabilità dovrà essere eseguita, è in questo modo la conseguenza di una verifica ex actis dell’esistenza delle condizioni, che ordinariamente, secondo i criteri di valutazione e di giudizio delle pronunce di accertamento nel merito della fondatezza dell’imputazione, conducono alla condanna.
Ciò implica che, per accogliere la richiesta, il giudice deve disporre di elementi di prova completi, univoci, sufficienti alla formulazione del giudizio di condanna. Negli altri casi, da quello estremo della prova negativa di colpevolezza, a quello della prova insufficiente e della prova contraddittoria, il giudice deve rigettare la richiesta. Al rigetto della richiesta, quale che sia la causa, e quindi sia per incongruità della pena indicata che per insufficienza del materiale probatorio in atti, segue la valutazione della richiesta di rinvio a giudizio che torna ad essere l’oggetto decisorio principale.
Non è quindi preclusa la possibilità che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere, facendo uso delle regole di valutazione e di giudizio proprie della fase dell’udienza di conclusione delle indagini, perché la richiesta di condanna con riduzione di pena non si arricchisce di un significato confessorio, che in qualche modo possa limitare ed orientare la valutazione giudiziale verso esiti obbligati.
L’imputato ha però la possibilità di evitare l’eventuale giudizio dibattimentale, avanzando richiesta di giudizio abbreviato, per assicurarsi comunque un vantaggio in termini di premialità sulla pena dopo aver operato una scelta processuale particolarmente impegnativa, quale è quella di fare richiesta di condanna.
Se la richiesta è rigettata per l’incongruità della pena, è fatto comunque salvo il potere del giudice del dibattimento di recuperare, al momento della condanna, l’applicazione della diminuente richiesta, ove, ex post, si riveli congrua. Tale potere non è stato attribuito al giudice dell’eventuale giudizio abbreviato, per la semplice ragione che la scelta del rito abbreviato già di per sé comporta un effetto premiale sulla pena per l’eventualità di una condanna.
Occorre poi evitare, nel caso di rigetto della richiesta per incongruità della pena, che si proietti sul giudizio il peso di un implicito riconoscimento di colpevolezza, nelle forme di un pre-giudizio in grado di contaminare il corretto svolgimento dell’accertamento. La Commissione ha ritenuto sufficiente a tal fine che, fermo restando l’obbligo per il giudice di una motivazione succinta dell’ordinanza di rigetto per incongruità della pena, essa non vada a comporre il fascicolo per il dibattimento, ma sia messa a disposizione della difesa dell’imputato, la cui richiesta è stata rigettata, rimettendo alle sue scelte strategiche la decisione circa l’esibizione al giudice del dibattimento, conclusa la fase istruttoria, per giustificare, per il caso di condanna, la richiesta di applicazione della diminuente di pena.
Il rigetto della richiesta non è però una soluzione obbligata per tutti i casi di incongruità della pena, e cioè della pena quantificata alla luce di tutti gli elementi di giudizio e non ancora ridotta nella misura di legge: se, infatti, l’incongruità è per eccesso, perché l’imputato chiede la condanna indicando una pena, su cui poi applicare la diminuente, superiore a quella che sembra al giudice più adeguata e giusta, questi può accogliere la richiesta, provvedendo al contempo alla rideterminazione della pena in senso più favorevole e quindi irrogando una pena finale, dopo l’applicazione della riduzione, inferiore a quella oggetto della richiesta.
Al rigetto della richiesta per incongruità della pena, ovviamente incongruità per difetto, si è ritenuto opportuno riservare all’imputato la possibilità di reiterare, per una sola volta, la richiesta con una nuova indicazione di pena. Dalla pur concisa motivazione del provvedimento di rigetto l’imputato può, infatti, aver modo di comprendere le ragioni del giudizio di incongruità, e conseguentemente scegliere se proporre una nuova richiesta, questa volta con maggiori probabilità di accoglimento.
Il meccanismo così delineato, da un lato, evidenzia la necessità che i rapporti tra imputato richiedente e giudice siano formalizzati e scanditi dal compimento di atti tipici, onde scongiurare il rischio di prassi volte a legittimare forme di negoziazione della pena con il coinvolgimento del giudice; dall’altro, evita che l’assenza di un dialogo tra giudice ed imputato costringa quest’ultimo ad ardue, e fors’anche casuali, previsioni di quale possa essere la misura di pena adeguata.
Si consideri, poi, che la richiesta di condanna con riduzione di pena, sostanziandosi nella sollecitazione dei poteri di valutazione del giudice, il cui esercizio prescinde da un accordo delle parti perché non si conforma in maniera diversa rispetto al modello ordinario di giudizio, non ha nell’eventuale dissenso del pubblico ministero un impedimento alla sua delibazione.
Il pubblico ministero è chiamato ad esprimere un parere sulla richiesta, di natura obbligatoria ed ovviamente non vincolante che si estende anche al profilo di congruità della pena richiesta, ma non può interdire l’attivazione dei poteri di cognizione e di decisione del giudice, dal momento che l’imputato rinuncia alla contesa, pur non impegnandosi nella condivisione implicita della fondatezza dell’imputazione, nei termini di un atteggiamento inequivocamente confessorio. L’assenza di un potere d’interdizione del pubblico ministero non può essere inteso come alterazione della tendenziale posizione di parità delle parti; il fatto che all’imputato sia consentito di chiamare il giudice ad una pronuncia sul merito della vicenda non implica che lo stesso potere, almeno nella proiezione speculare dello strumento interdittivo, debba spettare al pubblico ministero. L’imputato, infatti, sollecita i poteri decisori del giudice nell’unica prospettiva della pronuncia di una condanna che, al di là del quantum di pena irrogata, è inequivoco riconoscimento della pretesa punitiva. L’assenza di limiti alla cognizione del giudice e la secca alternativa “accoglimento della domanda di condanna – prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie” sono poi le condizioni che rendono del tutto ragionevole che il pubblico ministero non debba concordare la richiesta, perché nell’un caso si realizza, sia pure per il tramite della richiesta dell’imputato, il fine proprio dell’esercizio dell’azione penale concretamente intesa, e cioè una pronuncia sul merito dell’imputazione che ne riconosca la fondatezza, e nell’altro si esclude ogni effetto che possa limitare o in qualche modo influenzare in senso contrario alle ragioni dell’accusa l’ordinario percorso di accertamento del fatto imputato.
La bozza di delega, inoltre, non contiene consapevolmente direttive per disciplinare il caso della eventuale presenza nel processo in cui si innesta la richiesta di condanna a pena ridotta della parte civile. Il silenzio sul punto, infatti, non costituisce un ostacolo per la definizione in sede di decreto legislativo di una disciplina che sciolga l’alternativa tra il riconoscimento del potere-dovere del giudice di pronunciarsi, accogliendo la richiesta, sulla pretesa risarcitoria e/o restitutoria e la trasposizione immediata in sede civile della domanda della parte civile, che, anche per quel che attiene alla speditezza dell’accertamento, può giovarsi nella sede che più le è propria degli effetti vincolanti extrapenali della pronuncia di condanna sollecitata dall’imputato.
L’eventuale pronuncia di condanna non è poi soggetta ad appello.
La limitazione per l’imputato è agevolmente giustificabile: il fatto che abbia richiesto la condanna rende irragionevole ipotizzare che possa dolersi di quanto è stato deciso in conformità.
Nella prospettiva dell’accusa, la limitazione dell’appello si spiega considerando che l’accoglimento della richiesta dà soddisfacimento alla pretesa punitiva, quali che siano le valutazioni in termini di adeguatezza della risposta sanzionatoria.
L’interesse alla deflazione processuale ben giustifica la limitazione dell’appello del pubblico ministero volto alla riforma della condanna in punto di quantum di pena inflitta. Del resto, limitazioni all’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna sono previste in via ordinaria. La direttiva 92.2. della presente bozza di delega prescrive che il pubblico ministero possa proporre appello contro le sentenze di condanna «soltanto nei casi di modificazione del titolo del reato, di esclusione di una circostanza aggravante per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o ad effetto speciale, di applicazione di una pena, di una misura di sicurezza o di una sanzione amministrativa illegali, di omessa applicazione di una pena, di una misura di sicurezza o di una sanzione amministrativa obbligatorie».
In piena corrispondenza con le previsioni d’ordine generale sul potere d’appello del pubblico ministero si è allora previsto che questi possa proporre appello avverso la sentenza di condanna che abbia, in conformità alla richiesta dell’imputato, modificato il titolo del reato. Parimenti, sarebbe irragionevole negare il diritto di appello del pubblico ministero nel caso di applicazione di una pena illegale o di esclusione di una circostanza aggravante per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa o ad effetto speciale.
Anche il ricorso per cassazione patisce dei limiti, direttamente funzionali al soddisfacimento dell’esigenza deflattiva. È sembrato opportuno limitare l’esperibilità dell’impugnazione, ai casi di applicazione di una pena illegale ed a quelli in cui si denuncia la mancanza o la non corretta espressione del consenso dell’imputato alla pronuncia di condanna, o, ancora, si riscontra una difformità tra pena inflitta e pena richiesta.
Per quanto concerne l’impugnazione per revisione, il trattamento riservato alla sentenza di condanna su richiesta non patisce alcuna differenza rispetto alla disciplina predisposta per le ordinarie sentenze di condanna, sul presupposto che in entrambe al giudice è richiesto un pari impegno nella valutazione ricostruttiva degli elementi di responsabilità.
Per le sentenze di patteggiamento, invece, si è disposto che non sono soggette a revisione per contrasto con quanto accertato in sentenze di condanna, dal momento che in esse manca un pieno accertamento che possa essere utilmente comparato; e che non sono soggette a revisione sulla base di prove conosciute o conoscibili al momento della pronuncia, perché con la scelta del patteggiamento l’imputato ha inequivocamente rinunciato a far valere le prove preesistenti. Ragioni di equità potrebbero indurre alla soluzione dell’ammissibilità della revisione per inconciliabilità con i fatti posti a fondamento di una sentenza penale irrevocabile che si sia pronuncia all’esito di un ordinario giudizio sullo stesso fatto-reato in riguardo alla posizione di alcuni concorrenti. Si pensi ad un reato in concorso di rissa: solo per uno dei concorrenti necessari il processo è definito con sentenza di patteggiamento e per gli altri prosegue nelle forme ordinarie. All’esito, la sentenza accerta l’insussistenza del fatto-reato. Il contrasto di questa sentenza con la sentenza di patteggiamento, che invece il fatto-reato ha ritenuto esistente sia pure sulla base di un accertamento non pieno, potrebbe essere risolto dal giudizio di revisione, ma a questa soluzione, che pure suggestivamente appare conforme a giustizia, si oppone una considerazione che la Commissione ha maggiormente valorizzato. Con la richiesta di applicazione di pena concordata l’imputato rinuncia al giudizio nelle forme ordinarie, non ammette la sussistenza del fatto, o meglio non contribuisce con la sua richiesta all’accertamento del fatto e accetta il rischio che la verifica giudiziale della fondatezza dell’imputazione, proprio perché condotta secondo il criterio dell’accertamento incompleto, non pieno, possa giungere ad un risultato diverso da quello che si avrebbe o si potrebbe avere facendo proseguire il giudizio nelle forme ordinarie. Quest’aspetto di rischio, se così può essere definito, inerisce alla struttura negoziale dell’accordo e non sarebbe coerente con le linee generali del sistema consentire una tutela finale da esso, predisponendo lo strumento della revisione che per di più potrebbe o dovrebbe operare per i soli casi di reato concorsuale che abbiano visto taluno dei concorrenti preferire il giudizio ordinario ad una definizione patteggiata della vicenda, accolta invece da talaltro dei concorrenti in quello stesso reato 

21. I giudizi: il dibattimento
Il punto fermo nella formulazione delle direttive della delega concernenti il dibattimento è rappresentato dall’intangibilità delle opzioni di fondo cui era approdato il codice del 1988, frutto dell’elaborazione più che ventennale della riforma (a partire almeno dai lavori preparatori della legge delega del 1974). Non sarebbe accettabile rimettere in discussione il sistema accusatorio, con i corollari che ne derivano quanto alla separazione delle fasi, alla centralità del dibattimento, all’oralità e all’immediatezza: tenuto conto, in particolare, dei principi che oggi sono espressamente proclamati dalla Costituzione, fra i quali spiccano la parità delle parti e il contraddittorio nella formazione della prova, oltre alle specifiche garanzie dell’accusato con riguardo all’esame di chi rende dichiarazioni a suo carico. La scelta di metodo realizzata nel 1988 non può che essere ribadita, nonostante le difficoltà che ha dovuto incontrare per affermarsi nella prassi e nella cultura giuridica, difficoltà testimoniate dalle note vicende del primo decennio di vigenza del codice. Attualmente la scelta accusatoria sembra infatti la più congrua anche in relazione alle direttive costituzionali: si può anzi sostenere che tale metodo sia stato ormai comunemente accettato, in linea di principio, e si tratta solo di evitare che una prassi poco rigorosa finisca con lo svuotarlo.
Occorre però domandarsi se la struttura del dibattimento del processo accusatorio, certamente costoso in termini di tempo e di risorse necessarie, non rappresenti, in pratica, un ostacolo all’obiettivo principale che va perseguito e che è oggetto del mandato conferito alla Commissione: trovare il corretto equilibrio fra “giusto processo” e “ragionevole durata del processo”. In proposito, anche se può sembrare scontato, vale la pena evidenziare che in realtà i due termini non sono necessariamente in antitesi, poiché da un lato la ragionevole durata rappresenta una condizione essenziale per la realizzazione del giusto processo; dall’altro non sono le garanzie del giusto processo come tali, e in particolare la tutela del contraddittorio, che impediscono una rapida conclusione del giudizio. E comunque i menzionati valori non possono trovare un bilanciamento sullo stesso piano, perché gli interessi che ne costituiscono il fondamento non sono omogenei né equivalenti: tanto per fare un esempio, non esistono esigenze di celerità che possano realizzarsi a scapito dei diritti fondamentali (come ha spesso affermato anche la Corte costituzionale).
Posto che la stella polare di qualsiasi intervento riformatore in tema di dibattimento penale non può che essere il principio del contraddittorio nella formazione della prova, non restava che concentrarsi su quegli aggiustamenti e su quelle modifiche che, senza snaturare il sistema né pregiudicare i diritti dell’imputato, consentissero di ottenere una maggiore semplificazione ed accelerazione, e dunque un guadagno in termini di funzionalità e di efficienza.
Esclusa perciò la necessità di una riforma strutturale della fase, si è scelto di intervenire a diversi livelli. In primo luogo, con modifiche nell’organizzazione del procedimento, coerenti col modello vigente, volte ad eliminare tempi morti ed attività inutili; in secondo luogo, mediante la correzione delle norme contraddittorie, ambigue o di difficile interpretazione, ovvero fonte di prassi giurisprudenziali devianti, mirando anche ad un migliore coordinamento sistematico; astenendosi, comunque, dall’inseguire mere opzioni dogmatiche o terminologiche.
Contemporaneamente, si è reso necessario prevedere l’adeguamento alla giurisprudenza della Corte costituzionale, nonché alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea.
La novità più rilevante nella nuova disciplina del dibattimento è l’abolizione del giudizio in contumacia, almeno nella forma finora conosciuta. L’attuale giudizio in contumacia crea numerosi problemi pratici e comporta un grande dispendio di attività destinate il più delle volte ad essere compiute inutilmente, perché comunque l’eventuale sentenza di condanna non può essere eseguita, mentre lo Stato non ha un reale interesse all’accertamento della responsabilità. La contumacia non è prevista nei principali paesi europei (ad eccezione della Francia) e neppure davanti ai tribunali internazionali; fra l’altro, com’è noto, il sistema vigente ha procurato e continua a procurare numerosi problemi all’Italia in sede europea. Va inoltre considerato che la contumacia sarebbe tendenzialmente incompatibile con il sistema accusatorio, nel quale, in coerenza con la posizione attiva riconosciuta all’imputato, gli si impone l’onere di partecipare al processo.
L’idea di fondo, dunque, è la previsione che il processo resti sospeso fino a quando non sia possibile ottenere, se non la comparizione personale dell’imputato, almeno la certezza che la sua mancata partecipazione sia volontaria e consapevole. E’ stata deliberatamente scartata la possibile soluzione alternativa, praticata in altri paesi, di imporre all’imputato un vero e proprio obbligo di presentarsi all’udienza, reso effettivo dal potere di imporre una misura coercitiva ad hoc (accompagnamento coattivo o arresto): ciò per non provocare un eccessivo allargamento dell’ambito di applicabilità delle restrizioni della libertà personale prima del giudizio, specialmente per i reati di minore entità.
Per contro, con riferimento ai reati più gravi, ci si è dovuti far carico della necessità di evitare che la mera irreperibilità dell’imputato potesse essere in grado di paralizzare il processo a tempo indeterminato; e ciò in particolare nei casi in cui sia stata adottata una misura cautelare. La sottrazione alla misura impedirebbe cioè la pronuncia di un’eventuale condanna destinata a diventare irrevocabile, e ad essere messa immediatamente in esecuzione in caso di arresto successivo del condannato: ciò avrebbe evidenti conseguenze negative sulla funzione di prevenzione generale della pena. Un trattamento diverso è stato perciò previsto per l’imputato latitante, al cui comportamento è sembrato corretto collegare la volontà di sottrarsi al giudizio. Una situazione analoga si verifica nei casi – eccezionali – di irreperibilità dell’imputato nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata o terrorismo, quando manchi una misura che funga da presupposto dello stato di latitanza. La gravità dei reati, insieme all’esistenza di una organizzazione criminale in grado di assicurare protezione all’imputato, inducono ugualmente a permettere la celebrazione del processo nei confronti di chi vi si sia deliberatamente sottratto.
La direttiva n. 69, che contempla il caso di mancata comparizione dell’imputato, deve essere letta in collegamento con la direttiva 24 in tema di notificazioni, ove si prevede che di regola la notificazione della citazione contenente la contestazione dell’accusa debba essere effettuata a mani dell’imputato, allo scopo di avere la certezza che lo stesso sia stato posto a conoscenza del procedimento e della natura dell’accusa. Ciò consente di presumere che la mancata comparizione in giudizio sia il risultato di una scelta consapevole, con la conseguenza che il procedimento può proseguire come se l’imputato fosse presente, non diversamente da quanto accade ove egli abbia espressamente rinunziato a comparire (o consentito che il dibattimento si svolga in sua assenza). Naturalmente il rifiuto espresso di ricevere l’atto nelle proprie mani, risultante dalla relazione di notifica, va equiparato al rifiuto di presentarsi in giudizio.
La presunzione di cui si è detto è tuttavia suscettibile di prova contraria: infatti la direttiva n. 69.6 riconosce, all’imputato condannato in assenza, il diritto di ottenere un nuovo giudizio qualora risulti che non abbia avuto effettiva conoscenza del processo. Questa previsione, anche se verosimilmente applicabile solo in casi estremi, tenuto conto che fin tanto che venga rispettata la procedura prevista per le notificazioni l’effettiva conoscenza non dovrebbe mai mancare, rappresenta un’indispensabile norma di chiusura per ottemperare alle ripetute indicazioni in tal senso della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ove non sia stata eseguita la notificazione a mani e l’imputato sia irreperibile, il giudizio non può proseguire e deve essere sospeso fino a quando non sia possibile notificare la citazione. Per evitare che questa garanzia procedurale possa bloccare definitivamente il processo, inducendo strategie volte a paralizzarne lo svolgimento mediante la deliberata irreperibilità al momento della vocatio in iudicium, si prevede che il giudice rinnovi periodicamente l’ordine di notificazione coattiva previsto dalla direttiva n. 24.4, fissando una nuova udienza per la comparizione dell’imputato (direttiva 69.3) e che la sospensione non impedisca il compimento degli atti urgenti e indifferibili, allo scopo di scongiurare la dispersione della prova (direttiva 69.4); in ogni caso è favorita la separazione dei giudizi, per evitare che l’irreperibilità di un solo imputato impedisca la prosecuzione del processo nei confronti di tutti (direttiva 69.5)
Nel caso di imputato latitante, che cioè si sia volontariamente sottratto all’esecuzione di una misura cautelare che limiti la sua libertà di locomozione (e dunque per i soli reati di una certa gravità, per i quali l’applicazione di misure cautelari è consentita), ovvero nel caso di imputato irreperibile per reati di criminalità organizzata o terrorismo, il giudizio può ugualmente svolgersi in sua assenza quando ne risulti accertata la conoscenza effettiva del procedimento (direttiva 70). L’accertamento potrà aver luogo anche su base indiziaria, ma in mancanza il giudizio dovrà essere sospeso come negli altri casi di irreperibilità (direttiva 69.5). Lo stato di latitanza, specie se dichiarato nei confronti di persona avente stabile dimora nel territorio nazionale, è valutabile come manifestazione di volontà di sottrarsi alla conoscenza degli atti del procedimento, con la conseguenza che, ove il giudice ritenga provata tale volontà, le notifiche nei confronti del latitante potranno essere operate con consegna dell’atto al difensore. Lo stesso si può dire per l’irreperibilità, nei casi suddetti. Anche in queste ipotesi, comunque, al condannato è riconosciuto il diritto ad un nuovo giudizio, ma solo ove risulti che la latitanza o l’irreperibilità non era volontaria, cioè non determinata dall’intento di sottrarsi al procedimento (direttiva 70.2); nel nuovo giudizio saranno comunque utilizzabili le prove acquisite di cui sia divenuta impossibile la ripetizione (direttiva 70.3).
Passando alla disciplina generale della fase, a partire dagli atti introduttivi, con la direttiva n. 71 si sono volute disciplinare espressamente le questioni preliminari, che, secondo l’impostazione tradizionale, vanno risolte prima dell’apertura del dibattimento. In particolare è sembrato opportuno prevedere espressamente, nella direttiva n. 71.2, che le questioni suddette non possano essere più messe in discussione successivamente, anche nel caso di cambiamento del giudice o di modifica nella composizione del collegio.
Dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento le parti possono formulare le richieste di prova, previa esposizione dei fatti da provare: viene confermata la disciplina vigente, che è la più coerente col sistema accusatorio (direttiva 72.1). In particolare, si prevede espressamente il contraddittorio sull’ammissione dei documenti (direttiva 72.2) e, a pena di inammissibilità, la cosiddetta discovery anticipata delle prove dichiarative, per consentire alla parte nei cui confronti la prova viene fatta valere di preparare la difesa ed eventualmente di chiedere l’ammissione di prova contraria (direttiva 72.3). La direttiva n. 72.4 rinvia infine ai criteri previsti in via generale nella direttiva 31 per quanto riguarda l’ammissione della prova, che va decisa senza ritardo. I provvedimenti sull’ammissione della prova sono revocabili in contraddittorio (direttiva 73.1). Nell’ottica della semplificazione, per evitare rinvii dell’udienza, viene stabilita la decadenza dalla prova della parte che abbia omesso la citazione dei propri testimoni (direttiva 73.2), risolvendo in maniera netta il problema, attualmente controverso in giurisprudenza, dell’onere di citazione dei testimoni non comparsi: ciò attraverso il richiamo di una disposizione che ha dato buona prova nel procedimento davanti al giudice di pace. Naturalmente la decadenza della parte non esclude che il giudice, avvalendosi dei propri poteri d’ufficio, possa disporre comunque l’assunzione della prova. La decadenza va rilevata nella medesima udienza nella quale non c’è stata la comparizione del testimone, per evitare un contenzioso che si trascini nelle udienze successive.
La direttiva n. 74 definisce le modalità dell’esame diretto e del controesame, secondo le regole, ormai collaudate, previste dalla delega del 1987 e dal codice vigente. Al riguardo, si deve sottolineare la previsione di un’espressa indicazione, oggi mancante, del criterio per determinare la parte che deve condurre l’esame diretto, quando la prova sia stata richiesta da entrambe le parti (direttiva 74.2). Quanto al potere del giudice di disporre d’ufficio l’ammissione di mezzi di prova, già contemplato in via generale alla direttiva 31, la direttiva n. 74.4 precisa che tale potere può essere esercitato solo al termine dell’istruttoria dibattimentale e per mezzi di prova “ulteriori” rispetto a quelli introdotti dalle parti: ciò allo scopo di circoscrivere il più possibile l’intervento del giudice, a tutela della sua terzietà.
Anche il divieto di arresto in udienza del testimone falso o reticente riproduce una direttiva della delega del 1987, intesa a spogliare il giudice del dibattimento di poteri inquisitori e di coercizione sul dichiarante, che potrebbero pregiudicare la sua imparzialità (direttiva 75.1). Resta però l’opportunità di una reazione rapida dell’ordinamento, per cui al pubblico ministero è attribuito il potere di procedere con citazione diretta, ma non prima del deposito della sentenza (direttiva 75.2), dalla quale soltanto, sulla base della valutazione finale della testimonianza effettuata dal giudice, che abbia tenuto conto di tutti i dati probatori e sia stata espressa nella motivazione, può desumersi l’ipotesi di reato.
La direttiva n. 76 disciplina la correlazione tra accusa e sentenza e la modifica dell’imputazione da parte del pubblico ministero. Non ha trovato accoglimento la proposta, avanzata da un commissario, di estendere il principio della correlazione anche alla qualificazione giuridica del fatto. Rispetto alla disciplina vigente, viene esclusa la possibilità di contestare in via suppletiva anche il reato continuato, limitando la contestazione alle circostanze aggravanti e al concorso formale (com’era del resto nella norma originaria del codice, poi modificata, ma solo indirettamente, come conseguenza della riformulazione dell’art. 12 c.p.p. in essa richiamato). E per queste ragioni si reputa di non accogliere la osservazione dell’Ufficio Legislativo del Ministero in data 28 gennaio 2008. La contestazione del reato continuato, dunque, analogamente alla contestazione del fatto nuovo, resta così subordinata al consenso dell’imputato e all’autorizzazione del giudice, autorizzazione della quale sarà compito del legislatore delegato individuare i parametri. Sempre in sede di legislazione delegata sarà necessario tener conto delle sentenze della Corte costituzionale che hanno introdotto la facoltà per l’imputato di chiedere l’applicazione della pena, pur essendo scaduto il termine, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine, o quando la richiesta era stata tempestivamente presentata per l’imputazione originaria; nonché la facoltà di proporre domanda di oblazione.
La direttiva n. 77 affronta il problema del mutamento del giudice nel corso del dibattimento. Il rispetto del principio di immediatezza imporrebbe in ogni caso la riassunzione delle prove orali già acquisite, quando l’esame possa aver luogo e sia stato richiesto anche da una sola delle parti. A questa conclusione, sulla base del codice vigente, è giunta dopo qualche incertezza anche la giurisprudenza, fermi restando i limiti previsti dall’art. 190-bis c.p.p. e la possibilità di lettura delle dichiarazioni rese nel precedente dibattimento ai sensi dell’art. 511 c.p.p. Occorre però considerare che l’obbligo di ripetere l’esame a semplice richiesta si presta ad essere utilizzato a fini dilatori, quando riguardi gli stessi fatti oggetto delle precedenti dichiarazioni e il risultato non sia controverso. E non sembra possibile risolvere il problema soltanto con misure organizzative che minimizzino l’eventualità di modifiche del giudice o della composizione dei collegi nel corso del dibattimento. In Commissione il dibattito sul punto è stato molto intenso e articolato: mentre la maggioranza vedeva come prioritaria l’esigenza di evitare l’uso di tattiche pur legittime ma destinate a prolungare eccessivamente la durata del processo, una minoranza di commissari riteneva che il sistema vigente fosse già troppo sbilanciato nel prevedere deroghe al principio di oralità-immediatezza, e si è dichiarata contraria all’introduzione di nuove eccezioni. Al riguardo va comunque ricordata la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (ancora di recente ribadita nella sent. 10 aprile 2006, Carta c. Italia), secondo cui non c’è violazione dell’art. 6 della CEDU se l’imputato ha avuto un’occasione adeguata e sufficiente di contestare le testimonianze a suo carico.
La direttiva si apre (77.1) con la previsione di quella che dovrebbe essere la regola generale per evitare in radice il verificarsi della situazione sopra descritta: la permanenza nell’ufficio di provenienza, ove possibile, del giudice trasferito o assegnato ad altra funzione, per terminare personalmente la celebrazione dei dibattimenti iniziati. Alcuni commissari hanno criticato la norma, perché di difficile attuazione, da un lato, e, dall’altro, perché esorbitante dai limiti di competenza della Commissione. Tuttavia, il rinvio alle norme di ordinamento giudiziario ha precisamente lo scopo di lasciare la soluzione dei problemi di organizzazione degli uffici alla sede propria, mentre l’affermazione di principio indica una linea tendenziale che induca a favorire l’adozione di provvedimenti strutturali rispetto alla limitazione delle garanzie processuali. Accogliendo un suggerimento della Corte di cassazione, è stato utilizzato il termine generico “permanenza”, che consente di estendere la previsione ad altri possibili provvedimenti oltre all’applicazione del giudice.
Nella direttiva n. 77.2 viene espressamente confermata l’utilizzabilità, a prescindere dalla ripetizione o meno dell’esame, delle dichiarazioni precedentemente rese – in contraddittorio – nel dibattimento, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale.
Si distingue poi a seconda che il mutamento riguardi un solo componente di un collegio giudicante, ovvero più componenti o un giudice monocratico: la distinzione trova conforto nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha avuto occasione di sottolineare come la sostituzione di un solo giudice non rappresenti di per sé una violazione della Convenzione, quando gli altri componenti del collegio hanno assistito all’assunzione di tutte le prove. Nel primo caso, dunque, la direttiva n. 77.3 prevede che la ripetizione dell’esame, su richiesta della parte interessata, sia necessaria solo se riguardante fatti o circostanze diverse, salvo che il giudice non la ritenga altrimenti necessaria; nel secondo caso è sufficiente la richiesta di parte, purché adeguatamente motivata.
Il complesso tema delle letture dibattimentali trova la sua regolamentazione nella direttiva n. 78, nella quale, oltre a riconfermare la disciplina del 1987 che, prima delle note vicissitudini, aveva rappresentato il vero punto di svolta nel senso del processo accusatorio, si è tenuto conto della riforma dell’art. 111 Cost. e delle deroghe in esso previste al principio del contraddittorio nella formazione della prova. Com’era logico, si è mantenuta la classica distinzione tra lettura a fini di acquisizione e lettura a fini di contestazione.
La lettura a fini di acquisizione della prova riguarda in primo luogo gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, come descritti dalle direttive nn. 66.8 e 68.1. Al riguardo va sottolineato che, evitando una concezione per così dire “feticistica” dell’oralità e puntando piuttosto alle garanzie sostanziali, si è da un lato notevolmente ridotto l’obbligo di lettura integrale dei verbali, anche se contenenti dichiarazioni, che di regola nulla aggiunge alla loro acquisizione come prova; dall’altro lato, si è previsto il dovere del giudice di indicare espressamente gli atti, di cui non sia stata data lettura, che intende utilizzare: indicazione che funge da provvedimento acquisitivo, in mancanza del quale l’atto è inutilizzabile anche se appartiene al fascicolo per il dibattimento. La direttiva n. 78.2, pertanto, prevede che, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di dichiarazioni, alla lettura effettiva degli atti, totale o parziale, si proceda solo se assolutamente necessario (la fattispecie include l’ipotesi, oggi espressamente prevista dal codice, del “serio disaccordo” sul loro contenuto); e prevede che la lettura sia di regola sostituita dall’indicazione, che però deve essere espressa e specifica per ciascun atto. Gli atti non letti né indicati sono inutilizzabili, contrariamente a quanto oggi sostiene, in modo troppo tollerante, una discutibile giurisprudenza. La sanzione dell’inutilizzabilità non sembra eccessiva – come si legge in alcuni pareri – trattandosi di una violazione rilevante, in un certo senso equiparabile al travisamento degli atti, mentre l’adempimento richiesto è estremamente semplice. La direttiva n. 78.1 prevede che l’esame orale, una volta che il verbale sia suscettibile di lettura, non sia indefettibile, ma dipenda da una richiesta di parte e da presupposti che spetterà al legislatore delegato definire.
Nella medesima direttiva n. 78.1 si fa riferimento, secondo le indicazioni dell’art. 111 Cost., alla lettura degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero di cui sia sopravvenuta l’irripetibilità: in questo caso il parametro costituzionale viene circoscritto, con l’aggiunta del criterio dell’imprevedibilità, così come previsto dal vigente art. 512 c.p.p. Occorre però considerare che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, le dichiarazioni rese senza il contraddittorio con la difesa non sono sufficienti da sole a fondare una sentenza di condanna, ma possono essere utilizzate solo se non sono determinanti. Di questo si è tenuto conto nella direttiva n. 78.6, che prevede la necessità di riscontri sulla loro attendibilità. Questa previsione in alcuni pareri è stata criticata, ma sembra indispensabile mantenerla per evitare una censura da parte della Corte europea.
Quanto alla lettura a fini di contestazione, e alla possibile utilizzazione come prova delle precedenti dichiarazioni, le direttive nn. 78.4 e 78.5 non si discostano dalla disciplina vigente, che ha ormai raggiunto un assetto abbastanza equilibrato. Il concetto di contestazione non viene definito, ma sembra ovvio che la contestazione debba essere consentita anche in caso di rifiuto di rispondere alle domande. Quanto alla provata condotta illecita che consente l’allegazione al fascicolo per il dibattimento, il legislatore delegato dovrà disciplinare la procedura di accertamento del presupposto. Occorre chiarire, essendo stati avanzati dubbi in proposito, che il puro e semplice silenzio del testimone non è di per sé solo motivo sufficiente per consentire l’utilizzazione come prova delle precedenti dichiarazioni.
La direttiva n. 79 continua a prevedere la motivazione contestuale e la lettura immediata della sentenza nei casi di non particolare complessità, anche se questa possibilità non ha trovato grande riscontro nella pratica. Al di fuori di questo caso, i termini di deposito della sentenza saranno predeterminati dalla legge.
 
22. le altre forme di giudizio: considerazioni preliminari
In premessa va ricordato – ma il tema riguarda anche “le altre forme di giudizio” di cui alle successive direttive – che il difficile rapporto tra efficienza e garanzie – problema centrale della procedura penale di impostazione democratica – è stato riproposto in termini radicali all’indomani della promulgazione della nostra Carta costituzionale e, perciò, messo al centro del dibattimento sulla riforma del codice di procedura penale sin dall’inizio. Invero, se il problema risultava sostanzialmente marginale nel codice del 1930 – ove, a leggere la Relazione, i diritti procedurali erano tutelati dal giudice istruttore-soggetto imparziale, che, quindi, contestualmente assicurava l’efficienza della giurisdizione proprio attraverso l’istruzione rivolta alla raccolta degli elementi ‹‹utili e necessari per la ricerca della verità›› (art. 299 c.p.p. 1930) – esso si è presentato nella sua reale dimensione costituzionale non solo per la filosofia di fondo dello Stato democratico (che ‹‹riconosce i diritti della persona››: art. 2 Cost.), ma perché lo Statuto del 1948 eleva i diritti procedurali a diritti costituzionali, espressamente elencandoli e tessendo una linea di razionalità sistematica – al suo livello – racchiusa nel Preambolo penalistico della Costituzione; che, dunque, li ordina e li eleva a sistema.
Con queste premesse non si poteva non affidare alla struttura del processo – privata del momento efficientista: cioè, dell’istruzione – il tema dell’invenzione di strumenti per il recupero della efficienza della giurisdizione. In verità, all’inizio, questa preoccupazione continuò ad alimentare la “cultura istruttoria”, anche se al termine si aggiungerà l’aggettivo “garantista” per prendere le distanze da un tessuto normativo che inesorabilmente mortificava i diritti dell’individuo nel processo. Epperò si discuteva se essa dovesse essere gestita dal giudice istruttore e/o dal pubblico ministero, fronteggiandosi, nelle diverse tesi, la forza garantistica e triadica, sul primo fronte, e/o, all’inverso, gli embrioni del processo di parte.
Perciò fu la “Bozza Carnelutti” a rimescolare le carte e ad indicare la via alternativa ad una persistente cultura del processo istruttorio di ispirazione napoleonica. Ne è testimonianza l’esame della cultura classica precedente, che, pure quando tracciava la linea di un processo accusatorio, non si spingeva a qualificarlo così, preferendo la falsa locuzione di “processo misto”.
La contestazione del nuovo indirizzo offerto dalla “Bozza” (cfr., ad esempio, gli atti del Convegno di Lecce del 1964), all’inizio frenò l’inarrestabile desiderio di riforma; che, però, riprese vigore – anche per il ricordato contributo demolitorio offerto dalla Corte costituzionale sul codice Rocco – all’inizio degli anni ‘70, quando, con sapiente senso di responsabilità, il Parlamento approvò la legge di delega del 18 aprile 1974 che produsse, a distanza di quattro anni, un Progetto di nuovo codice, di incerta razionalità sistematica e debole proprio sul terreno della efficienza della giurisdizione.
La denuncia di tali limiti è espressa dal ministro Morlino, che firma, nel 1979, una “nuova bozza” di delega, lasciando cadere (= decadere) il Progetto del 1978.
La critica si appuntò, non tanto nella permanenza dell’ibrida figura del giudice istruttore chiamato a selezionare, nell’udienza “di smistamento”, i processi tra giudizio immediato e atti di istruzione; non solo su talune scelte tecniche di dubbia coerenza sistematica (denunciata, ad esempio, nel Convegno di Napoli del 1978); quanto, e particolarmente, sull’abbandono di strade alternative al dibattimento, soprattutto dei “riti differenziati” e delle pratiche premiali che la coeva legislazione dell’emergenza aveva messo in campo per far fronte all’”assalto terroristico”.
Il segnale era chiaro e col tempo fu raccolto, soprattutto su questo secondo fronte, prima dalle leggi del 1981 e poi, sul piano generale, dalla nuova legge delega del 1987; che, dunque, elegge a luogo per la “premialità” la nuova programmata udienza preliminare, affidando ad essa il progetto deflativo.
Contestualmente, se questa assume via via funzioni e reali compiti – di rito (= controllo sull’esercizio dell’azione), di deflazione (= rinforzati soprattutto con la legge del 1993 n. 105 dell’8 aprile) e di merito su richiesta di parte ai fini della celebrazione dei “riti premiali” –, la novità saliente, ai fini dell’efficienza, è rappresentata dalla multischematicità dell’azione, che guida – su specifici presupposti e/o sul consenso delle parti – i “procedimenti speciali”, termine con il quale il codice del 1988 qualificò la moltiplicazione delle procedure, non più secondo la filosofia dell’”anomalia processuale” (così il c.p.p. del 1930), ma secondo i bisogni di efficienza della giurisdizione. Questa filosofia, nelle intenzioni del legislatore, relegava il dibattimento ad evenienza “residuale”, pur se esso rappresentava la “centralità” strutturale del processo accusatorio.
Su questo terreno sono dovute tre annotazioni.
Innanzitutto va rilevata la insicurezza del legislatore che raccoglieva istanze culturali e prospettive innovative mai praticate in precedenza. Di qui dubbi neanche nascosti circa la coerenza “accusatoria” e la incerta validità sul piano operativo; tant’è che le prassi successive hanno registrato difficoltà di accoglienza e “debolezze normative”. L’incertezza traspare dalle poche pagine che la Relazione dedica all’argomento. In essa si legge: ‹‹nel libro VI trovano la loro disciplina quelli che, durante i lavori preparatori della legge delega sono stati spesso indicati come riti “differenziati” e che si è cercato di incrementare il più possibile. E’ diffuso il convincimento che ad essi è affidata in gran parte la possibilità di funzionamento del procedimento ordinario, che prevede meccanismi di formazione della prova particolarmente garantiti, e quindi non suscettibili di applicazione generalizzata, per evidenti ragioni di economia processuale. Soprattutto ai riti abbreviati (titoli I e II) è affidata la funzione di evitare il passaggio alla fase dibattimentale di un gran numero di procedimenti, secondo uno schema di deflazione comune a tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio. Si è efficacemente detto, nel corso della approvazione della legge delega, che il nuovo processo “funzionerà se riusciremo a far pervenire al dibattimento soltanto una parte piccola dei processi” (intervento on. Casini alla Camera dei deputati, Aula 10 luglio 1984)››.
Per dare consistenza a questo nuovo approdo, quel legislatore chiarisce che ‹‹l’esperienza dei paesi anglosassoni insegna che è ritenuto del tutto incongruo e antieconomico prevedere il passaggio alla fase dibattimentale in caso di ammissione da parte dell’imputato delle proprie responsabilità, cioè in situazioni in cui l’unico aspetto controverso può essere la determinazione in concreto della pena. Ove l’imputato rinunci alla celebrazione del dibattimento, deve perciò essere incentivata la sua proposizione ad avvalersi dei riti semplificati. Nei limiti in cui la legge delega ha ritenuto di attribuire rilevanza alle pattuizioni delle parti, delineandogli istituti maggiormente innovativi previsti nella direttiva 45 (applicazione della pena sulla richiesta delle parti) e 53 (giudizio abbreviato), il Progetto ha cercato di costruire una disciplina degli stessi (rispettivamente, nel titolo II, e nel titolo I) che offrisse ampie possibilità di applicazione››. Si costruisce, così, un microsistema che ha i suoi punti di forza nell’”accordo delle parti” e nella – pur non richiesta – “ammissione di responsabilità” da parte dell’imputato nel caso dei “riti incentivati”, che, peraltro si vedrà, si sono dimostrati i punti deboli delle discipline predisposte.
La seconda annotazione riguarda la poco felice nomenclatura del libro VI, che ha prodotto incertezze sistematiche e vizi giudiziali.
Sul primo punto è noto che ancora oggi parte della dottrina qualifica i “riti premiali” come “riti inquisitori”, sul presupposto – conseguente al precedente – che essi non costituivano veri e propri giudizi. Il rilievo vale soprattutto per il “patteggiamento” un po’ a causa della collocazione sistematica, ancor più in ragione della sottovalutazione della clausola di salvaguardia (= regola di comportamento) di cui all’art. 129 c.p.p., peraltro, in tal caso, espressamente richiamato.
Eppure il legislatore – qui senza incertezze – aveva chiarito il senso della formula di testa del libro VI. Si legge, invero, in Relazione, che ‹‹la specialità va vista in relazione al procedimento ordinario per i reati di competenza del tribunale, che si sviluppa nella seguente sequenza : indagini preliminari, udienza preliminare, giudizio di primo grado, impugnazioni (appello e ricorso per cassazione)››. Perciò, ‹‹le deviazioni che nei procedimenti speciali si riscontrano rispetto al modello del procedimento ordinario tendono tutte a semplificare i meccanismi processuali o ad abbreviare la durata del processo mediante forme di definizione anticipata rispetto alle forme del giudizio dibattimentale››, specificando, poi, che ‹‹alcune differenze rispetto al modello ordinario sono collegate ai caratteri oggettivi del processo (evidenza della prova), altre si basano sulla volontà delle parti (è questo il caso del giudizio abbreviato e dell’applicazione della pena su richiesta); il giudizio direttissimo (titolo III) si fonda sull’arresto in flagranza ovvero sull’intervenuta confessione dell’imputato››.
Insomma, qui il legislatore predisponeva riforme di strutture rivolte alla filosofia dell’efficienza. Sennonché – e siamo alla terza annotazione – le vicende successive registrano un sostanziale fallimento dei riti premiali, fino al punto della previsione del c.d. “patteggiamento allargato” (cfr. l. 12 giogno 2003, n. 134) e della radicale modifica del giudizio abbreviato, di cui si dirà diffusamente.
Su altro fronte, poi, non può non registrarsi una prassi di assoluta inutilità del giudizio immediato (raramente praticato) e, all’opposto, il continuo ricorso al giudizio direttissimo soprattutto in leggi speciali post-codicistiche (cfr., ad esempio, legge n. 356 del 7 agosto 1992; n. 377 del 19 ottobre 2001; n. 88 del 24 novembre 2003; n. 162 del 17 agosto 2005) e la utilità deflattiva del decreto penale di condanna.
Queste annotazioni di vario genere suggeriscono oggi il tendenziale abbandono della linea di moltiplicazione delle procedure e di puntare – soprattutto ai fini deflativi – sui poteri decisori del giudice, di cui si è detto nella presentazione dell’udienza di conclusione delle indagini.
Questo recupero di razionalità sistematica, peraltro – che non ignora i presupposti oggettivi e/o soggettivi per la citazione diretta a giudizio anche in chiave di recupero della competenza dell’organo monocratico del tribunale –, e le ragioni di un accorpamento topografico dei procedimenti penali per i minori e innanzi al giudice di pace – manifestata nelle singole parti della Relazione –, consigliano ora di assorbire sotto “le altre forme di giudizio” le “diverse procedure”, per le quali appare inopportuna qualsiasi specificazione nominalistica, volendo perseguire l’intento di trasmettere al legislatore delegato l’idea che si versi – appunto – in giudizi caratterizzati solo da differenti input connessi ora alla volontà della parte (giudizio abbreviato) ora a presupposti di prossimità con la vicenda “soggettiva” dell’imputato (citazione diretta di chi è soggetto a misura cautelare, arrestato e/o fermato) oppure a citazione diretta innanzi al tribunale quale organo monocratico per fatti di non rilevante gravità, secondo direttive che saranno di seguito specificate. In tutte queste ipotesi, però, si prevede che l’imputato possa chiedere di esser chiamato innanzi al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini ai fini della scelta del rito abbreviato e/o per sfruttare le potenzialità premiali di tale giudice, previste, queste, nel punto n. 67.

23. il giudizio abbreviato
La direttiva n. 80 disegna le connotazioni qualificanti di un “nuovo” giudizio abbreviato, anche se largamente tributario del fecondo travaglio giurisprudenziale e legislativo, che ha segnato l’ormai decennale esperienza dell’omonimo rito nell’attuale codice, con il quale era stato per la prima volta introdotto nel nostro ordinamento. In origine, la sua instaurazione dipendeva dalle iniziative dell’imputato, dal necessario consenso del p.m. e dalla valutazione di ammissibilità del giudice dell’udienza preliminare, riguardante la possibilità di definire il processo “allo stato degli atti”. La Corte costituzionale censurò immediatamente (prima con le sentenze nn. 66 e 83 del 1990, poi con la fondamentale sentenza n. 81 del 1991) la situazione di squilibrio tra le parti determinata dalla possibilità per il pubblico ministero di privare l’imputato di un rilevante beneficio sostanziale con un mero atto di volontà immotivato e, quindi, insindacabile. Il rimedio venne ravvisato nella possibilità del giudice del dibattimento di applicare la riduzione di pena ove il veto posto dal p.m. al rito abbreviato, non fosse stato plausibilmente motivato con l’impossibilità di definire il processo alla stato degli atti. Allo stesso meccanismo riparativo, la Corte fece ricorso per il caso in cui a negare ingiustificatamente l’accesso al rito fosse stato il giudice dell’udienza preliminare (sentenza n. 23 del 1992). Ma presto, la stessa Corte costituzionale non potè più eludere il vero nodo di fondo: «l’inaccettabile paradosso» di un pubblico ministero che poteva legittimamente precludere all’imputato l’accesso al rito abbreviato «allegando lacune probatorie da lui stesso determinate» (cfr. sentenza n. 92 del 1992). Pur senza addivenire ad una pronuncia di tipo additivo, attesa la pluralità delle soluzioni ipotizzabili, la Corte sollecitò in quell’occasione, e in seguito a più riprese, il legislatore ad introdurre un meccanismo di integrazione probatoria nel rito de quo. Sino all’insolito monito – peraltro a lungo inascoltato – rivolto al Parlamento con la sentenza n. 442 del 2004, con il quale la stessa Corte si riservava di ricorrere ad interventi pesantemente ablativi, ove non si fosse messa mano ad una «organica e generale riforma del giudizio abbreviato».
La legge n. 479 del 1999, nel dichiarato intento di superare appunto talune congenite anomalie del giudizio abbreviato, ne ha operato una palingenesi, che ha inciso profondamente sulle sue connotazioni qualificanti, recidendo in radice molti dei problemi emersi. Il momento instaurativo del rito, prima incentrato sulla concorde volontà dell’imputato e del pubblico ministero, viene ora affidato all’esclusiva volontà della parte privata, che può essere espressa con una duplice modalità di richiesta (semplice o condizionata ad una integrazione probatoria); il presupposto di ammissione – rappresentato dalla definibilità del processo allo stato degli atti – ha lasciato spazio a meccanismi di integrazione probatoria attivati sia su impulso dell’imputato, sia su iniziativa officiosa del giudice; la integrabilità del materiale probatorio ha indotto a rendere possibile la modifica dell’imputazione e questa ad ammettere la riconversione del rito abbreviato in ordinario su richiesta dell’imputato; le prerogative del pubblico ministero – almeno nella fase iniziale della procedura – si riducono alla facoltà di dedurre prove contrarie rispetto a quelle eventualmente introdotte su iniziativa della controparte.
Anche nell’attuale assetto, tuttavia, resta aperto più di un problema. A cominciare da quello che si pone sin dalla formulazione della richiesta introduttiva del rito, quando l’imputato produce, contestualmente, le risultanze delle proprie indagini difensive. Una prerogativa che allo stato difficilmente gli può essere disconosciuta, ma che solleva – senza gli opportuni meccanismi compensativi – più di una perplessità. Non solo la parte istante darebbe singolarmente il consenso ad essere giudicata sulla base dei propri atti di indagine, ma il pubblico ministero non avrebbe neppure il diritto alla controprova, che la legge gli riconosce soltanto nel caso di abbreviato introdotto da una richiesta condizionata (art. 438 comma 5 c.p.p.). Se per il primo profilo è forse possibile salvare la costituzionalità – ma non la razionalità epistemologica – della norma, appellandosi ad una lettura formalistica dell’art. 111 comma 5 Cost. («la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato»), per il secondo la violazione del principio di parità delle parti sul piano probatorio risulta così palese che la Corte costituzionale, dopo aver proposto una lettura adeguatrice della disciplina (cfr. ordinanza n. 245 del 2005), ai più apparsa improponibile, si è in seguito trincerata dietro una pronuncia di inammissibilità, adducendo che la questione fosse stata prospettata in forma ancipite (v. ordinanza n. 62 del 2007).
Gravi pregiudizi alla coerenza e alla funzionalità del sistema suscita, poi, l’atto introduttivo del rito, quando assume la forma di richiesta condizionata all’assunzione di ulteriori elementi di prova. Tale richiesta soggiace ad un duplice accertamento di ammissibilità la necessità dell’introducendo materiale cognitivo ai fini della decisione da assumere e la compatibilità dell’integrazione con le finalità di economia processuale del rito. Un parametro valutativo palesemente inaccettabile (perché pericolosamente aleatorio; perché addebita all’imputato la richiesta di troppe prove necessarie, verosimilmente dipendente dalla lacunosità delle indagini svolte dal pubblico ministero; perché l’integrazione probatoria officio iudicis non conosce limiti “quantitativi”, legati alle caratteristiche del rito). Un parametro sostanzialmente sterilizzato dalla giurisprudenza nell’opinabile tentativo di dissimularne l’irragionevolezza e l’incostituzionalità. Problemi molto delicati si sono posti per ciò che concerne i rimedi avverso l’ingiustificato diniego del rito. Riconosciuto, non senza qualche iniziale esitazione, che non si possa lasciare privo di controllo un provvedimento destinato ad incidere sensibilmente sul trattamento sanzionatorio dell’imputato, la giurisprudenza ha individuato il possibile rimedio nella reiterabilità della richiesta di abbreviato rigettata davanti al giudice del dibattimento prima della sua apertura (Corte cost., sentenza n. 169 del 2003). Soluzione inapplicabile, però, ai provvedimenti di reiezione della richiesta di abbreviato emessi per la prima volta dal giudice del dibattimento (citazione diretta; giudizio direttissimo). La difficoltà di individuare in tali casi l’organo dinanzi al quale far valere la doglianza ha indotto a ripiegare su una soluzione diversa: con la sentenza emessa a seguito di dibattimento il giudice deve applicare la riduzione di pena prevista per l’abbreviato, qualora reputi che l’accesso a questo rito sia stato illegittimamente precluso all’imputato (Sezioni unite, 18 novembre 2004, Wajib; Corte cost., ordinanza n. 433 del 2006). Si è dovuto prendere atto, insomma, dell’impossibilità di assicurare in ogni caso quella persistenza del nesso sinallagmatico fra il beneficio premiale e la definizione del processo in forme semplificate. Con intuibili incrinature sia sul versante della parità di trattamento degli imputati, sia su quello della razionalità del sistema. Non solo, infatti, vengono offerti ad imputati che versano nella medesima situazione – cioè l’illegittimo rifiuto giudiziale di dar luogo a giudizio abbreviato – rimedi sensibilmente diversi: in un caso, la possibilità di rivolgersi ad un altro giudice affinché dia luogo al rito, nell’altro, la possibilità di avvalersi di tutte le garanzie dibattimentali e poi “lucrare” la riduzione sanzionatoria prevista per il rito speciale. Ma in questo secondo caso, l’ordinamento introduce un vistoso vulnus alla legalità della pena, senza riuscire ad assicurarsi quell’economia di sistema che sola, ed a fatica, potrebbe giustificarlo.
Anche per risolvere queste ed altre persistenti criticità, la Commissione ha proceduto ad una diversa configurazione del giudizio abbreviato. Questo acquisisce una sorta di “speciale ordinarietà” nel sistema, soprattutto nel senso che l’accesso ad esso non postula più la sussistenza di alcun requisito di ammissibilità: all’imputato è sufficiente farne tempestiva richiesta per avere diritto al procedimento speciale e alla conseguente attenuazione sanzionatoria. Il giudizio abbreviato diviene l’alternativa ordinaria al giudizio dibattimentale, ma sarebbe improprio qualificarlo come l’alternativa alla formazione in contraddittorio della prova o, peggio, come l’alternativa inquisitoria. Il contraddittorio non vi è bandito, atteso che ogni integrazione probatoria su istanza di parte o d’ufficio non potrà che realizzarsi dialetticamente, né appare corretto connotare in senso inquisitorio un rito, quando la sua instaurazione è rimessa all’insindacabile scelta dell’imputato. Del resto, che l’intervallo garantistico tra il “nuovo” giudizio abbreviato e il rito ordinario sia meno accentuato di quanto si possa a prima vista ritenere è facilmente dimostrabile, se si pone mente alla modesta differenza che corre tra il primo ed il giudizio dibattimentale in limine al quale le parti abbiano convenuto di inserire tutte le risultanze investigative nel fascicolo del dibattimento. Configurando l’accesso al rito abbreviato come diritto dell’imputato, si evita un dispendioso e aleatorio contenzioso in ordine all’ingiustificato rigetto della correlativa richiesta, che attualmente tanto impegna la giurisprudenza di merito, di legittimità e costituzionale. Ci si libera, nel contempo, di quell’anomalo meccanismo della richiesta condizionata all’assunzione di prove, che verosimilmente rappresenta un anacronistico retaggio della concezione originaria dell’ abbreviato come giudizio allo stato degli atti, che tanti delicatissimi ed insolubili problemi aveva suscitato. Una richiesta subordinata all’integrazione probatoria si giustificherebbe, infatti, soltanto se l’imputato fosse in grado, appunto, di assicurarsi un giudizio allo stato degli atti, senza “additivi” probatori diversi da quelli da lui stesso pretesi. Ma così non è, essendo sempre riconosciuto al giudice del rito un potere officioso di iniziativa probatoria ed al pubblico ministero un diritto alla controprova. Ed allora, la richiesta condizionata costituisce soltanto l’occasione per un vaglio di ammissibilità, in sede impropria, delle prove richieste dalla difesa; un vaglio da cui si fa dipendere un altrettanto improprio diniego di giudizio abbreviato e, incostituzionalmente, di riduzione di pena. Con la “nuova” disciplina, invece, il diritto alla prova dell’imputato torna ad essere esercitato nella sua sede propria, fisiologicamente gravato dell’onere di dimostrare la non superfluità delle prova richiesta e assistito dagli ordinari strumenti di impugnazione contro l’illegittimo rifiuto di ammetterla. Il giudizio abbreviato conclude così la sua lunga e tormentata parabola evolutiva: in origine, giudizio consensuale allo stato degli atti; poi, giudizio ad ammissibilità condizionabile (ad un’integrazione probatoria, dall’imputato) e condizionata (alla riconosciuta necessità e compatibilità “economica” delle prove richieste, da parte del giudice); infine, giudizio come diritto insindacabile dell’imputato, che accetta quale base probatoria di partenza gli elementi sino a quel momento acquisiti e si garantisce una predeterminata riduzione di pena in caso di condanna. Altro non deve dimostrare per l’instaurazione del rito, altro non può pretendere (salvo il diritto di tornare al rito ordinario, se cambia l’imputazione).
Non si pone più pertanto un problema di controllo sulla legittimità del provvedimento che dichiara inammissibile la richiesta di giudizio abbreviato e, soprattutto, non c’è più bisogno di riproporre quel distonico rimedio costituito da una riduzione di pena applicata a seguito di dibattimento. Si riafferma l’indissolubilità del binomio rito abbreviato-riduzione di pena: non ci può essere richiesta dell’imputato cui non segua l’instaurazione del giudizio abbreviato e, in caso di condanna, la riduzione di pena prevista; e tale riduzione non può essere praticata, se non si è svolto effettivamente il rito in forma abbreviata.
Questa la filosofia di fondo del “nuovo” rito, che va più analiticamente declinata nei termini che seguono. La richiesta del rito è prerogativa esclusiva dell’imputato, che deve esercitarla, anche tramite procuratore speciale, nel corso dell’udienza di conclusioni delle indagini (80.1). A seguito della richiesta, gli atti sono trasmessi al giudice del rito istituito presso il tribunale del capoluogo del distretto, che giudicherà in composizione monocratica o collegiale a seconda della tipologia del reato; in caso di pluralità di reati, il giudice in composizione collegiale ha cognizione anche su quelli che sarebbero di competenza del giudice monocratico (80.3). Di regola, il rito davanti al giudice monocratico si svolge in camera di consiglio, quello dinanzi al giudice collegiale in udienza pubblica, salvo, in entrambi i casi, richiesta contraria di tutti gli imputati. (80.4). In apertura del rito abbreviato, il giudice delimita la piattaforma probatoria di partenza, dichiarando l’utilizzabilità degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero e degli atti di indagine difensiva depositati nei termini stabiliti (80.5), in vista della celebrazione dell’udienza di conclusione delle indagini (66.2). In tal modo, se non si elimina del tutto, si ridimensiona sensibilmente il problema della documentazione difensiva presentata a sorpresa insieme alla richiesta di rito abbreviato : prima dell’udienza di conclusione delle indagini devono essere depositati tutti gli atti compiuti dal pubblico ministero e quelli compiuti dalla difesa, di cui questa ritenga di dover far uso. Una discovery reciproca e tendenzialmente definitiva, salva la possibilità della parte nel corso del giudizio abbreviato di chiedere al giudice l’ammissione di elementi, quando è in grado di dimostrare l’assoluta impossibilità di produrli tempestivamente. Nel qual caso, alla controparte spetta il diritto all’ammissione di prove contrarie (80.5). E’ invece sempre consentito alle parti di avvalersi delle risultanze investigative non tempestivamente depositate per supportare una sollecitazione rivolta al giudice, affinché si avvalga dei suoi poteri di integrazione probatoria per assumere gli elementi che ritiene necessari ai fini della decisione (80.7). All’imputato spetta inoltre un potere di formulare richiesta di integrazione probatoria indicando, a pena di inammissibilità, le specifiche ragioni della sua non superfluità ai fini della decisione (80.5). Si è voluto un presupposto di ammissibilità “poco impegnativo”, come la “non superfluità”, per non disincentivare il ricorso al rito abbreviato, nei casi in cui l’imputato tema che il giudice possa non avvalersi dei suoi poteri officiosi per disporre l’assunzione di prove, che la difesa pronostica favorevoli. Sul punto, l’osservazione della “debolezza” della clausola di non superfluità rilevata dall’Ufficio Legislativo del Ministero nel parere del 28 gennaio 2008, va contestata non solo perché “non superfluità” equivale, nella logica del procedimento probatorio, a “necessità”; non solo perché il giudizio sulla non superfluità inerisce anche alla situazione degli atti su cui il giudice manifesta l’accoglimento della richiesta; ma anche perché è coerente l’aggettivazione del diverso potere della parte di cui al punto 80.5 rispetto a quello di ufficio di cui al punto 80.7, là dove l’aggettivazione “necessari” sta a significare la “eccezionalità” e/o la “redisualità” del potere probatorio ufficioso. Naturalmente, l’accoglimento dell’istanza di integrazione probatoria fa nascere in capo al pubblico ministero un simmetrico diritto all’ammissione della prova contraria (80.5). Se il quadro probatorio muta nel corso del giudizio abbreviato (su istanza di parte o officio iudicis non rileva a tal fine), il pubblico ministero può modificare l’imputazione (80.8) e l’imputato pretendere che il rito prosegua con le forme ordinarie (80.9).
Qualora si avvalga di questa sua prerogativa, il giudice del rito revoca l’ordinanza di ammissione del procedimento speciale ed emette il decreto che dispone il giudizio dibattimentale, a meno che non vi sia richiesta di condanna o di applicazione della pena concordata e il giudice ritenga di accoglierla (80.11). Se viene incardinato il giudizio dibattimentale, le prove assunte in sede di abbreviato possono essere inserite nel fascicolo per il dibattimento se vi è l’accordo delle parti; in difetto, debbono essere inserite nel fascicolo del pubblico ministero, ma transitano nell’altro, se sono utilizzate per le contestazioni. In sostanza, seguono un regime intermedio rispetto agli atti di indagine e alle prove formate in dibattimento: a differenza dei primi, infatti, sono formate in contraddittorio; a differenza delle seconde, non sono assunte mediante esame diretto e dinanzi al giudice che deve utilizzarle per la decisione (80.9).
Qualora invece, dopo la modifica dell’imputazione, l’imputato non chieda di trasformare il rito abbreviato in ordinario, il giudice – se monocratico, dopo aver verificato il permanere della sua competenza – deve ammettere l’imputato ad una eventuale richiesta di integrazione probatoria (80.10).
Terminata la discussione conclusiva il giudice emette sentenza e, in caso di condanna, determina la pena in base a tutte le circostanze, diminuendola di un terzo o di un quarto a seconda della gravità della stessa (una regola particolare è dettata per l’ergastolo) (80.12). Il legislatore delegato dovrà aver cura di raccordare tali criteri di riduzione con quelli previsti per la condanna su richiesta (67), in modo che per gli stessi casi in cui dopo il rito abbreviato si applica la riduzione di un terzo della pena, nella condanna su richiesta si applichi la riduzione della metà; mentre per gli stessi casi in cui dopo il rito abbreviato si applica la riduzione di un quarto della pena, nella condanna su richiesta si applichi la riduzione di un terzo. In tal modo il sistema offrirà, coerentemente, una più accentuata attenuazione della risposta sanzionatoria all’imputato che consente di definire immediatamente il processo nell’ udienza di conclusione delle indagini, rispetto a quello che richiede la celebrazione di un giudizio, sia pure abbreviato. Soltanto se questo rapporto verrà mantenuto, inoltre, avrà plausibile significato la previsione secondo cui, in caso di rigetto della richiesta di condanna, l’imputato può chiedere il giudizio abbreviato (67.12).

24. le citazioni dirette
Le direttive nn. 81 e ss. si interessano delle forme di esercizio dell’azione penale che a diverso titolo consentono la vocatio in iudicium direttamente davanti al giudice del dibattimento, a meno che l’imputato, ricevuta la notifica del decreto, non chieda l’accesso all’udienza di conclusione delle indagini per sfruttare le potenzialità premiali oppure al giudizio abbreviato.
Questo nuovo assetto sistematico – che conferma le nuove frontiere del “processo di parti” e la peculiarità delle attribuzioni funzionali dei diversi giudici – ha quale presupposto «specifiche ipotesi di reato individuate in riferimento alla entità di pena edittale» o «alla semplicità di accertamento» (direttiva n. 81.1); oppure «in relazione alle ipotesi di reato contestate con l’ordinanza applicativa di misura carceraria» (direttiva n. 82.1); oppure «in caso di arretso in flagranza» (direttiva n. 83.1)
In verità, in tale ultima ipotesi, l’iniziale previsione secondo la quale si attribuiva il «potere del pubblico ministero di presentare l’imputato direttamente in giudizio nel termine di quindici giorni dalla convalida dell’arresto in flagranza» e l’«obbligo del pubblico ministero, che intende avvalersi della procedura diretta, anche nei casi di reati connessi, di formulare l’imputazione nella stessa udienza di convalida e di contestarla all’arrestato o fermato, con l’avvertimento che nei cinque giorni successivi egli può chiedere di essere presentato all’udienza di conclusione delle indagini ai fini della richiesta di giudizio abbreviato, di condanna o di applicazione della pena» - ipotesi che a parere della Commissione rispondeva meglio alle esigenze di un processo accusatorio, al quale si aderiva anche attraverso la possibilità che l’imputato chiedesse il ricorso all’udienza di conclusione delle indagini prima della presentazione al giudice del dibattimento per sfruttare le potenzialità “premiali” di quella udienza – ha ceduto il passo alla nuova prospettiva disciplinare – quella contenuta nel punto 83.1 dell’attuale articolato – essendo stato sottolineato, in più pareri, la elevata funzionalità dell’attuale “giudizio direttissimo” soprattutto in quelle vicende processuali che vedono imputati migranti di difficile reperimento; anche se l’obiezione era superata nella precedente disciplina – più congeniale al nuovo sistema – perché la contestazione dell’imputazione in sede di convalida rendeva comunque possibile la celebrazione del giudizio in assenza dell’imputato. Ed anche se, inizialmente, la Commissione aveva praticato la strada indicata anche al fine di non aggravare il giudice del dibattimento di funzioni (applicazione della pena; richiesta di pena; giudizio abbreviato) ritenute proprie di altro giudice, la stessa ha dovuto ritornare su istanze di maggiore funzionalità di una disciplina che ha dimostrato nella prassi maggiore efficienza; anche se la nuova disciplina comunque risponde a bisogni di rinnovata accusatorietà.
Quanto alle altre forme di citazioni dirette, i punti n. 81. e 82 regolano la disciplina delle ipotesi di citazione diretta rispettivamente nei casi in cui l’esercizio dell’azione penale riguardi specifiche ipotesi di reato individuate in riferimento all’entità di pena edittale o alla semplicità dell’accertamento – ipotesi prevedibilmente assegnate dal Parlamento alla competenza del tribunale quale organo monocratico – nonché l’esercizio dell’azione penale relativo alle ipotesi di reato contestate con ordinanza applicativa di ordinanza coercitiva. E se le discipline di tali ipotesi sono correttamente determinate nelle richiamate direttive, va segnalata la novità saliente, quella cioè che in tali casi l’imputato abbia la facoltà di chiedere di essere presentato innanzi al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini per sfruttarne le potenzialità preminali, oppure innanzi al giudice del rito abbreviato

25. il procedimento per decreto
La palese natura “inquisitoria” del decreto penale di condanna – vuoi sul fronte dell’esercizio dell’azione penale vuoi sul terreno della effettività della giurisdizione – suggeriva l’abolizione della particolare figura procedimentale anche per la esclusa partecipazione della persona offesa in tale fase. Sennonché, l’osservazione statistica colloca questa particolare procedura al primo posto della pratica dei cc.dd. procedimenti speciali, addirittura dimostrando che essa è utilizzata per circa il 30% di tali procedimenti e che di quel dato solo il 10% è opposto.
In questa situazione ed in presenza di una elevata richiesta rivolta a tenere in vita l’utile strumento deflattivo per le ipotesi di reato di minore gravità, la Commissione si è inizialmente misurata nel tentativo di attenuare i caratteri inquisitori della procedura, pensando di poter condurre a razionalità e coerenza sistematica il risalente istituto sulla scorta delle critiche della dottrina e degli “insegnamenti” giurisprudenziali.
Si era così scelta la strada di modellare in senso accusatorio l’istituto con la previsione:
> della informazione di garanzia – utile anche per la conoscenza delle prospettive operative del pubblico ministero da parte della persona offesa –, che consegna alla persona sottoposta alle indagini il “dominio” sul decreto nella fase preliminare alla richiesta, potendolo evitare accedendo alla proposta oblativa del pubblico ministero. Peraltro, la pluralità di itinerari paralleli alla giurisdizione, consente al pubblico ministero di rimettere le parti alla mediazione nel caso di opposizione da parte della persona offesa;
> della scelta del terreno processuale su cui far valere la pretesa definitoria: l’oblazione, prevista come ipotesi di estinzione del reato se praticata, a pena di decadenza, dopo l’informazione di garanzia onde consentire la archiviazione degli atti.
Si era dunque predisposto l’articolato di delega che ora qui si trascrive:

86.1. prevedere che il giudice per le indagini preliminari, per i reati per cui può essere irrogata una pena detentiva non superiore a due anni o altra di equipollente termine, emetta decreto penale di condanna a pena pecuniaria su richiesta del pubblico ministero, se la persona che ha ricevuto l’informazione di garanzia o un suo rappresentante non abbia provveduto alla oblazione e se la persona offesa non si opponga; 86.2. prevedere che il pubblico ministero abbia facoltà di chiedere l’applicazione di una pena diminuita sino alla metà del minimo edittale; 86.3. prevedere l’obbligo del pubblico ministero di interrogare, a pena di nullità del decreto, la persona sottoposta ad indagini se questa ne fa richiesta; 86.4. prevedere che il condannato possa presentare opposizione specificamente indicando se chiede di accedere innanzi il giudice dell’udienza di conclusione delle indagini per la definizione anticipata del processo ai sensi delle direttive n. 66 e 67 oppure direttamente innanzi al giudice del dibattimento; 86.5. prevedere che il giudice per le indagini preliminari, disposta la revoca del decreto, nel primo caso trasmetta gli atti al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini e, nel secondo caso, emetta decreto di citazione per il giudizio; 86.6. prevedere le garanzie per la difesa nella fase dell’opposizione; 86.7. prevedere un congruo termine per l’opposizione e per l’ipotesi di restituzione nel termine.

Questa prima opzione è stata criticata in più pareri, soprattutto ad opera delle procure generali presso le Corti di appello che sono intervenute nel dibattito, sia sul fronte dell’appesantimento delle attività preliminari all’emissione del decreto, tutte ricadenti sull’ufficio del pubblico ministero, sia sul fronte dell’”eccesso di garanzie” in quelle vicende in cui il fatto è di limitata rilevanza e nelle quali il ricorso al dibattimento è, allo stato, limitato.

Come si è detto, in Commissione ha infine prevalso l’idea di conservare l’istituto nella sua spiccata funzione deflattiva, ed anzi di potenziarla, affidando all’eventuale opposizione la tutela di ogni ragione difensiva, onde evitare che la manipolazione in senso più garantito dell’istituto potesse lasciare insoddisfatte e le esigenze di deflazione e quelle di piena affermazione dei diritti difensivi in un fase processuale che, a meno di non perdere il senso che le è proprio, si presta con difficoltà a rimaneggiamenti per una piena partecipazione difensiva.
Si è innanzitutto confermata la scelta di riservare il decreto penale all’irrogazione esclusivamente della pena pecuniaria anche se in relazione a reati puniti con pena detentiva. In tale ultimo caso, la sostituzione con la pena pecuniaria per l’accoglimento della richiesta di decreto penale trova un limite nella quantità di pena detentiva irrogabile, individuato in due anni secondo quell’usuale canone utilizzato per definire l’area della penalità che naturalmente sfugge al monopolio della risposta carceraria.
La richiesta di decreto penale spetta al pubblico ministero perché è atto di esercizio dell’azione e prelude all’adozione di un provvedimento che tiene luogo della ordinaria sentenza. Con essa, però, il pubblico ministero è ora chiamato ad esprimere un parere per l’eventualità che l’interessato, raggiunto dal decreto penale, intenda oblare.
L’innovazione apportata alla disciplina oggi consiste proprio nell’anticipazione al momento dell’emissione del decreto di tutti gli adempimenti che sono richiesti per consentire all’interessato di ottenere, versando la somma a titolo di oblazione, la definizione con pronuncia di estinzione del reato. Si è infatti preso atto che un elevato numero di opposizioni ai decreti penali sono oggi dovute alla volontà degli interessati di avvalersi della facoltà di oblazione. Per evitare il dispendio di tempo e di energie processuali a cui espone l’attuale meccanismo di accesso alla procedura do oblazione, si è previsto che già il decreto penale contenga, sempre che l’oblazione sia ammissibile, la determinazione della somma di denaro e del termine entro cui versarla. Il decreto penale, pertanto, non esplica la sua efficacia sino al momento in cui scade inutilmente il termine dato per il versamento della somma a titolo di oblazione. L’efficacia del decreto è dunque sospensivamente condizionata all’evento futuro ed incerto che l’interessato voglia definire quella stessa vicenda con oblazione. Per l’eventualità, invece, che l’interessato adempia tempestivamente agli incombenti per l’oblazione, il decreto penale, ancora inefficace, è revocato ed immediatamente sostituito da una sentenza dichiarativa di estinzione del reato, senza necessità che l’incarto processuale sia ulteriormente messo a disposizione del pubblico ministero, che il parere sull’ammissione all’oblazione ha già preventivamente espresso.
Della disciplina oggi vigente si è invece confermato l’aspetto di forte premialità, prevedendo che la pena pecuniaria irrogata con il decreto penale possa essere diminuita sino alla metà del minimo edittale. Da questa scelta è stata tratta la logica implicazione di non consentire l’opposizione se non in vista dello svolgimento del giudizio nelle forme ordinarie, negando quindi la possibilità dell’accesso al giudizio abbreviato o al patteggiamento, i cui effetti premiali sono certamente inferiori a quelli del decreto penale. Ragionando altrimenti si attenuerebbe la funzione incentivante del decreto penale e si disperderebbe il senso di una così robusta premialità.
Evidenti esigenze deflattive stanno a fondamento della previsione della non impugnabilità della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per oblazione, anche per il pubblico ministero che abbia espresso parere contrario all’ammissione all’oblazione.
Un’ultima direttiva prevede poi limiti all’impugnabilità della sentenza emessa all’esito del giudizio conseguente all’opposizione, e ciò per consentire al legislatore delegato di valutare se ragioni di coerenza sistematica e di efficienza del sistema non debbano condurre a prevedere, ad esempio, la non appellabilità per l’imputato di sentenze di condanna al solo fine di ottenere una riduzione di pena.
 
26. il procedimento innanzi al Tribunale per i minorenni
Il dibattito sulla giurisdizione penale minorile – rinvigorito da recenti iniziative parlamentari abolitive del tribunale per i minorenni e/o iniziative del tribunale per la famiglia – ha solitamente evidenziato tre terreni di confronto:
> la legittimazione costituzionale di una giurisdizione specializzata per i reati commessi da minori;
> la coerenza sistematica di clausole di compatibilità, per quella giurisdizione, di talune regole fondanti il “giusto processo”;
> e, di riflesso, nella prassi, l’atteggiamento paternalistico della stessa giurisdizione, indipendentemente da un severo accertamento della responsabilità penale del minore stesso.
Sul primo terreno, la filosofia seguita nella precedente legge (n. 448 del 1988) – quella, cioè, di evitare che la vicenda penale del minore possa costituire interruzione del suo processo di formazione (già indotta da continue pronunce della Corte costituzionale a partire dal 1963 e fino alla sentenza n. 311 del 15 ottobre 1997) – va confermata e, con essa, gli strumenti che la realizzano, quali la dichiarazione di tenuità dell’offesa; la messa alla prova; la definizione consensuale del processo prima del dibattimento (prevista con successiva legge). Anzi, a questo punto è noto che la difficile sperimentazione di tali strumenti – soprattutto della messa alla prova – ha dato ridotti risultati a causa di inadeguate strutture collaterali a cui è indispensabile provvedere –, eppure tali da consentire l’adozione di quegli strumenti in via ordinaria e non solo per i processi a carico di minori.
Per questo, vi sono ragioni di sistema più profonde che rafforzano quella filosofia e – con le correzioni dovute – ne impongono la continuità.
La previsione dell’art. 27 comma 3 Cost., se quanto al sistema penale ha prodotto un ricco ed articolato dibattito in tema di funzione della pena e robuste critiche alle tesi monocratiche e polifunzionali fino alla teoria della polidimensionalità istituzionale – dibattito qui non ripetibile –, quanto alla giurisdizione ha avuto residuale attenzione se si escludono isolati riferimenti – soprattutto da parte della “nuova difesa sociale” – ai naturali riflessi, su di esso, del progetto costituzionale previsto nella disposizione. La causa di tale disinteresse va ricercata nel bisogno di mantenere inalterata la funzione di accertamento del processo e, in ragione di esso, dei compiti punitivi del giudice in chiave di retribuzione, unico criterio di garanzia per la certezza del diritto, per la comparazione tra fatto e pena e per il rispetto dei bisogni di eguaglianza del trattamento.
Su questo fronte la legge n. 448 del 1988 dimostrò attenzione e coraggio, assumendo nel processo per i minorenni le esigenze di “recupero”, essendo, questi soggetti, portatori dell’ulteriore diritto alla formazione: evitare che il processo penale potesse incidere sul complesso iter formativo del minore fu la logica su cui si attestò quel legislatore e dalla quale l’odierno legislatore non può discostarsi se vuole coltivare coerenza costituzionale.
Peraltro, la singolare particella “per” acquista forza espressiva nel caso dell’esercizio della giurisdizione penale minorile, perché affida compiti di inserimento nel processo di formazione del minore anche della vicenda penale secondo la logica del recepimento – da parte del minore – della “lezione” che la vicenda stessa fornisce. Perciò il giudice minorile è (= deve essere) espressione di una pluralità di sapere e di esperienze; perciò le decisioni – anche sulla libertà personale – vanno assunte da giudice collegialmente rappresentativo di quei saperi e di quelle esperienze.
Gli altri terreni – coerenza sistematica e prassi – si combinano tra loro, denunciando la caduta del primo e, quindi, l’affievolimento della funzione primaria del processo a causa di una cultura “buonista” coltivata come esigenza prevalente nel processo per i minori proprio in ragione del bisogno di coltivare particolare attenzione alla formazione della persona.
Per rimuovere questa “cattiva abitudine” la scelta topografica appare indispensabile: l’attrazione della legge per il processo a carico di minori nel corpo codicistico vuol significare il recupero delle istanze del “giusto processo” anche in quel contesto e la presupposta validità dei principi e delle regole processuali anche in quel giudizio.
L’operazione è rinforzata sul primo terreno dalla previsione tassativa delle situazioni processuali incompatibili con l’esercizio della giurisdizione minorile e/o con la predisposizione di regole “speciali” coerenti con la filosofia che ispira l’intervento legislativo. E ciò, anche perché la clausola contenuta nell’attuale art. 1 del d.leg. n. 448 del 1998, affidando al giudice ampio potere discrezionale, sembra essere stata causa delle “deformazioni” innanzi denunciate. Perciò, oggi, è di automatica applicazione al processo innanzi al tribunale per i Minorenni qualsiasi disciplina non espressamente esclusa o che risulti incompatibile con le finalità della “speciale” giurisdizione.
Peraltro, l’osservazione delle forme più gravi di criminalità minorile ha indotto la Commissione a discutere la proposta di sottrarre al tribunale per i minorenni il giudizio su reati di particolare gravità commessi da minori di età compresa tra i 16 e i 18 anni.
Come si sa, in altri Paesi, anche Europei, i sistemi adottati di solito affidano a quel tribunale la valutazione della gravità del fatto e, quindi, l’attribuzione di competenza a questo e/o a quel giudice.
L’ipotesi non è praticabile nel nostro Paese in presenza della rigida clausola dell’art. 25 comma 1 Cost.; tant’è che le forme di modifica della precostituzione del giudice – mai quanto alla competenza per materia, ma solo in specifiche ipotesi di “competenza funzionale” – sono affidate alla volontà della parte (= imputato) e legittimamente predisposte in tema di “naturalità” per particolari procedimenti (si pensi al giudizio abbreviato).
Per cui nel caso il Parlamento – a cui naturalmente ed opportunamente si rimette la questione per la sua elevata politicità – dovesse ritenere praticabile tale ipotesi, l’unica strada perseguibile sarebbe quella della prederminazione dei casi per i quali lo “spostamento di competenza” è consentito.
Su queste premesse si innestano le direttive di delega, delle quali le prime due (n. 85.1 e 85.2) ne esprimono la sintesi. Peraltro, l’esclusione della praticabilità del decreto penale di condanna e della citazione diretta a giudizio a seguito di arresto in flagranza e/o fermo rispondono proprio al bisogno di evitare processi nei quali non risulta possibile la osservazione della personalità del minore.
La novità del punto 85.3 è costituita dalla necessaria partecipazione della difesa – intesa nella più ampia latitudine – alle operazioni di osservazione della persona.
A tale previsione segue (n. 85.4) – naturalmente – l’attribuzione del potere di sospensione del processo per l’espletamento di quelle attività, a cui – altrettanto naturalmente – segue l’effetto della sospensione della prescrizione.
Il contenuto dei punti 85.5; 85.6; 85.7; 85.8 e 85.15 – peraltro ripetitiva di esperienze legislative e giudiziarie risalenti – si esplica da solo.
Saliente novità è costituita dal punto 85.9. Riconosciuta tendenziale facoltatività dell’adozione di misure coercitive a carico di minori – che, peraltro, il legislatore delegato dovrà specificare con opportune novità di forme secondo la logica della graduazione ed in ovvia presenza dei presupposti e delle condizioni previste in via generale – segue la previsione della collegialità – togata e laica – del giudice, sfuggendo la vicenda, in questo caso e per le ragioni dette, ai profili meramente tecnici. Questa collegialità mista del g.i.p. a cui è presentata la richiesta, nel caso di specie, è necessariamente indipendente dalla scelta circa la analoga situazione prevista per il processo “ordinario”. Ad essa naturalmente segue la inappellabilità – in qualsiasi forma – del provvedimento, non la sua ricorribilità, per i casi di violazione di legge.
Il punto 85.10 indica la necessità di predisporre termini di “custodia” diversi da quelli previsti in via ordinaria, tenuto conto, anche, dell’età del minore.
I punti n. 85.11 e 85.12 adeguano alla vicenda minorile i poteri del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini.
Il punto 85.13 modifica il regime “ordinario” di impugnazione dei provvedimenti emessi nella sede ora richiamata, prevedendo, in mancanza di consenso, la opposizione innanzi al tribunale.
La particolare collocazione dei punti nn. 85.14 e 85.15 sembra destinare le direttive alla predisposizione dei poteri del giudice del dibattimento; il che è esatto quanto alla prima, essendo essa regola generale per l’udienza di conclusione delle indagini (cfr. n. 66). Epperò, l’indirizzo della seconda non può non valere anche per il giudice di quella udienza, indipendentemente dalla richiesta ordinaria dei “premi”. La differenza si giustifica in ragione della filosofia dello “speciale” procedimento. Invero, in questo caso, il consenso alla definizione anticipata attiva, in caso di condanna, il circuito della fuoriuscita del minore dal processo e la maggiore “clemenzialità” sanzionatoria.
L’ultimo punto – il n. 85.18 – prevede la istituzione di uno speciale casellario giudiziario nel quale far confluire anche le decisioni sulla “tenuità dell’offesa” e sulla “messa alla prova” utilizzabile all’interno del tribunale per eventuali ulteriori vicende processuali. Le annotazioni ivi contenute confluiranno, poi, nel casellario giudiziario generale – secondo le regole di questo – solo quando il minore abbia compiuto i 18 anni di età.

27. il procedimento innanzi al giudice di pace
La legge 21 novembre 1991 n. 374, istitutiva del giudice di pace, conteneva anche una delega al Governo in tema di competenza e procedimento penale che avrebbe dovuto essere attuata entro il 30 settembre 1994 ma alla quale – com’è noto – non venne fatto seguire un testo normativo delegato non tanto per l’estrema genericità dei principi e dei criteri direttivi che vi erano espressi quanto per l’incognita delle strutture giudiziarie, che avrebbero dovuto essere funzionali e serventi alla riforma, e per la diffusa preoccupazione che la magistratura onoraria non fosse allora adeguatamente preparata al nuovo compito.
L’idea – guida che vi si leggeva in filigrana,ovvero che bisognasse intraprendere un percorso di costruzione di una nuova funzione giudicante che potesse corrispondere alla crescente domanda di giustizia penale accelerando la risposta del sistema, si tradurrà poi – com’è altrettanto noto – nella nuova legge delega 24 novembre 1999 n. 468 e nel conseguente decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274 che, senza contraddire la prassi di sanzionare penalmente quei comportamenti ritenuti lesivi di interessi particolarmente significanti, fecero fronte sul piano ordinamentale ai bisogni di ragionevole durata del processo.
L’attribuzione di competenze penali al giudice di pace, ancorché condizionata dalla ricerca di una riduzione quantitativa dei carichi di lavoro della magistratura ordinaria, non è stata – pertanto – il derivato di una negoziazione riduttiva ma, al contrario, il prodotto di una impostazione di studio e di un confronto politico positivamente orientati a costruire un disegno strutturale e procedurale capace di assicurare un compiuto governo del processo penale.
Sono queste, in estrema sintesi, le ragioni per le quali la Commissione – a voti unanimi – ritiene irretrattabile la chiamata al proscenio del giudice di pace che si pone, infatti, come centro irrinunciabile di un disegno organizzativo che voglia dare concretezza, con soluzioni strutturali mirate e con armonie procedurali complessive, ai valori costituzionali della ragionevole durata del processo, della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale e del buon impiego della magistratura onoraria rispettivamente previsti dagli artt. 111, 112 e 106 Costituzione.
Nella ricerca di una stretta corrispondenza tra tali distinti precetti ed il modello organizzativo del processo, il mantenimento di un potere di cognizione penale in capo al giudice di pace è – dunque – assolutamente strategico in funzione della salvaguardia di tali valori che sono stati, per troppo tempo, largamente disattesi. Molteplici e convergenti, guardando a ritroso, le cause di tanta divaricazione tra le ragioni della giustizia e le esigenze del cittadino.
La magistratura ordinaria, già schiacciata dalla generale propensione a privilegiare lo strumento processuale penale anche per la risoluzione di controversie che meriterebbero invece d’essere composte nella sede loro propria, è stata chiamata a misurarsi con un crescente allargamento dell’area del penalmente rilevante; alla crescita dei diritti delle parti nel processo, conseguenza diretta dell’approdo ad un modello accusatorio, non è stato fatto corrispondere un adeguato potenziamento dei servizi; la magistratura onoraria, per un certo ritardo culturale nel liberarsi d’un passato nel quale era stata chiamata unicamente ad un ruolo di supplenza, ha continuato ad essere subalterna rispetto a quella ordinaria.
Da questo punto di vista, il passaggio di competenze penali dal tribunale monocratico al giudice di pace si propone – dunque – come rimedio di ragione che conferisce concretezza a tali valori costituzionali rifuggendo, peraltro, dai vizi opposti di un passato nel quale l’affanno continuo della magistratura ordinaria ed il vuoto organizzativo delle risorse amministrative venivano di regola mascherati affidandosi all’effetto placebo delle ricorrenti amnistie.
L’allargamento della platea degli organi giudicanti, con l’innesto di un giudice di pace da tempo sperimentato sul campo e largamente presente sul territorio, non potrà pertanto non avere che una ricaduta positiva sulla tenuta complessiva del sistema consentendo quelle accelerazioni di cui abbisogna.
Il congruo numero di affari penali attribuiti alla cognizione della magistratura onoraria e la simmetrica deflazione dei carichi di lavoro di quella ordinaria sono gli indicatori di direzione, in altri termini, di una recuperata attenzione per una giustizia penale, meno virtuale e più puntuale, fondata sui principi inscindibili della obbligatorietà dell’azione penale e della ragionevole durata del processo nella mancanza di effettività dei quali si riassumono larga parte dei problemi dell’amministrazione della giustizia.
L’attribuzione di un potere di cognizione penale al giudice di pace, sebbene imposto dalla insostenibilità di una situazione che era precipitata per il venir meno delle ricorrenti amnistie, è stata, nell’anno 2000, un ritaglio di efficienza del sistema processuale perché la moltiplicazione degli organi giudicanti ha certamente giovato, e non poco, all’esercizio concreto dell’azione penale ed ai tempi di durata del processo.
Abiurare tale scelta di politica legislativa, proprio oggi che se ne cominciano ad apprezzare i risultati positivi (il giudice di pace assorbe circa un quarto del contenzioso penale ed i tempi di definizione dei processi incardinati davanti alla magistratura ordinaria hanno fatto significativi passi in avanti), sarebbe invece un ritaglio di nebbia che riporterebbe il sistema ad un tempo in cui il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale era più di facciata che reale, la durata dei processi lasciava sostanzialmente indifferenti, la visibilità della magistratura onoraria era oscurata dalla negazione di una competenza penale.
Ed è proprio per questa ineliminabile funzione di supporto alla giurisdizione penale che è parso opportuno l’inserimento della normativa sul procedimento innanzi al giudice di pace all’interno del corpo codicistico, in tal modo volendosi riconoscere l’appartenenza della materia alla procedura penale e rimarcare la necessità che, pure in un contesto procedimentale semplificato, le regole fondamentali della giurisdizione hanno pregnante valore innanzi a quel giudice.
Il gruppo di lavoro si è interrogato a lungo sulla precisa linea di confine tra reati da riservare alla cognizione del giudice ordinario e reati da fare migrare al giudizio del giudice di pace ed è pervenuto, per passaggi successivi, alla conclusione che la competenza di quest’ultimo debba essere circoscritta a quelle sole fattispecie di reato per le quali, secondo le indicazioni formulate de iure condendo dalla Commissione Pisapia per la riforma del diritto penale, la pena edittale prevista sia diversa, anche in via alternativa, da quella detentiva o interdittiva.
L’opzione iniziale, ossia di individuare lo spartiacque nei reati perseguibili a querela, è stata fatta cadere, nonostante si trovasse in asse con la naturale vocazione del giudice di pace alla funzione conciliativa, sulla base della considerazione che alla procedibilità a querela non sempre è fatto corrispondere, dall’ordinamento penale, quel trattamento sanzionatorio di attenuato rigore che legittima il ricorso alla magistratura onoraria e che trova la sua radice normativa nel divieto costituzionale, fatto ai magistrati onorari, di svolgere funzioni diverse da quelle attribuite a giudici singoli (art. 106, comma 2, Cost.).
Allo stesso modo, è stata valutata negativamente l’ipotesi di temperare l’ampiezza di una tale apertura ricorrendo al correttivo del riferimento normativo, in chiave di tassatività, dei reati procedibili a querela da attribuire alla cognizione del giudice di pace. Decisiva ed assorbente, in questa direzione, è stata la constatazione che è in corso di elaborazione, da parte della stessa commissione di riforma del codice Penale, la rivisitazione delle fattispecie di reato e che quindi sarebbe venuto meno, per questa via, ogni utile ancoraggio normativo di riferimento.
E’ stata, insomma, l’impraticabilità di una soluzione diversa ad imporre il criterio direttivo qui enunciato; ma alla insoddisfazione per il modo in cui ci si è arrivati non corrisponde un’eguale insoddisfazione per il risultato finale che ha infatti enucleato un criterio direttivo dai contorni rigorosamente specifici e ben definiti.
Il profilo che vi si coglie, non diversamente da quanto oggi emerge dalla attuale legge di riferimento, non è dunque quello di un giudice di pace ripiegato sulla conciliazione di micro-conflittualità individuali ma quello di un giudice al quale potranno essere attribuite, indipendentemente dal fatto che siano procedibili d’ufficio o a querela, quelle fattispecie alle quali l’ordinamento riconnette un modesto disvalore sociale della condotta facendovi corrispondere le meno afflittive delle sanzioni penali (secondo lo schema Pisapia soltanto quando possa trovare applicazione o una pena pecuniaria o una pena c.d. prescrittiva).
Non è – allo stato – possibile stimare con sufficiente attendibilità l’incidenza deflattiva del criterio direttivo qui proposto anche se pare possa ragionevolmente escludersi quell’arricchimento delle competenze penali del giudice di pace che era stato auspicato nella relazione di accompagnamento al decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274. Ed è proprio questo il risultato che si vuole qui determinare con l’anzidetto criterio direttivo nella consapevolezza che sia poco istituzionale sottrarre, nel nome di una esasperata deflazione, l’attribuzione dei reati di maggior gravità ad un organo giudicante fortemente professionale.
Nel passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento giudiziario sono andati travolti quei poteri di indirizzo che la disciplina paranormativa (prima) e l’art. 6 del decreto legislativo 19 febbraio 1998 n. 51 (dopo) avevano intestato al CSM in ordine alla organizzazione degli uffici del pubblico ministero.
L’assetto degli interna corporis della procura della Repubblica è oggi, in forza del decreto legislativo 20 febbraio 2006 n. 106, rimesso al responsabile apprezzamento del procuratore; ed il risultato che ne è derivato è stata la perdita di un modello organizzativo unitario e comune a tutti gli uffici requirenti.
Su questa constatazione di fatto, ritiene la Commissione necessaria l’adozione, presso ogni procura della Repubblica., di una articolazione interna che si occupi, in via esclusiva, dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace facendo così corrispondere, ad un modello di procedimento e di processo tutto diverso da quello previsto per il giudizio ordinario, una struttura organizzativa specializzata.
Non viene messo in discussione, per questa via, il potere direttivo del procuratore che è, più semplicemente, chiamato ad una specifica assunzione di responsabilità attraverso la costituzione di una articolazione interna che è inderobagile ma rispetto alla quale egli mantiene ogni ampio margine operativo tanto in ordine alla quantificazione delle unità necessarie quanto alla individuazione degli addetti.
E’ conservato, nel contempo, l’essenziale contributo offerto dai “delegati del procuratore” (art. 50 decreto legislativo n. 274/2000) anche se il loro impiego viene circoscritto alla sola partecipazione alle udienze con esclusione, conseguente, di ogni loro coinvolgimento nella fase delle indagini.
Viene meno – così – il potere di richiedere l’archiviazione e di esprimere parere in ordine alla ammissibilità del ricorso immediato al giudice, oggi riconosciuto ai soli vice procuratori onorarti dalla lettera b) del citato art. 50; ed a tanto la Commissione si è determinata sulla considerazione che il passaggio relativo al mancato promuovimento dell’azione penale sia troppo forte per potere essere sottratto alla magistratura professionale.
La partecipazione dei delegati del procuratore alle udienze non è più peraltro, come nel presente, sottratta ad ogni regola ma rigorosamente circoscritta alla sopravvenienza di difficoltà organizzative che non consentano la partecipazione in udienza dei magistrati del pubblico ministero.
E’ stata riscritta – da ultimo – la griglia dei “delegati del procuratore” apportando, rispetto alla disciplina oggi vigente, due esclusioni e tre nuovi ingressi.
La rinuncia all’utilizzo del personale in quiescenza della polizia giudiziaria, reso oggi possibile dalla specifica disposizione contenuta nell’art. 17 del decreto legge 27 luglio 2005 n. 144 (convertito in legge n. 155/05), deriva da due constatazioni: la prima è che siffatta sperimentazione, alla prova dei fatti, è largamente fallita per la mancata previsione di quella indennità di udienza che è invece riservata a vice procuratori onorari (art. 4 decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 273); la seconda è che la polizia giudiziaria in quiescenza dal almeno un biennio perde, con il passare degli anni, quella professionalità di cui era portatrice ed al cui mantenimento non ha interesse non potendo più essere chiamata a tale nuovo compito in coincidenza con il quinto anno dalla quiescenza stessa.
La rinuncia all’utilizzo in udienza dei laureati in giurisprudenza che frequentino il secondo anno delle scuole di specializzazione per le professioni legali ha, invece, altra ragion d’essere: la loro professionalità, ancora acerba proprio perché in via di formazione, è controindicata rispetto ad un processo accusatorio nel quale l’egalitè des armes non è certo assicurata dalla presenza fisica delle parti ma dalla sperimentata capacità di sapere argomentare le proprie ragioni.
Sono queste le considerazioni di fondo che hanno orientato la commissione a consigliare di chiamare al ruolo di pubblico ministero d’udienza, in aggiunta ai soggetti che già vi partecipano davanti al tribunale, altre tre categorie professionali: ufficiali di polizia giudiziaria addetti alla sezione di polizia giudiziaria, laureati in giurisprudenza che abbiano di già conseguito il diploma di specializzazione presso una scuola per le professioni legali, laureati in giurisprudenza ammessi al patrocinio davanti al tribunale di un circondario diverso.
I primi sono infatti portatori di una professionalità che si alimenta e cresce nel quotidiano, i secondi hanno completato il loro percorso formativo, i terzi hanno consuetudine concreta con il processo.
I principi ed i criteri direttivi pensati dalla Commissione sullo specifico versante delle indagini preliminari riproducono l’orditura oggi vigente sulla cui positiva sperimentazione unanime è stata la valutazione che se ne è data. Salvo che il pubblico ministero non ritenga di compierle direttamente, di assumerne la direzione ovvero di delegare un singolo atto, le indagini preliminari saranno compiute, d’iniziativa e con piena titolarità, dalla polizia giudiziaria del circondario del giudice competente per il giudizio che ne riferirà l’esito al procuratore della Repubblica.
Le indagini peraltro, simmetricamente a quanto è stato previsto per i reati attribuiti alla cognizione del giudice ordinario, andranno compiute entro un termine predeterminato che sarà rapportato ai ridotti tempi che sono solitamente indispensabili per l’accertamento dei reati riservati al giudizio del giudice di pace con due specifiche avvertenze: l’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti successivamente allo spirare del termine finale e la preclusione, pe la polizia giudiziaria, di procedere ad atti irripetibili senza preventiva autorizzazione del pubblico ministero.
La decorrenza del termine per le indagini non potrà, d’altra parte, non tener conto del fatto che la inutilizzabilità intende sanzionare una inerzia investigativa. Il termine iniziale sarà fatto pertanto decorrere, quanto ai reati perseguibili d’ufficio, dalla conoscenza del fatto mentre lo stesso termine, quanto ai reati per i quali è prevista una condizione di procedibilità, farà il suo corso a far data dal sopraggiungere di questa.
La naturale vocazione del giudice di pace alla conciliazione ed i ristretti tempi di indagine qui previsti, non diversamente da quanto codificato dalla normativa attualmente vigente, ostano all’ingresso di misure coercitive ed all’applicabilità delle norme relative all’udienza preliminare ed all’incidente probatorio (l’approdo al dibattimento, filtrato attraverso un passaggio intermedio, sarebbe inevitabilmente rallentato mentre le cogenti esigenze di assunzione della prova sono salvaguardate da un iter procedurale che consente l’immediato affaccio alla sede propria del giudizio).
A conclusione delle indagini, e sempre che non debba essere richiesta archiviazione, vien fatto obbligo al pubblico ministero di esercitare l’azione penale entro un anno, computato nei modi già descritti, dall’inizio delle indagini stesse.
Le pressanti esigenze di semplificazione, che sono coessenziali al modello accusatorio, giustificano l’innesto di uno strumentario che sia capace di imprimere il massimo di snellezza e di essenzialità all’iter del procedimento e di porre un arresto a quel reticolo largo di inciampi che ne zavorrano l’ordinato svolgimento.
Governare il processo, in funzione della salvaguardia della sua ragionevole durata, significa dunque chiudere i varchi dei tanti tempi morti, che sono tra i fattori più devastanti del cattivo funzionamento del processo, rimuovendo così ogni possibile occasione di rallentamento.
Il processo deve essere – cioè – aperto alla tutela di quei valori e di quegli interessi che meritano di essere salvaguardati e sviluppati ma chiuso, al tempo stesso, a tutte quelle istanze nelle quali non sia riconoscibile la dovuta condivisione di una corretta dinamica processuale.
In questa direzione viene previsto l’obbligo per il querelante di dichiarare o eleggere domicilio ai fini delle notificazioni e di comunicarne ogni mutamento facendone derivare l’improcedibilità dell’azione tutte le volte in cui la polizia giudiziaria, che è tenuta a sentirlo a conclusione delle indagini per verificare l’attualità del suo interesse alla definizione del procedimento, non abbia potuto citarlo nel domicilio dichiarato o eletto per negligenza a lui addebitabile.
Nella stessa direzione, e muovendo dalla constatazione che la ingiustificata assenza del querelante alla prima udienza dibattimentale ovvero a quella di discussione finale sia indice certo del fatto che alla iniziale rappresentazione di una domanda di tutela non corrisponda più un interesse alla sorte del processo, viene fatta corrispondere la rinuncia all’azione.
L’assenza del querelante per tali udienze dibattimentali, nelle quali viene esperito il tentativo di conciliazione tra le parti e vengono discusse le ragioni dell’accusa e della difesa, non è infatti muta ma assai significativa.
In quel vuoto si coglie e si apprezza – in verità – il riflesso esteriore di un sopravvenuto distacco rispetto alla iniziale istanza di punizione e quindi alla sanzionabilità del fatto.
La vocatio in iudicium – salvo quanto sarà detto più avanti – viene affidata ancora una volta ad un decreto di citazione che dovrà essere emesso entro un anno dalla effettiva acquisizione della notizia di reato e che conterrà tanto l’imputazione quanto l’avviso del deposito degli atti di indagine compiuti.
Tale duplice indicazione non è “di contesto” ma significativa di un attaccamento di fondo ai “diritti nel processo” e di una certa peculiarità del rito processuale davanti al giudice di pace.
Il rinnovato richiamo alla formulazione del capo di imputazione vuole infatti rimarcare, anche per i reati di minore allarme sociale, il diritto dell’imputato a sapere non soltanto il contenuto dell’accusa ma soprattutto a conoscerlo in forma chiara e comprensibile mentre il riferimento all’avviso di deposito degli atti di indagine compiuti assolve ad una esigenza di parità tra difesa ed accusa privata perché imputato e persona offesa potranno “difendersi provando” venendo messi a conoscenza, in uno stesso arco temporale, dell’attività investigativa espletata.
La specifica peculiarità del rito processuale si riflette, invece, nella mancata codificazione, nel momento del passaggio dal procedimento al processo, di quella udienza di conclusione delle indagini che è invece prevista, o in via ordinaria o su richiesta dell’imputato tratto a giudizio con citazione diretta, per i reati attribuiti alla cognizione del giudice ordinario (direttive 66.1 e 81.2).
Sospeso tra discontinuità e conservazione è stato – nello stesso tempo – il confronto sulla individuazione del soggetto chiamato ad emettere il decreto di citazione.
In questa direzione, è stata presa in considerazione l’ipotesi di sottrarre al pubblico ministero la titolarità del decreto di citazione e di affidarla al giudice di pace; in particolare il pubblico ministero avrebbe esercitato l’azione penale presentando una richiesta di rinvio a giudizio, completa di imputazione, al giudice di pace territorialmente competente per il giudizio sul quale sarebbe stato quindi trasferito l’onere di emettere il decreto di citazione e di incaricarsi delle necessarie notificazioni.
In favore di un tale decentramento è stata segnalata la confluenza di interessi generali e particolari: la ripartizione dei decreti di citazione tra i tanti giudici di pace del circondario si sarebbe tradotta in una accelerazione nei tempi di fissazione delle udienze e, al tempo stesso, in un più equilibrato riparto dei carichi di lavoro tra procure della Repubblica ed Uffici del giudice di pace.
E’ prevalsa, all’esito di un lungo ed articolato dibattito, la soluzione di tenere ferma la titolarità del decreto di citazione in capo al pubblico ministero sul rilievo che il rimedio del decentramento sarebbe per un verso illusorio, non potendo assicurare nel concreto l’auspicata accelerazione, e per altro verso eccessivamente oneroso per le limitate risorse amministrative di cui ogni ufficio del giudice di pace solitamente dispone.
La formazione progressiva del decreto di citazione con il concorso di due distinti soggetti (un pubblico ministero che propone richiesta di rinvio a giudizio ed un giudice di pace che trasferisce l’imputazione ivi contenuta in un decreto di citazione a sua firma) è sembrata infatti pericolosamente aperta a ritardare la vocatio in iudicium per via dei “tempi morti” che le comunicazioni tra uffici che hanno sede in realtà territoriali diverse e tra loro distanti (con la sola eccezione del giudice di pace del capoluogo del circondario) solitamente comportano e per la duplicazione di attività che ne sarebbe derivata dovendo il giudice di pace riprendere dalla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero i dati essenziali per la citazione (generalità delle parti e loro domiciliazione, imputazione, indicazione dei difensori già nominati) e trasferirli nella vocatio in iudicium.
I carichi di lavoro – d’altra parte – non sarebbero stati egualmente ripartiti dovendo gli uffici del giudice di pace farsi carico, come si vedrà più avanti, della citazione conseguente all’esercizio dell’azione privata accordata alla persona offesa per i reati perseguibili a querela.
La prassi ha mortificato la innovazione più significativa del decreto legislativo n. 274/2000 che ruppe, prevedendo il c.d. il ricorso immediato al giudice, il monopolio dell’azione penale con una opportuna lettura “innovativa” dell’art. 112 Cost. che ha trovato indiretta conferma nella ordinanza della Corte costituzionale n. 381 del 7 ottobre 2005 dichiarativa della inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dai giudici di pace penale di Osimo e di Napoli per asserita violazione del predetto art. 112.
Il segnale non fu allora colto dalla dottrina né valorizzato dalla giurisdizione nonostante la relazione, con manifesta chiarezza, affermarsse che “una delle innovazioni più significative ( anche sul piano generale) introdotta dalla delega” è quella di autorizzare il privato “pur con alcuni temperamenti relativi all’informazione del pubblico ministero finalizzata ad un suo eventuale intervento a promuovere direttamente il giudizio in materia penale, così evocando la figura dell’azione penale privata”
. Il corsivo della Commissione e rimarca i segnali non completamente compresi né recepiti e ciò perché, allora, tra una soluzione decisamente orientata verso quell’istituto, che comportava l’insorgere di una vera e propria imputazione per volontà privata, si preferì di “contemperare i benefici di speditezza per l’interessato e di deflazione del carico di lavoro dell’organo pubblico, assicurati dall’iniziativa del privato, con le insopprimibili esigenze del controllo preventivo del pubblico ministero anche a garanzia dei diritti di difesa”.
Il felice “azzardo” oggi va portato a compimento:l’azione penale privata innanzi al giudice di pace è la naturale potenzialità operativa per i reati a prevalente contenuto di conflitto intersoggettivo.
Su queste premesse, il largo favore per il modello accusatorio, che costituisce la matrice culturale di riferimento dell’impianto codicistico, ha convinto la maggioranza della Commissione, al cui interno plurime sono state le voci di dissenso, a spingersi oltre il c.d. ricorso immediato al giudice, oggi disciplinato dagli artt. 21 e seguenti del decreto legislativo n. 274/2000, dando spazio ad un’azione penale esercitabile dal privato. In particolare, e limitatamente ai reati procedibili a querela, è stato così previsto che la persona offesa possa, in alternativa con la possibilità di continuare a rivolgersi agli organi statuali (polizia giudiziaria e pubblico ministero) per la verifica della fondatezza della notizia di reato, esercitare l’azione penale, con il ministero di un difensore e con contestuale deposito degli atti di investigazione eventualmente compiuti, secondo un modello di citazione speculare a quello dettato per il promuovimento dell’azione penale da parte della mano pubblica.
Sono note, al riguardo, le obiezioni di principio e di opportunità sulle quali si è fatto leva in passato per contrastare il riconoscimento di questa bipolarità tra accusa pubblica e privata: l’elevazione a dignità costituzionale del principio di officialità e obbligatorietà dell’azione penale del pubblico ministero escluderebbe in radice la coesistenza di un’azione penale privata perché la costituzionalizzazione di un tale obbligo assumerebbe il significato di una legittimazione monopolistica statuale ad agire per la repressione del reato; l’azione penale privata sarebbe superflua e pericolosa perché diverrebbe fatalmente, ove non accompagnata da un forte senso civico, mezzo improprio di pressione quando non di intimidazione, strumento per soddisfare ritorsioni e vendette, occasione per accrescere la litigiosità dei consociati.
Sul primo versante, ritiene la Commissione, in ciò confortata dalla Corte costituzionale che ha in più occasioni affermato come la previsione di azioni penali sussidiarie e concorrenti rispetto a quella obbligatoria del pubblico ministero non si ponga in contrasto con il precetto costituzionale, che il dogma del monopolio pubblico dell’azione penale risenta di una sorta di esasperazione della tradizione storica ma non trovi corrispondenza nella Carta costituzionale.
Decisivo, in questa direzione, è l’esame dei lavori del Costituente. E’ noto, infatti, come nell’art. 101 del progetto di Costituzione stesse scritto che “l’azione penale è pubblica”; ed è altrettanto noto come, in accoglimento del rilievo per il quale una tale puntualizzazione non era necessaria apparendo invece opportuno rimettersi alle scelte del legislatore ordinario, la formulazione definitiva dell’art. 112 della Carta costituzionale si sia fatta carico di tali osservazioni rimuovendo il riferimento testuale alla natura esclusivamente pubblica dell’azione penale (“il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”).
La comparazione tra il testo del progetto e quello della formulazione definitiva fa risaltare, in altri termini, il chiaro arricchimento della prospettiva dell’azione penale privata se solo si consideri come il baricentro della norma si sia spostato dalla originaria previsione di un monopolista pubblico, contenuta nell’art. 101 del progetto, alla sola costituzionalizzazione della negazione di una qualsiasi facoltà discrezionale in capo al pubblico ministero.
Sembra poter dire, pertanto, che l’art. 112 della Carta costituzionale abbia affermato l’obbligatorietà ma non l’esclusività dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero e che non vi siano pertanto controindicazioni, d’ordine costituzionale, per l’apertura ad un’azione penale mossa dalla persona offesa.
A valle di tale passaggio, la direttiva qui illustrata si è fatta carico, peraltro, della seria preoccupazione per il possibile uso pretestuoso dell’azione penale privata prefigurando tre correttivi alla irragionevole volontà di procedere della persona offesa. E’ stato infatti previsto che la richiesta di citazione a giudizio venga presentata al giudice di pace con il ministero di un difensore, ch’essa debba essere notificata all’ufficio del pubblico ministero per le eventuali iniziative di quest’ultimo, che il giudice emetta decreto di citazione previa trascrizione del capo di imputazione.
Comune a tali contrappesi non è una logica di contenimento, che tradirebbe nei fatti l’apertura al nuovo modello di vocatio in iudicium, ma di serietà e quindi di corretto esercizio dell’azione penale attraverso la codificazione, in rapida sequenza, di tre distinti momenti valutativi della attendibilità del fatto-reato riferito dalla persona offesa.
La previsione obbligatoria del ministero di un difensore assolve alla funzione di individuare una figura professionale, liberamente scelta e quindi di fiducia della persona offesa, che valuti l’esposizione dei fatti avuta da questi e che quindi sappia orientarlo responsabilmente nella scelta di procedere o meno; l’onere di notificare al pubblico ministero la richiesta di citazione a giudizio dell’imputato vuole assicurare un successivo momento valutativo, questa volta affidato ad un soggetto istituzionale, finalizzato a segnalare al giudice ragioni ostative, di merito o di rito, al passaggio alla fase del giudizio; il dovere del giudice di emettere il decreto di citazione, previa trascrizione dell’imputazione formulata dalla persona offesa, non lo esonera affatto, in applicazione dei principi generali, dal dovere di emettere sentenze di assoluzione, di non luogo a procedere, di applicazione di cause estintive del reato, quando ne ricorrono le condizioni nella fase antecedente alla emissione del decreto di citazione.
Così ricostruita l’azione penale privata, il tratto distintivo che la distingue dall’attuale ricorso immediato al giudice di pace è rappresentato dal fatto che il pubblico ministero perde il potere di interdire il passaggio dal procedimento al processo, rifiutando di formulare quel capo di imputazione che è oggi essenziale per l’esercizio dell’azione penale, ed arretra su una posizione consultiva (peraltro non obbligatoria ma facoltativa) in ordine al corretto esercizio dell’azione penale.
Queste che si scorgono in superficie sono naturalmente differenze di struttura; ma è anche vero che la diversità di struttura è dominata dalla diversità del risultato che se ne vuole far derivare.
La finalità dichiarata del ricorso immediato al giudice di pace era quella di alleggerire i carichi di lavoro investigativi della polizia giudiziaria e del pubblico ministero sicché la sua struttura organizzativa si arrestava inevitabilmente sulla soglia del processo.
La finalità dell’azione penale privata è, invece, quella di assicurare speditezza processuale sicché la sua struttura è stata costruita per rimuovere i possibili ritardi del pubblico ministero nel determinarsi in ordine all’esercizio o meno dell’azione penale.
Il mutamento che se ne coglie è sensibile. L’azione penale privata si colloca infatti su una posizione di frontiera più avanzata rispetto al ricorso immediato al giudice perché viene fornito alla persona offesa uno strumento processuale che vuole garantire, per i casi in cui per lo stesso fatto non abbia già proposto querela (electa una via, recursus ad alteram non datur), un rapido accesso al giudice per la tempestiva verifica della sua pretesa punitiva.
Il dibattito che ha preceduto e seguito la legge istitutiva della giurisdizione penale di pace ha messo in luce la peculiare funzione di questi, solo in superficie rientrata deflattiva del carico giudiziario “ordinario”.
Ed infatti, nella Relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 274 del 2000 è sottolineato che il “processo, in parte inevitabile, di ampliamento dell’area penalmente rilevante ha comportato una progressiva divaricazione tra le ragioni della giustizia e le esigenze del cittadino comune, che lamenta una intollerabile lentezza, quando non addirittura un deficit della risposta dello Stato”. Perciò si ritenne che “la dislocazione sul territorio del giudice di pace in uno con la sua caratterizzazione professionale costituiranno un riavvicinamento della collettività all’amministrazione della giustizia anche nel delicato settore del diritto penale” che, proprio per l’attribuzione della competenza penale al giudice di pace, acquista e realizza “la nascita di un diritto più leggero, dal volto mite e che punta dichiaratamente a valorizzare la conciliazione tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti”.
In questo contesto appariva opportuno e doveroso l’ampliamento delle funzioni della giurisdizione penale per aprirne le prospettive alle nuove potenzialità dell’art. 27 comma 3 Cost., facendo ricadere in diverse forme di giurisdizione – conciliativa e riparatoria; non mediativa, come si è detto – il programma costituzionale ed un più penetrante ruolo della vittima nella giurisdizione panale.
Ed invero, nella richiamata Relazione veniva evidenziata “la peculiare funzione conciliativa dell’udienza di comparizione […] valorizzata appunto prevedendo nei casi di reati perseguibili a querela un intervento compositivo ad opera del giudice di pace, tenuto a procedere al tentativo di conciliazione delle parti private, finalizzato alla remissione della querela”; anche perché – si disse – “l’attribuzione diretta dell’attività di conciliazione al giudice – anziché al pubblico ministero, parte processuale, alla quale dunque sembra difficile riconoscere un reale ruolo di mediazione – è ora prevista in via ordinaria nel procedimento dinanzi al giudice monocratico ed appare particolarmente congeniale alla natura ed alla vocazione proprie del giudice di pace”.
Il sintagma “giudice di pace” – d’altra parte – è un costrutto politico, ancor prima che giuridico, che sta a significare la specificità che quest’organo di giustizia assume nel quadro dell’ordinamento attraverso la combinazione del dovere del giudicare con quello del promuovere la conciliazione tra le parti.
All’interno di tale qualificazione soggettiva, il riferimento alla “pace” non è infatti neutrale ma significativo dell’innesto, sul tronco della funzione propria dello ius dicere, dell’eguale compito di adoperarsi per la composizione dei conflitti tra privati.
Giudicare e conciliare sono – in altri termini – due aspetti intrecciati di un certo modo di costruire la funzione del giudice di pace che non possono non illuminare la disciplina processuale di riferimento che ne deve essere quindi il necessario riflesso.
Sono queste – dunque – le ragioni per le quali, sebbene nell’ottica della riforma il potere di mediazione venga sottratto alla giurisdizione ed attribuito ad un organo terzo appositamente a ciò predisposto (direttiva 2.4), risulta indispensabile tenere in vita un potere di conciliazione del giudice di pace indipendentemente dal fatto che i soggetti abbiano o meno percorso la via della mediazione.
In particolare, viene previsto che, alla prima udienza di comparizione, il giudice di pace abbia l’obbligo di procedere al tentativo di conciliazione tra le parti presenti.
A tale bidirezionalità funzionale, nella quale la ricerca di pacificazione costituisce un prius rispetto alla trattazione del merito, vien fatta corrispondere una tempistica che fa propria l’indicazione costituzionale di ragionevole durata del processo.
Al tentativo di conciliazione tra le parti, che deve essere necessariamente promosso ed orientato dal giudice con la sola esclusione dei reati di mera condotta, è riservata unicamente la prima udienza di comparizione perché la concentrazione dell’esperimento in tempi stretti e l’ufficialità che l’ammanta rendono il segno della serietà dovuta a quel tipo di approccio anche se le parti potranno comunque provare a conciliarsi in sede extragiudiziaria ed in costanza del processo.
Alla trattazione del merito, conseguente al fallimento della conciliazione, è invece riservato, tenendo conto di eventuali cause di sospensione necessaria del dibattimento un tempo di dodici mesi che viene stimato congruo per pervenire alla decisione.
La sanzione di prescrizione processuale dell’azione penale, che viene prevista per lo sforamento di tale tempo massimo di conclusione, si confida possa dispiegare effetti largamente positivi sulla durata del processo: calmiererà certamente i rinvii immotivati, accorcerà i tempi tra un’udienza e l’altra, chiamerà il giudice ad una maggiore assunzione di responsabilità nella gestione dei tempi e delle cadenze del processo.
La direttiva n. 86.8, seconda parte, prevede una “ridefinizione delle ipotesi di connessione che tenga conto della particolare natura dei reati devoluti alla cognizione del giudice di pace” ed esprime, nella sua laconicità, una rigida scelta di campo ed una altrettanto chiara linea di indirizzo alla quale conformare la disciplina delegata.
All’interno di tale formulazione, la chiave di lettura è rappresentata dal lessico “ridefinizione”, che infatti allude ad una “rivisitazione” e mai comunque ad una “negazione”, ed al suo accostamento alla particolare natura dei reati di competenza del giudice di pace.
E’ stata così rifiutata, affidandone il messaggio alla “ridefinizione”, l’opzione di escludere sempre e comunque una possibile migrazione, dal basso verso l’alto, dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, in applicazione delle regole che governano la connessione c.d. eterogenea, perché una tale rigida separatezza è controindicata per ragioni di economia processuale (duplicazione di procedimenti e possibili contrasti tra giudicati).
Ed è stata rifiutata, nello stesso tempo, e sempre in punto di connessione eterogenea, l’idea opposta di consentire un flusso a maglie larghe perché il risultato che ne deriverebbe sarebbe un sostanzioso svuotamento di competenze del giudice di pace i cui reati verrebbero sistematicamente attratti dal tribunale o dalla Corte di Assise.
Il dovere di coniugare il riposizionamento della connessione eterogenea con la particolare natura dei reati del giudice di pace indica – pertanto – un canale di passaggio assai stretto perché il simultaneus processus travolgerebbe inevitabilmente il tentativo di conciliazione che consegue a quella scarsa offensività che è contrassegno certo dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace.
Sul versante, al contrario, della connessione c.d. omogenea, ovvero tra reati attribuiti alla cognizione di giudice di pace territorialmente diversi, la rivisitazione delle regole generali sarà orientata unicamente da esigenze di celerità e di speditezza processuale.
Il processo penale punta certamente ad accertare se un fatto costituente reato è realmente accaduto e se a porlo in essere è stato il soggetto cui esso è attribuito,. Codesto non è però il fine esclusivo del processo penale davanti al giudice di pace perché il giudizio, tanto nella vigente legislazione che nel presente schema di legge – delega, ne costituisce lo sbocco obbligato solo nella misura in cui sia fallito il tentativo necessario di conciliazione tra le parti venute in conflitto.
A questa specificità non ha corrisposto – fin qui – una adeguata regolamentazione della meccanica processuale perché l’assunzione delle prove dichiarative, in linea con un modello accusatorio imperniato sul concetto di lite, è rimasta nella signoria dei soggetti che ne hanno fatto richiesta i quali possono assumerle direttamente ovvero rimetterne il compito al giudice di pace che può infatti provvedervi soltanto “sull’accordo delle parti” (art. 32 decreto legislativo n. 274/2000).
Ritiene la Commissione – al contrario – che costruire l’intervento del giudice di pace nell’assunzione della prova orale secondo una logica di subalternità, rispetto alla volontà delle parti processuali, sia insufficiente a definire e rendere il ruolo di promotore della composizione del conflitto che egli è chiamato a svolgere, nonostante il fallimento del tentativo fatto alla prima udienza di comparizione, fino alla soglia del giudizio.
L’innovazione, rispetto al presente, è racchiusa in quella parte della direttiva laddove è detto “prevedere che l’acquisizione di prova dichiarativa sia condotta dal giudice”; e tale formulazione, lungi dal testimoniare di un certo recupero del modello inquisitorio, altro non è se non il dovuto riconoscimento ad un contesto scenico che deve rimanere lontano, senza con questo decampare dalla ricerca della verità, da certe esasperazioni delle tonalità che la prassi ha in più occasioni offerto.
Rimettere l’assunzione delle prove orali al giudice di pace non significa, pertanto, che egli ne diventa il centro motorio o, peggio, che egli possa incidere sull’accertamento della verità; significa, molto più semplicemente, che i temi di prova introdotti dalle parti saranno assunti, attraverso il filtro di un giudice che non rimane spettatore passivo, in un contesto che rifiuta l’esasperazione della contesa e che, proprio per questo, rimane sempre aperto a spazi di conciliazione.
Quelle fin qui riassunte sono state linee di scrittura di una disciplina che ha una portata derogatoria rispetto alle norme processuali previste in via generale le quali troveranno pertanto applicazione anche al procedimento ed al processo davanti al giudice di pace nella misura in cui il loro ingresso non sia impedito per ragioni di sistema ovvero espressamente negato, anche quando potrebbero avervi applicazione, da specifiche esclusioni.
E’ questo, in estrema sintesi, il significato della direttiva “prevedere che, in quanto compatibili, si osservino le disposizioni del codice di procedura penale con esclusione di quelle relative alle misure personali coercitive, all’udienza di conclusione delle indagini, al giudizio abbreviato ed all’incidente probatorio” che infatti delinea e descrive una orditura complessa, ma non ambigua, che trova nei principi che regolano il concorso apparente di norme il suo modello astratto di riferimento e che riprende quindi la tecnica legislativa del vigente art. 2 decreto legislativo n. 274/2000.
In quest’opera di misurazione delle concordanze e delle differenze, il solo istituto processuale che ne rendeva obbligata la menzione era l’incidente probatorio dovendo l’inapplicabilità delle misure personali coercitive, dell’udienza preliminare e del giudizio abbreviato già cogliersi dal sistema; ciò nondimeno la Commissione ha ritenuto opportuno richiamarle espressamente per escluderle, in radice, possibili querelles interpretative.
La praticabilità dell’incidente probatorio, che in considerazione della tipologia dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace sarebbe stato comunque del tutto eccezionale, è stata negata sul duplice rilievo che la direttiva 86.2 assicura intanto il compimento di atti irripetibili da parte della polizia giudiziaria e che l’esigenza di tempestiva assunzione delle prove, per ragioni diverse dalla irripetibilità, è largamente salvaguardata dai tempi stretti della fase investigativa e dall’immediato approdo al dibattimento che il procedimento davanti al giudice di pace comunque consente specie a seguito dell’innesto dell’azione penale del privato.
Se è vero, in altri termini, che la funzione propria dell’incidente probatorio è quella di evitare che possano andare dispersi mezzi di prova in ragione dei tempi lunghi che solitamente separano la fase investigativa da quella del giudizio, tale pericolo è già escluso dalla peculiarità di un procedimento che consente di arrivare al dibattimento in tempi assai ravvicinati e non apprezzabilmente diversi da quelli tecnici occorrenti per innescare e completare lo svolgimento dell’incidente probatorio stesso.
Ragioni di sistema ostano invece all’ingresso di misure limitative della libertà personale perché queste, già controindicate rispetto ad un giudizio che punta al superamento dei conflitti, non sono comunque coniugabili con quel modesto disvalore sociale della condotta che la collettività solitamente correla ai reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace.
Da questo punto di vista, la direttiva 3.4, attribuitiva della cognizione al giudice di pace, non è soltanto un criterio di riparto della competenza per materia tra giudice professionale e giudice onorario ma anche un indice di dichiarata ostilità alla coercibilità della libertà personale.
Il profilo basso di sanzione possibile, sospeso tra comminatoria di pene pecuniarie e pene prescrittive, esclude invero già da sé l’applicabilità delle pene detentive ed assume il valore di anticipazione di un rifiuto sistemico di misure coercitive personali che poi si coglie nei passaggi successivi.
L’inizio anticipa cioè la conclusione e questa, alla fine, si ricollega ad esso. Il trattamento sanzionatorio dei reati del giudice di pace esprime infatti un criterio organizzativo completo che non prevede il sacrificio della libertà personale (direttiva 3.4) e questa scelta di politica legislativa si riflette nel successivo divieto di arresto in flagranza e di fermo, implicitamente espresso nelle direttive 42.3 e 42.4, nella conseguente impercorribilità del rito direttissimo perché questo presuppone un arresto (direttiva 85.1) e nel conclusivo divieto di applicazione di misure coercitive personali richiamato expressis verbis nella presente direttiva.
Ancora più rilevante, per segnare le differenze, è la mancanza della udienza di conclusione delle indagini che deriva ancora una volta, prima che dall’esplicito divieto fattone nella presente direttiva, dall’imprinting autenticamente accusatorio del modello di processo penale davanti al giudice di pace e dalla diversa modalità di esercizio dell’azione penale rispetto ai reati tipici del giudice ordinario.
La trasferibilità dell’udienza di conclusione delle indagini dal processo ordinario a quello davanti al giudice di pace non può invero trarsi dalla direttiva 66.1 perché qui essa è strutturata come passaggio obbligato limitatamente alle vicende per le quali l’azione penale è stata promossa con richiesta di rinvio a giudizio; e non la si può neppure fare derivare dalla direttiva 81.2 che, quanto ai casi di citazione diretta davanti al tribunale monocratico, non la prevede infatti come regola ma soltanto in linea eventuale in quanto condizionata ad espressa istanza dell’imputato e comunque preordinata unicamente ad un giudizio con rito abbreviato ovvero a richiesta di condanna o di applicazione della pena.
Lette in comparazione, la direttiva 81.2, da una parte, e le direttive 86.4 e 86.5, dall’altra, forniscono una rassicurante chiave di lettura: in applicazione del canone ermeneutica ubi voluti dixit, ubi noluit tacquit, il sistema mostra chiaramente di avere rifiutato l’applicabilità dell’udienza di conclusione delle indagini ai processi davanti al giudice onorario perché, dopo averla menzionata nella citazione diretta davanti al tribunale monocratico, non ha fatto altrettanto per le citazioni dirette davanti al giudice monocratico di pace promosse dal pubblico ministero e dalla persona offesa.
Le ragioni di sistema che si oppongono ad una diversa lettura hanno, oltretutto, radici più profonde: posto in verità, che l’eventuale udienza di conclusione delle indagini a richiesta dell’imputato dovrebbe inevitabilmente introdurre una richiesta di condanna o di applicazione della pena (non anche il giudizio abbreviato perché questo è escluso espressamente dalla direttiva qui esaminata) verrebbe meno ogni spazio per il tentativo obbligatorio di conciliazione che trova infatti la sua sede propria solo e soltanto nella udienza di prima comparizione al dibattimento e che è strategicamente servente al superamento dei conflitti interpersonali e quindi ad un tipo di giustizia che sia più vicino ad interessi quotidiani del cittadino.
L’esplicito divieto di udienza di conclusione delle indagini fatto nella direttiva non è peraltro pleonastico ma indicativo, in modo indiretto, della inapplicabilità dei riti c.d. alternativi che sono infatti azionabili solo in quel contesto e che vengono così esclusi perché incompatibili con la necessità doi assicurare un’adeguata tutela delle ragioni della persona offesa ed una pubblica occasione di confronto.
Il meccanismo di proroga delle indagini (direttiva 60.2) non è, nel sentire della Commissione, compatibile con la direttiva 86.2 che prevede infatti un primo termine (da definire, ma congruo) concesso alla polizia giudiziaria per lo svolgimento dell’attività d’indagine assunta d’iniziativa e la possibilità, per il pubblico ministero, di disporre le integrazione egli approfondimenti necessari entro il termine ultimo di un anno dalla acquisizione della notizia di reato.
Nella sua semplicità, la legge 30 luglio 1990 n. 217, istitutiva del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, esaltava il necessario rapporto fiduciario tra patrocinante e patrocinato prevedendo che le parti private che vi erano ammesse, per avere un reddito inferiore ad una certa soglia di povertà, potessero nominare un difensore scegliendolo tra gli iscritti all’albo professionale del distretto di Corte di appello nel quale aveva sede il giudice davanti al quale pendeva il procedimento (artt. 1, 3 e 9 della legge).
Veniva data – così – una prima seria attuazione al precetto costituzionale espresso dal terzo coma dell’art. 24 Cost. e venivano create, al tempo stesso, le premesse per successivi adeguamenti e sviluppi che in effetti sopraggiunsero con l’art. 17 della legge 29.3.2001 n. 134 (successivamente trasfuso nell’art. 81 del Testo Unico 30 maggio 2002 n. 115 sulle spese di giustizia) che assicurava una alta professionalità dei patrocinatori potendo la scelta cadere unicamente su avvocati che avessero una anzianità professionale non inferiore a sei anni e che si fossero mostrati interessati a tale tipo di incarico dandone la disponibilità all’ordine professionale di appartenenza che li inseriva in un apposto elenco.
Il fatto che tale disciplina abbia passato il vaglio di costituzionalità, vincendo le riserve che la volevano lesiva del diritto di scegliere liberamente il proprio difensore senza la previsione di una soglia minima di anzianità professionale (Corte costituzionale, sentenza n.299/02) e la presa d’atto della avvenuta riduzione dello sbarramento a soli due anni dall’iscrizione nell’Albo degli avvocati (art. 2 della legge n. 25/05) non possono d’altra parte essere di ostacolo, in una sede in cui la disciplina processuale viene interamente ridisegnata, ad una riconsiderazione dell’istituto e quindi alla ricerca di requisiti di anzianità meno elevati di quelli attualmente previsti.
In questa direzione, ritiene la Commissione che non distinguere tra processo ordinario e processo davanti al giudice di pace e quindi applicare meccanicamente a questo una regola che è stata pensata e impostata nei suoi fondamenti quando la attribuzione di competenze penali al giudice di pace non era ancora entrata in vigore (2 gennaio 2002), significhi in qualche misura guardare al nuovo attraverso la lente deformante del passato.
La riserva della difesa a spese dello Stato ai soli avvocati iscritti all’albo professionale da almeno due anni giova infatti a far comprendere quanto ad un processo penale fortemente tecnico serva una difesa che renda effettiva e credibile il patrocinio ma assai meno vale a far capire il perché una eguale prestazione di qualità non possa essere garantita, in un giudizio di pace che oltretutto punta alla conciliazione più che alla definizione del merito e nel quale si dibattono comunque vicende minori, anche da laureati in giurisprudenza abilitati da almeno un anno al patrocinio davanti al tribunale monocratico e quindi per fattispecie di reato per le quali il trattamento sanzionatorio è più afflittivo di quello previsto per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace.
L’iscrizione all’Albo da almeno un biennio è garanzia, in altri termini, di una partecipazione di qualità offerta al non abbiente nel processo ordinario nel quale le strategie processuali richiedono sperimentate esperienze ed assoluta padronanza delle regole processuali che governano la fase delle indagini preliminari ed i riti alternativi. Una eguale previsione anche per il processo davanti al giudice di pace, nel quale la fase investigativa è molto semplificata ed i riti alternativi addirittura assenti, assumerebbe al contrario il significato di travestimento dotto di una conventio ad escludendum priva, in quanto tale, di sostenibile ragionevolezza.
Non secondaria, in questa stessa direzione, è la ricaduta positiva per le sostanze dell’erario che certamente deriverebbe dall’apertura qui suggerita: gli onorari ed i diritti previsti dalla tabella forense recepita dal D.M. giustizia 8.4.2004 n. 127 sono infatti ridotti della metà (art. 7 del D.M. citato) per i praticanti ammessi al patrocinio, con conseguente risparmio di una voce di spesa che incide in modo crescente sul bilancio del ministero della giustizia.
All’interno di una direttiva così necessariamente aperta (“predeterminazione dei casi di inappellabilità delle sentenze del giudice di pace”) e la cui sorte attuativa dipende da come sarà normato il giudizio di appello in generale, ritiene la Commissione che l’individuazione dell’organo giudicante in un giudice collegiale si lasci preferire ad un giudice singolo (oggi è il tribunale monocratico) anche per evitare che possa accadere che l’intero giudizio di merito, ove il giudice del gravame dovesse essere impersonato da un giudice onorario di tribunale, rimanga interamente affidato alla magistratura non professionale.
Sul punto, anziché guardare alla Corte d’appello la cui sede è solitamente così lontana dal giudice di prima istanza da rendere virtuale il mezzo di gravame, misura organizzativa congrua appare l’individuazione del giudice di secondo grado nel tribunale collegiale del circondario in cui ha sede l’ufficio del giudice di pace che ha emesso la sentenza.
Quanto al resto, la banda sonora è – certo – appena percettibile ma il segnale della direttiva è sufficientemente chiaro: evitare che possa esserci sovrapposizione tra la disciplina dell’appello avverso le sentenze del giudice ordinario e quelle del giudice di pace, come sarebbe stando a quanto previsto dalla terza preposizione della direttiva 86.8, e quindi limarne il campo di applicazione in ragione dell’esigenza di semplificazione contenuta nella direttiva 1.7.
A tal riguardo, in applicazione del c.d. principio di soccombenza, l’appello andrebbe riservato alla parte non vittoriosa: l’imputato non potrà pertanto appellare le sentenze che non si sostanzino in un verdetto di condanna mentre pubblico ministero e persona offesa che ha esercitato l’azione penale privata potranno appellare unicamente le sentenze che abbiano mandato l’imputato esente da pena.

28. Il regime delle impugnazioni
Il codice del 1988 ha sostanzialmente riproposto, pur nel mutato modello processuale, l’impianto del codice del 1930 con le modifiche rese necessarie dalle patologie evidenziatesi nella prassi dalle esigenze di semplificazione, in relazione all’oggetto del relativo giudizio, dalle esigenze di semplificazione, dagli interventi della Corte costituzionale.
Nel corso degli anni é cresciuto il dibattito dottrinale, soprattutto in relazione al giudizio di secondo grado, particolarmente in riferimento alla compatibilità del processo di appello con il modello accusatorio. A tale proposito, si é prospettata la possibilità d’una profonda revisione del giudizio d’appello sia attraverso il ricorso ad un doppio processo con rito orizzontale e, sia secondo lo schema della “doppia conforme” articolato in un giudizio rescindente ed in un giudizio rescissorio.
Com’è noto, al di là di altre modifiche che hanno interessato soprattutto la Cassazione (sezione filtro; ricorso straordinario per errore di fatto), il sistema dei gravami è stato significativamente riformato con la c.d. legge Pecorella (n. 46 del 2006) che ha modificato sia i casi di ricorso per cassazione, sia le situazioni di legittimazione ad appellare.
E’ altrettanto noto come - in relazione a quest’ultimo profilo - la riforma sia stata “demolita” dall’intervento della Corte costituzionale (C. cost., n. 26 del 2007) che “di fatto” ha riproposto il vecchio modello strutturale dei gravami. Anche per questa ragione, rafforzata dalle necessarie modifiche ordinamentali che una diversa situazione avrebbe imposto, si è ritenuto di conservare larga parte delle scelte del codice del 1988 con gli aggiustamenti che sembravano necessari.
Sul tema la Commissione si è interrogata, soprattutto nel periodo di vigenza della c.d. legge Pecorella.
In premessa, si è posto il tema delle ragioni della riforma, ricavando dalla Relazione che accompagna la Proposta di legge il bisogno di raccordo normativo con l’articolo 2 del Protocollo numero 7 della Convezione Europea, utile a realizzare la ragionevole durata del processo; nonché delle incisive sentenze della Corte Costituzionale (la n. 98 del 1994; la n. 280 del 1995), una ricognizione più attenta circa le radici ideali e funzionali del doppio grado di giurisdizione di merito e gli effetti, sul sistema complessivo delle impugnazioni, della abolizione del potere d’appello del pubblico ministero, in particolare.
Ebbene, senza addentrarsi sul contenuto complessivo del citato articolo 2 del Protocollo numero 7 ed avendo già esaminato il problema del rapporto tra norma ordinaria e norma “convenzionale” (= termine qui usato nella più ampia accezione) (cfr. § 6), la Commissione non ha potuto ignorare – quanto all’appello – la posizione sostenuta anche di recente da insigni giuristi.
In questo ambito, l’osservazione secondo cui, nel giusto equilibrio tra libertà e sicurezza, «il rilievo costituzionale dell’obbligo dell’azione penale del pubblico ministero attiene al momento iniziale dell’azione penale, senza il minimo, neanche implicito, riferimento ai momenti successivi, e tanto meno a giudizi di impugnazione» (Corte cost., sentenza n. 280 del 1995) sembra privare di copertura costituzionale il potere del pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione. Peraltro, la contrapposizione storica con le esigenze di sicurezza dello Stato fascista e lo sconcerto della coscienza sociale, che mina la prevedibilità del giudizio e la credibilità della condanna quando un giudice ritiene colpevole un uomo che un altro giudice ha prima ritenuto innocente, sono i presupposti in virtù dei quali si è convinti «che lo Stato democratico-liberale, a differenza dello Stato totalitario, impone all’autorità di spogliarsi del magistero punitivo quando l’innocenza dell’imputato sia proclamata all’esito del giudizio di primo grado. Peraltro, il tema è stato posto, in questa prospettiva, non quanto alla plausibilità ed alla fondatezza del doppio grado “in sé”, e cioè sulla sua dimensione “impersonale” di rimedio offerto alle parti, quanto sulla plausibilità del doppio grado rispetto a ciascuna parte, perché di questo in sostanza si discute: del diritto di impugnare, che è essenzialmente il diritto dell’imputato, da un lato, e il diritto del pubblico ministero, dall’altro. E pure se si riconosce la identità di situazione giuridica (e cioè lo stesso diritto potestativo), non per questo si riconosce a priori che essa abbia, per ciascuna parte a cui spetta, lo stesso fondamento.
Né in questo contesto, si è potuto accantonare la forza dimostrativa dell’art. 111 comma 6 Cost. (ex comma 2: il riferimento, se storicizzato, è significativo delle ragioni della precedente dottrina), sulla quale fondava – e fonda, anche se comunque in termini problematici – la tesi secondo cui l’obbligo di motivazione ha senso, solo ove lo si proietti sulle esigenze, sociali e/o individuali di controllo del provvedimento nel merito, a cui sembra fare eco, oggi, il nuovo comma 2 dell’art. 111 Cost.
La “parità delle parti” nel processo penale è tema complesso. Per esemplificazione utile a svincolare l’argomento dai connotati ideologici, funzionali e strutturali che legittimano quella formula, è opportuno – anche sulla scorta della recente pronuncia della Corte – qui riconoscerle un significato “minimo” – certamente valido anche per il processo penale – indispensabile ai fini del prosieguo del discorso. In questo senso si intende per “parità” delle parti la identità delle occasioni per la ricostruzione e per la rappresentazione del fatto al giudice. Quindi, è necessario presupposto di un sistema normativo. Ed anche se il legislatore può scegliere la strada per la delineazione di un sistema differenziato di azioni e controlli; difficilmente può andare oltre questi confini.
E’ dunque la recente pronunzia costituzionale, non disconoscendo i suoi precedenti in virtù dei quali «il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.), perché di questo non costituisce estrinsecazione necessaria» ( C.cost., sentenza n. 98 del 1994, n. 363 del 1991, n. 426 del 1998, n. 421 del 2001, n. 347 del 2002 e n. 165 del 2003), punta sulla nuova idea della “parità elastica” per la ricognizione delle situazioni soggettive protette nel e col processo penale.
Essa, insomma, riconosce la pluralità di gradi come situazione progressiva per l’esercizio dei diritti delle parti, in ragione del principio di “soccombenza”, riconosciuto, ora, anche per il processo penale e che, quindi, guida l’opera di riforma.
Peraltro, è abbastanza agevole riconoscere che il tema delle impugnazioni intercetta molte questioni: fra queste le eccezioni in punto di competenza e quelle in materia di nullità, di inutilizzabiltà, di inammissibilità, di decadenza; quelle sulla prescrizione e sulle cause estintive nonché, se introdotta, quella sulla decadenza dall’azione. Solo per citare le più rilevanti in ordine alle quali le varie soluzioni prospettabili possono avere conseguenze significative. Inoltre, oltre alle sentenze (di non luogo o dibattimentali) il tema dei gravami interseca i problemi delle misure cautelali e delle numerose pronunzie incidentali lungo tutto l’arco del procedimento.
Limitando il discorso all’impugnazione nei confronti delle sentenze dibattimentali – essendo quello attinente alle decisioni di non luogo condizionato dalle risultanze del dibattito sugli esiti dell’udienza di conclusione delle indagini, nonché quello relativo ai riti speciali strettamente legato alla relativa disciplina alla quale si rimanda – il punto di partenza di una proposta di riforma pare dover essere la riscrittura dell’attuale art. 546 c.p.p. In particolare con la direttiva n. 25.1, si é previsto di articolare maggiormente la sentenza, così da prefigurare una sorta di schema legale vincolato, nel quale possano essere ricompresi tutti gli elementi decisori e gli snodi motivazionali. Questo elemento dovrebbe costituire la premessa sia per un più penetrante controllo di ammissibilità ex artt. 581 e 591 c.p.p., sia per una più chiara determinazione del devolutum.
Raccogliendo le “aperture” della Corte costituzionale sul punto, contenute nella già citata sent. n. 26 del 2007, si é ritenuto di circoscrivere - secondo tradizione - la legittimazione del pubblico ministero e dell’imputato ad appellare le sentenze di condanna e di proscioglimento in relazione alla tipologia delle ipotesi incriminatrici. E’ rimasto a lungo aperto il discorso in ordine alla conservazione delle previsioni relative al c.d. concordato sui motivi e sulla pena (artt. 599 e 602 c.p.p.).
Invero, esclusa ogni connotazione premiale, si tratta di una sentenza di condanna, anzi di una richiesta di condanna a richiesta dell’imputato. Pertanto, la soluzione di non riproporre l’istituto é risultata condizionata dall’introduzione della richiesta (premiale) di una condanna nel corso dell’udienza di conclusione delle indagini. A fini deflativi, si é ritenuto di prevedere una disciplina semplificata di dichiarazione di inammissibilità nei casi in cui l’invalidità dell’atto possa emergere senza valutazioni che superano l’oggettività delle situazioni emergenti. Recuperando i riferimenti alla soccombenza di cui alla sentenza n. 26 del 2007 e comunque sia, con riferimento alla parità delle parti, al canone della durata ragionevole ed al principio di economia processuale, si é pensato che, fatti salvi “gravi motivi”, la parte che ha proposto un gravame inammissibile ovvero rigettato, sarà condannata a rifondere le spese processuali.
Quanto, infine, alla Cassazione, non può ignorarsi il tema centrale emerso soprattutto negli ultimi tempi, quello cioè della “stabilità” dei pronunciati in punto di diritto quale frutto dell’opera ermeneutica della Corte.
Sul punto, la dissonanza tra articolo 111 comma 2 Cost. e l’articolo 65 ord. giud. va razionalizzata. Invero, se l’indipendenza interpretativa del giudice è valore irrinunciabile in democrazia, allo stesso livello è valore essenziale della giurisdizione, non un’astratta pretesa nomofilattica, ma la “uniformità” quale proiezione giurisprudenziale della certezza del diritto e, quindi, della uguaglianza di trattamento dell’individuo di fronte alla legge.
Sicché, il proliferare di interpretazioni discordi, se non contrastanti, ferisce, soprattutto in materia di attribuzioni di poteri processuali, il corretto esercizio della giurisdizione di merito, costituendo indiretta causa del moltiplicarsi dei ricorsi per cassazione.
L’ampio dibattito svolto in Commissione, alla fine, ha suggerito l’adozione di un meccanismo – noto all’ordinamento – capace di eliminare tali distonie attraverso la previsione di un più moderno e razionale sistema di rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite (cfr. direttiva n. 102.3). Sul punto, non si è ritenuto di accogliere le osservazioni dell’Ufficio Legislativo del Ministero in data 28 genneio 2008, trattandosi di materia inerente al potere delegato.
In prospettiva diversificata, è’ sembrato indispensabile intervenire sul terreno della revisione anche al fine di conferire distinzione concettuale e semantica all’ipotesi di “revisione” a seguito di condanna da parte della Corte sui diritti dell’uomo “per ingiusto processo”.
Così, nel capitolo dei mezzi di impugnazione straordinaria (punto n. 104) si affida al legislatore delegato la predeterminazione dei casi di ricorso straordinario (punto 104.1) e così per la revisione, per la quale, però, si precisano limiti (punti 104.2 e 104.3), competenze e garanzie (punti 104.4-104.7).
Viceversa, lo si investe del potere di individuare uno strumento “diverso dalla revisione” per l’evenienza innanzi registrata, purché il vizio abbia avuto effettiva incidenza sull’esito del giudizio (punto 104.8); e ciò proprio perché l’ipotesi è estranea all’idea di revisione che attiene – appunto – alla prova.

29. Il giudice della pena
Nel corso dei lavori della Commissione è stata ampiamente discussa la proposta di riservare alla fase cognitiva la sola decisione circa la responsabilità dell’imputato, trasferendo alla fase esecutiva tutte le decisioni concernenti la quantificazione e l’irrogazione della pena. La proposta, per le ragioni che saranno immediatamente illustrate, non ha trovato accoglimento: nell’assegnare al “giudice della pena” il compito di “conoscere dell’esecuzione delle pene”, la direttiva 105.4 conferma, dunque, la scelta tradizionale di affidare al giudice della cognizione la determinazione iniziale del trattamento sanzionatorio.
L’idea di strutturare il processo penale secondo una logica rigidamente “bifasica” nasceva dalla constatazione delle condizioni di innegabile sofferenza nelle quali versano le attuali dinamiche di commisurazione della pena in sede cognitiva. Benché l’art. 187 c.p.p. alluda espressamente alla prova dei «fatti che si riferiscono […] alla determinazione della pena», manca, di regola, nel corso del dibattimento, un’attività istruttoria specificamente rivolta all’accertamento delle circostanze rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art. 133 c.p.; e il divieto di sottoporre a perizia il carattere e la personalità del reo (art. 220 comma 2 c.p.p.) – di gran lunga la più utile e la più significativa delle prove che potrebbero essere acquisite a tal fine – rende spesso illusoria la pretesa che il giudice della cognizione applichi la sanzione penale calibrandone qualità e quantità, come vorrebbe la Corte costituzionale, sulle esigenze di rieducazione del colpevole. Le conseguenze sono note: diffuso clemenzialismo, sistematica prossimità ai minimi edittali, pseudo-motivazioni stereotipe in punto pena. Per giunta, la metamorfosi funzionale delle misure alternative alla detenzione in chiave prevalentemente sostitutiva della detenzione stessa, unita al cospicuo incremento delle misure applicabili ab initio, fa sì che la pena detentiva irrogata dal giudice della cognizione assuma molto spesso connotazioni meramente virtuali e simboliche, e che la “vera” commisurazione della pena, agli occhi della collettività, risulti essere quella effettuata dal tribunale di sorveglianza in sede di applicazione ab initio delle misure alternative alla detenzione. Il danno, in termini di effettività del sistema sanzionatorio e di fiducia dei consociati nella giustizia penale, è molto evidente. Per porre rimedio a tale situazione occorrerebbe dunque: 1) rendere effettivo il giudizio sulla personalità dell’imputato, eliminando il divieto di perizia criminologica; 2) accorpare in un solo momento commisurativo le decisioni concernenti la determinazione iniziale del trattamento sanzionatorio, omologando sul piano sistematico pene e misure alternative ab initio.
In accordo con queste premesse, una prima soluzione esaminata nel corso dei lavori della Commissione è stata quella di mantenere ferma la struttura monofasica del giudizio di cognizione abrogando la norma che vieta di effettuare accertamenti peritali sulla personalità dell’imputato e ampliando il ventaglio delle misure sanzionatorie irrogabili. Questa soluzione si è tuttavia arenata contro i due robusti argomenti che vengono tradizionalmente messi in campo a sostegno del divieto di perizia psicologica: l’inopportunità di ricorrere a un’attività istruttoria dai costi umani e processuali molto elevati quando ancora non è stata accertata la responsabilità dell’imputato; il rischio di condizionamenti contra reum dell’organo giudicante, chiamato a pronunciarsi sul fatto e non sulla persona. Di qui – ferma l’esigenza di equiparare pene e misure alternative ab initio, della quale (oltre che di una meditata riscrittura dei criteri di commisurazione della pena) dovrà farsi carico la Commissione di riforma del codice penale – la proposta di scindere il giudizio di colpevolezza dell’imputato dal giudizio di commisurazione della pena, secondo lo schema procedimentale “a due fasi” in precedenza richiamato.
Il modello bifasico conosce tuttavia due varianti tra loro assai differenti. La prima, di derivazione anglosassone – già sperimentata nel progetto preliminare di codice di procedura penale del 1978, e riproposta, da ultimo, nell’art. 12 disp. coord. del progetto di riforma del codice penale elaborato nel 2001 dalla Commissione Grosso –, prevede che il giudice della cognizione, al momento della pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, differisca a una successiva udienza la decisione sul trattamento sanzionatorio quando appaia necessario acquisire a tal fine ulteriori prove nonché approfondire l’indagine sulla personalità dell’imputato. Si tratta di una soluzione che, a giudizio della Commissione, presenta due decisive controindicazioni. In primo luogo, nel nostro sistema processuale – a differenza di quanto accade nei paesi anglosassoni – il giudice d’appello rivaluta an e quantum della responsabilità: esiste, dunque, il rischio che gli esiti dell’indagine personologica condizionino il suo giudizio sulla colpevolezza dell’imputato. In secondo luogo, l’attuale proliferazione dei momenti commisurativi rappresenta, a ben vedere, un paradosso solo apparente. Rivalutare la persona del condannato in chiave rieducativa nel momento in cui l’esecuzione deve prendere l’avvio è un’esigenza che nasce dai tempi lunghi del processo: tra la commisurazione della pena effettuata in sede cognitiva e il momento in cui la pena deve essere concretamente scontata il condannato potrebbe avere già percorso significativi tragitti sulla strada della risocializzazione. La soluzione proposta non risolverebbe dunque il problema: la necessità di un intervento ab initio del giudice dell’esecuzione penitenziaria tornerebbe inevitabilmente a farsi sentire.
Ecco allora la seconda – più radicale – variante di processo bifasico della quale si è discusso nel corso dei lavori della Commissione: trasformare il tribunale di sorveglianza in un «tribunale della pena» competente a emanare, dopo il passaggio in giudicato della sentenza concernente la responsabilità dell’imputato, tutte le decisioni relative al trattamento sanzionatorio. Si tratta di una soluzione che avrebbe presentato, rispetto alla precedente, notevoli vantaggi: 1) escludere, nei confronti dell’organo giudicante chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità dell’imputato, ogni condizionamento psicologico derivante dagli accertamenti compiuti sulla personalità del medesimo; 2) collocare la decisione sulla pena in prossimità della sua effettiva esecuzione; 3) affidare tale decisione a un giudice la cui composizione mista e la cui collocazione distrettuale avrebbero garantito il necessario approccio personologico alla materia trattata e una maggiore uniformità dei trattamenti sanzionatori irrogati sul territorio nazionale. Anche questa proposta, tuttavia, non ha convinto la Commissione. In primo luogo, ha destato preoccupazione l’inevitabile aggravio dei tempi processuali che una simile riforma comporterebbe, tanto più se le decisioni del tribunale della pena dovessero venire assoggettate – come sembrerebbe necessario – a un riesame nel merito oltre che a un sindacato di legittimità. In secondo luogo, sono state evidenziate gravi difficoltà di coordinamento della riforma con la disciplina dei riti alternativi imperniati sulla negoziazione e/o sulla riduzione premiale della pena. Infine, sono state manifestate notevoli perplessità circa la stessa attitudine del tribunale della pena a effettuare una corretta determinazione del trattamento sanzionatorio, essendo indispensabile, a tal fine, una conoscenza del fatto di reato che un simile tribunale – estraneo all’accertamento dell’episodio criminoso e distante anche cronologicamente dal medesimo – non potrebbe vantare. Più in generale, si è fatto rilevare come la proposta in discussione sembri nascere dalla convinzione che il dosaggio del trattamento sanzionatorio sia soltanto – o possa diventare soltanto – un problema di valutazione della personalità del reo in chiave rieducativa. In realtà non è così: moltissime circostanze in senso tecnico e molti dei parametri contenuti nell’art. 133 c.p. (come la natura, la specie, l’oggetto, i mezzi, il tempo, il luogo dell’azione, oppure la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa) richiedono accertamenti e giudizi di natura oggettiva, legati in maniera indissolubile alla ricostruzione del fatto di reato e svincolati da qualunque considerazione legata alla persona del reo e da qualunque valutazione prognostica circa la sua auspicata risocializzazione. Tali accertamenti e tali giudizi non potrebbero, dunque, essere sottratti al giudice del fatto.
Largamente condivisa, al contrario, è risultata l’esigenza di innalzare gli standards di giurisdizionalità della fase esecutiva, sul presupposto di una tendenziale riferibilità anche a tale fase – se non di tutti i canoni del “giusto processo” di cognizione – quanto meno dei principi consacrati nei primi due commi dell’art. 111 Cost. (terzietà e imparzialità del giudice, parità delle armi, contraddittorio, ragionevole durata).
Sulla base di tale presupposto, la Commissione ha deciso, in primo luogo, di sovvertire la regola della tendenziale identità tra giudice che ha emesso il provvedimento da eseguire e giudice competente a curarne l’esecuzione. Si è ritenuto, infatti, che tale regola – già severamente criticata in dottrina prima della riforma costituzionale del 1999 – non potesse sopravvivere in un sistema costituzionale che pretende ormai espressamente l’imparzialità e la terzietà dell’organo giudicante. E’ stato conseguentemente accolto l’invito della dottrina alla «realizzazione di un controllo imparziale ad opera di un giudice davvero terzo rispetto alle pregresse vicende del giudizio di merito, […] attraverso l’affidamento unitario della titolarità delle attribuzioni decisorie su tutte le questioni esecutive a una struttura giudiziaria autonoma». Tale struttura giudiziaria autonoma è stata individuata in un “giudice della pena” da istituirsi presso ogni distretto di corte d’appello, le cui competenze andranno predeterminate nel rispetto dei principi di precostituzione e naturalità e la cui composizione – esclusivamente “togata” o mista – potrà variare a seconda del tipo di provvedimento di adottare («105.1. prevedere l’istituzione, presso ogni distretto di corte di appello, del giudice della pena, diverso da quello della cognizione ed individuato sulla base di criteri predeterminati; prevedere che il giudice della pena, quando delibera in composizione collegiale, sia composto, in casi predeterminati, da giudici togati e da esperti»). In secondo luogo, l’incremento del tasso di giurisdizionalità della fase esecutiva è stato realizzato attribuendo al giudice della pena non soltanto, in via generale, le competenze già attualmente assegnate ai giudici dell’esecuzione e della sorveglianza, ma anche taluni specifici compiti che l’attuale disciplina normativa affida in larga misura ad organi amministrativi (quali le decisioni in materia di trattamento penitenziario) oppure al pubblico ministero (quali l’emanazione dell’ordine di esecuzione, il computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo e l’emanazione del provvedimento di cumulo delle pene). Più esattamente, sono state individuate due macroaree di intervento del giudice della pena – coincidenti con la sua competenza a “conoscere dell’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali divenuti irrevocabili” (direttiva 105.2) e con la sua competenza a “conoscere dell’esecuzione delle pene, delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi e delle misure di sicurezza” (direttiva 105.4) – e sono state elencate, di seguito, alcune competenze specifiche che il legislatore delegato dovrà necessariamente assegnare al giudice nell’ambito di tali macroaree. Questa elencazione non va tuttavia intesa come divieto, per il legislatore delegato, di attribuire al giudice della pena altre competenze all’interno delle due segnalate macroaree di intervento: la locuzione “prevedere in particolare”, impiegata a tal fine, è da leggersi dunque come sinonimo di “prevedere quanto meno”, “prevedere tra l’altro”.
Per contro, sono stati espressamente fatti salvi “casi predeterminati di attribuzione della competenza al giudice che ha emesso il provvedimento” (direttiva 105.2): ciò al fine di scongiurare l’inevitabile appesantimento della procedura che deriva dalla competenza distrettuale del giudice della pena in presenza di adempimenti esecutivi di modesto rilievo e non incidenti sulla persona del condannato (ad esempio, la restituzione delle cose sequestrate) o per i quali sia necessario procedere con particolare urgenza. In quest’ottica, risultano “assorbiti” i rilievi dell’Uficio Legislativo del Ministero del 28 gennaio 2008, pur essendo consapevole la Commissione della ricaduta organizzativa di simili scelte, peraltro di competenza di altre istituzioni.
Nel corso dei lavori della Commissione si è a lungo discusso dell’opportunità di trasferire all’organo giurisdizionale la competenza a emanare l’ordine di esecuzione nonché i provvedimenti di cumulo delle pene concorrenti e di computo del c.d. “presofferto”. Si è infine optato per la soluzione affermativa. L’attribuzione al pubblico ministero della competenza a emanare provvedimenti direttamente incidenti sulla libertà personale del condannato è parsa non soltanto lesiva del principio della par condicio partium di cui all’art. 111 comma 2 Cost., ma anche eccentrica rispetto alla più rigorosa lettura dell’art. 13 Cost. (e della locuzione “autorità giudiziaria” in essa contenuta) che ispira la disciplina delle misure cautelari personali. In particolare, si è ritenuto che non valgano ad attenuare il contrasto con le disposizioni sovraordinarie né il rilievo – contenuto nella Relazione al progetto preliminare del codice 1988 – secondo il quale, nell’emanazione di tali provvedimenti, non vi sarebbe spazio per l’uso di poteri autenticamente decisionali, né il rilievo che le garanzie di giurisdizionalità sarebbero comunque assicurate dalla facoltà, attribuita all’interessato, di contestare di fronte al giudice dell’esecuzione il contenuto dei suddetti provvedimenti. Al primo rilievo è agevole obiettare che – al contrario – l’ordine di esecuzione, il decreto di computo del presofferto e il decreto di cumulo delle pene concorrenti sono provvedimenti frutto di scelte del pubblico ministero connotate, molto spesso, da ampi margini di discrezionalità tecnica; al secondo, che il controllo giurisdizionale interviene soltanto in un momento successivo all’avvenuta restrizione della libertà personale del condannato ad opera della sua controparte processuale.
Nel tentativo di contemperare le esigenze garantistiche sottese al coinvolgimento del giudice nella procedura di emanazione dei suddetti provvedimenti e l’esigenza di non appesantire eccessivamente tale procedura, spesso caratterizzata da un ridotto livello di conflittualità, si è previsto che il giudice possa emanare l’ordine di esecuzione, il decreto di computo del presofferto e il provvedimento di cumulo delle pene concorrenti in forme semplificate, assimilabili a quelle del c.d. procedimento de plano di cui all’attuale art. 667 comma 4 c.p.p. (richiamate, in termini generali, nell’inciso «salvo casi predeterminati di deliberazione senza formalità di procedura» contenuto nella direttiva 105.5). Più specificamente, si è previsto che il giudice, in tali casi, potrà «provved[ere] senza formalità, su richiesta delle parti»; che «il pubblico ministero, l’interessato e il difensore [potranno] proporre opposizione davanti allo stesso giudice»; e che «in casi predeterminati, con riguardo alla durata della pena da eseguire, fino alla scadenza del termine per proporre opposizione e, laddove questa sia presentata, sino alla decisione del giudice della pena, l’esecuzione del provvedimenti [rimarrà] sospesa» (direttiva 105.3). Su quest’ultimo punto si sono registrati dissensi. A giudizio di alcuni commissari, prevedere come eccezione – anziché come regola – la non immediata esecutività dei provvedimenti di cui si discute avrebbe determinato un sensibile ridimensionamento della portata garantistica della riforma: attuata la delega, al condannato sarebbe stato finalmente assicurato il controllo preventivo dell’organo giurisdizionale sull’esistenza delle condizioni per l’emanazione del provvedimento di carcerazione; ma, come in passato, egli avrebbe potuto esercitare solo a posteriori, salvi casi eccezionali, il suo diritto al contraddittorio. Su tale orientamento ha tuttavia prevalso l’opinione di chi ha fatto rilevare come una generalizzata non esecutività dell’ordine di esecuzione (e dei provvedimenti connessi) ne avrebbe frustrato la reale efficacia esecutiva, mettendo in crisi il pincipio di effettività della sanzione penale. Si è dunque limitata la non esecutività del provvedimento a «casi predeterminati», da individuare «con riguardo alla durata della pena da eseguire», anche in accordo con le esigenze che ispirano la vigente disciplina del decreto di sospensione dell’ordine di esecuzione emanato dal pubblico ministero.
In terzo luogo, l’obiettivo di elevare il tasso di giurisdizionalizzazione della fase esecutiva è stato perseguito attraverso l’incremento delle garanzie riconosciute alle parti nell’ambito del procedimento di fronte al giudice della pena. Oltre all’invito a dare attuazione “piena” a tali garanzie nonché al principio del contraddittorio – invito che andrà raccolto dal legislatore delegato anche nel disciplinare il diritto del condannato alla difesa tecnica nell’ambito del procedimento di cui trattasi –, la direttiva 105.5 impone l’obbligo di «prevedere il diritto del condannato di partecipare alle udienze dinanzi al giudice della pena inerenti al trattamento sanzionatorio o penitenziario». Scopo di tale direttiva è impedire la riconferma della soluzione normativa attualmente adottata dall’art. 666 comma 4 c.p.p., che, come è noto, conferisce il diritto di presenziare all’udienza al solo interessato che ne faccia richiesta e che sia libero oppure sia detenuto o internato in luogo posto al’interno della circoscrizione del giudice procedente. L’opinione della Commissione è che tale soluzione normativa sacrifichi il diritto di difesa del condannato sull’altare di esigenze organizzative e di sicurezza penitenziaria che non possono vantare lo stesso rango costituzionale; si è inoltre ritenuto che il rischio di iniziative strumentali imperniate sull’abuso del potere di interpello del giudice della pena – e sul conseguente dovere di quest’ultimo di disporre la traduzione del condannato detenuto – possa venire scongiurato da una rigorosa individuazione dei casi di inammissibilità della richiesta per manifesta infondatezza.
Le direttive 106 e 107 assegnano infine al legislatore delegato il compito di disciplinare gli effetti impeditivi e impositivi del giudicato penale (106. «prevedere che la persona prosciolta o condannata con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non possa essere nuovamente sottoposta a procedimento penale per il medesimo fatto; disciplina degli effetti del giudicato penale nei giudizi civili, amministrativi e discipinari») e gli obblighi di natura riparatoria derivanti dall’ingiusta detenzione e dall’errore giudiziario (107. «riparazione dell’ingiusta detenzione e dell’errore giudiziario»).

30. I rapporti giurisdizionali con autorità straniere: princìpi generali in tema di cooperazione a fini di giustizia penale
La conservazione della tradizionale regola di prevalenza sul diritto processuale interno delle norme di diritto internazionale, convenzionale e generale, è imposta da fondamentali, intrinsecamente chiare ed altrimenti non tutelabili ragioni di coerenza sistematica e di organicità dei processi di adeguamento della legislazione nazionale agli obblighi assunti dalla Repubblica nei rapporti con la comunità internazionale.
È così ribadito, ma depurato da ogni improprio riferimento a specifiche fonti convenzionali, il principio secondo il quale le relazioni con le competenti autorità di altri Stati o con organi di giurisdizione giustizia internazionale a fini di giustizia penale sono disciplinate dalle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale e che le norme contenute nel codice di procedura penale e in altre leggi dello Stato si applicano soltanto se le norme internazionali anzidette manchino o non dispongano diversamente.
Valore generale nelle procedure di cooperazione giudiziaria va assegnato al consenso dell'interessato, quando considerato necessario per l'espletamento di determinati atti, imponendosi la fissazione di condizioni uniformi, compatibili con la serietà e la stabilità degli impegni di cooperazione, per la revoca del medesimo.

31. L'assistenza giudiziaria
La Commissione ha approvato all’unanimità, nelle sedute plenarie dell’8 marzo e del 2 maggio 2007, le proposte di direttive elaborate dalla VIII Sottocommissione in materia di disciplina processuale dell’assistenza giudiziaria.
Unanime, in particolare, è stato il riconoscimento della necessaria premessa della manovra riformatrice che si propone: la profonda consunzione delle vigenti forme processuali dell’assistenza giudiziaria e la loro pratica inidoneità a riflettere pienamente le istanze di semplificazione della cooperazione internazionale largamente affermatesi nell’evoluzione del diritto internazionale.
Anche in ragione della perdurante assenza di una disciplina di adattamento normativo interno coerente con lo Statuto della Corte penale internazionale, si è scelto di non considerare la materia della cd. cooperazione verticale (vale a dire dell’assistenza giudiziaria richiesta da corti internazionali), e di concentrare le prospettive di lavoro sul versante della mutua cooperazione (cd. orizzontale) tra Stati.
In questa prospettiva, se pure la progressiva attuazione nella cornice dell’Unione europea – vale a dire nell’area di cooperazione che assorbe gran parte dei flussi di assistenza giudiziaria ai quali l’Italia è interessata dal punto di vista sia della domanda che dell’offerta di collaborazione interstatuale – del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie (per tacer delle auspicabili proiezioni del processo costituente europeo sul versante dell’integrazione delle strutture giudiziarie) varrà progressivamente a ridurre l’operatività degli scambi che abbisognano dei più tradizionali strumenti dell’assistenza giudiziaria, la riforma della materia codicistica costituisce una prioritaria ed inderogabile necessità, anche nella prospettiva dell’obbligo di ratifica degli strumenti di diritto internazionale (innanzitutto, la Convenzione integrativa sull’assistenza giudiziaria in campo penale fra gli Stati membri dell’Unione europea del 29 maggio 2000 e il suo Primo Protocollo addizionale, ma anche il Secondo protocollo addizionale della Convenzione europea del 1959) che in anni recenti hanno profondamente modificato i tradizionali assetti del diritto internazionale convenzionale riferiti alla materia in esame.
Peraltro, già nelle condizioni date, nell’attuazione delle direttive riformatrici complessivamente riferite alla materia delle relazioni internazionali a fini di giustizia penale, potrà adeguatamente valutarsi l’opportunità di valorizzare ulteriormente l’introduzione di regole speciali per la cooperazione possibile con le autorità di altri Stati dell’Unione europea, anche attraverso una partizione in distinti titoli del Libro del codice di rito penale destinato alla regolamentazione dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere che complessivamente renda immediatamente visibile, a cominciare dall’enunciazione dei canoni generali di attuazione degli strumenti normativi attraverso i quali progressivamente si attua il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, la profonda diversità dei sottosistemi rispettivamente corrispondenti alle relazioni con Paesi membri dell’Unione europea e con gli altri Stati.
Le istanze riformatrici accolte dalla Commissione riguardano, innanzitutto, il versante passivo della assistenza giudiziaria a fini di giustizia penale.
In particolare, con riferimento alle relazioni con le autorità degli altri Stati membri dell’Unione europea, un utile punto di partenza per avere conferma del giudizio preliminarmente espresso in punto di adeguatezza della legislazione nazionale fu offerto già dalla “Relazione sull’Italia” che il Gruppo di valutazione sull’assistenza giudiziaria e le domande urgenti di accertamento patrimoniale e di sequestro dei beni al Gruppo pluridisciplinare “Criminalità organizzata” (GPD) del Consiglio dell’Unione Europea presentò nel maggio 2001, nell’ambito dell’attuazione del meccanismo delle verifiche reciproche dell’attuazione a livello nazionale delle iniziative internazionali adottate in materia di lotta contro la criminalità organizzata previsto dall’azione comune adottata dal Consiglio il 5 dicembre 1997 (in esecuzione alla corrispondente previsione del Piano d’azione comune contro la criminalità organizzata del 28 aprile 1997).
In effetti, nella citata Relazione, la ricognizione del quadro normativo vigente e delle prassi applicative sfociava nell’espressione aperta del dubbio che il sistema italiano di disciplina delle rogatorie passive, definito “troppo pesante”:
- avesse piena conformità allo spirito soggiacente all’accordo di Schengen (art. 53 paragrafo 1), sulla trasmissione diretta all’autorità giudiziaria competente all’esecuzione della rogatoria),
- fosse idoneo ad assicurare la trattazione immediata delle rogatorie urgenti,
- fosse conforme allo spirito degli accordi internazionali più recenti nella parte che subordina al consenso dell’amministrazione centrale la presenza di autorità straniere nel corso dell’esecuzione della rogatoria, sebbene affidata a giudici con competenze locali.
A ciò si aggiunga che la successiva scelta legislativa (l. 367/2001) di subordinare l’individuazione dell’autorità giudiziaria chiamata all’esecuzione delle domande di assistenza giudiziaria aventi ad oggetto atti da compiersi in più distretti al preventivo vaglio della Corte di cassazione ha provocato, come confermato anche nel corso delle audizioni di esperti compiute da questa Commissione, un ulteriore, pesante quanto non necessario, rallentamento delle relative procedure, per ovviare al quale non di rado le autorità di altri Stati ricorrono ad un artificioso frazionamento del contenuto della richiesta di assistenza complessivamente avuta di mira ovvero alla sollecitazione degli alternativi canali della cooperazione di polizia.
Segnatamente, unanimemente condivisa è risultata essere l’idea che l’offerta italiana di assistenza giudiziaria sia, in termini generali (pur sul presupposto del valore positivo complessivamente riconosciuto al contributo italiano alla cooperazione), contrassegnata:
- da una sostanziale estraneità al suo concreto svolgimento degli uffici del p.m. titolari delle ordinarie (ma potenzialmente concorrenti) potestà investigative, pure legittimati a richiedere l’assistenza giudiziaria straniera e chiamati sempre più ad assicurare il coordinamento delle procedure penali tra loro collegate in ambito internazionale (attraverso l’opera di Eurojust ovvero sempre più intensi scambi diretti spontanei di informazioni ovvero l’impiego di squadre investigative comuni o il congiunto azionarsi di tecniche di investigazione transfrontaliera);
- dalla conseguente, sostanziale duplicazione degli interlocutori che si offrono all’autorità straniera (ciò che è paradossalmente più visibile nei sistemi di relazione ove sono consentite ed anzi favorite le relazioni dirette) nell’ambito degli scambi di assistenza giudiziaria che sempre di più connotano le indagini collegate relative a reati che coinvolgono le giurisdizioni di più Stati,
- dalla difficoltà per un giudice come la corte d’appello di governare materie ed esigenze investigative affidate ordinariamente alle competenze di organi diversi (si pensi al caso nel quale sia richiesta dall’autorità straniera la trasmissione della documentazione di atti d’indagine ancora riservati ovvero l’esecuzione di atti che possano compromettere indagini preliminari in contestuale svolgimento),
- dalla rigidità di un meccanismo di esecuzione modellato sull’idea di prova da assumere in contraddittorio e sui fini propri del giudizio, di fatto sovrabbondante e ingiustificato allorquando la domanda di assistenza giudiziaria miri ad obiettivi di mera acquisizione informativa o di ricerca della fonte di prova alla realizzazione dei quali non sia essenziale la partecipazione del giudice (per essere le corrispondenti attività nella procedura penale nazionale affidate al pubblico ministero ovvero comunque per non essere stata invocata la garanzia giudiziale dall’autorità richiedente l’assistenza),
- dalla complessiva mancanza di modelli processuali che, con flessibilità e senza alcun sacrificio delle esigenze di uniformità di giudizio e di garanzia sottese all’attuale sistema di exequatur, garantiscano il riconoscimento della reale natura degli interessi coinvolti e degli strumenti procedurali idonei ad assicurarne l’efficace tutela.
Analogamente è da dirsi con riguardo al delicato tema delle prerogative ministeriali in materia di assistenza giudiziaria richiesta all’Italia.
Il dibattito sulla necessità di un doppio vaglio, politico oltre che giurisdizionale, circa la sussistenza in concreto delle condizioni dell’assistenza giudiziaria, si è concluso con l’unanime accoglimento di un modello di soluzione differenziato, in grado di garantire, da un lato, la sostanziale depoliticizzazione del sistema dell’assistenza giudiziaria nell’area circoscritta dall’efficacia degli accordi internazionali stipulati tra stati dell’Unione europea, in ragione dell’esistenza di un quadro di omogeneità politica che ormai non soltanto giustifica, ma persino impone l’abbandono del tradizionale vaglio di opportunità politica e, dall’altro lato, al di fuori del circuito di relazioni definito dalla descritta dimensione sovranazionale, la conservazione di una funzione di filtro politico, l’opportunità della quale perdura inalterata (salvo a considerare in sede di esercizio delle delega anche l’esigenza di raccordare le condizioni e le forme del suo esercizio con le specifiche norme di convenzioni internazionali che comunque abilitano le autorità giudiziarie alla trasmissione diretta delle domande di assistenza a fini di giustizia).
Peraltro, nella riunione del 20 febbraio 2008, la Commissione, esaminate le osservazioni del Dipartimento Affari Generali del Ministero, ha convenuto sulla opportunità di un piccolo “ritocco” alla direttiva n. 109.1, nel senso di esplicare in maniera più precisa gli àmbiti del potere d’intervento del Ministro.
Un ulteriore ambito di intervento è stato individuato con riguardo all’esigenza di assorbire nella generale disciplina dell’assistenza giudiziaria i meccanismi procedurali adottati dal legislatore del 1993, in sede di ratifica della Convenzione di Strasburgo sul riciclaggio, ai fini della ricerca e del sequestro dei beni provento di reato suscettivi di confisca, attualmente regolati nel capo riferito al riconoscimento delle sentenze (tale essendo nel nostro sistema, di regola, la forma del provvedimento ablativo), senza che sia data possibilità di giustificazione razionale di regole differenziate all’assistenza giudiziaria da prestarsi o da richiedere nella prospettiva della esecuzione di un provvedimento di confisca.
Complessivamente, è risultata prioritaria l’esigenza di delineare una disciplina di diritto interno in grado di assicurare una generale, maggiore fluidità ed efficacia dei canali di collaborazione giudiziaria e, in particolare, di riflettere le innovazioni del sistema della cooperazione giudiziaria che precipuamente riguardano le relazioni con altri Stati membri dell’Unione europea.
Al suddetto fine, sono stati tenuti in considerazione le proposte già individuate nello schema di disegno di legge di ratifica ed esecuzione elaborato nel luglio 2001 dalla Commissione La Greca (istituita con decreto del ministro della giustizia del 15 luglio 1999), nonché quelle accolte nei disegni di legge presentati nella scorsa legislatura (d.d.l. 1951/C, di iniziativa parlamentare; d.d.l. n. 2372/C, di iniziativa del Governo), entrambi, in varia misura, tributari del lavoro della menzionata Commissione di studio, ma, a differenza di questo, elaborati tenendo conto anche delle innovazioni intanto introdotte con la l. n. 367 del 5 ottobre 2001. Tanto preliminarmente premesso, di seguito si riportano le linee guida dell’intervento riformatore che la Commissione con il presente atto propone.
Circa la struttura del procedimento e la natura dei soggetti chiamati ad assicurarne lo svolgimento, come noto, il codice di rito penale del 1988 disciplinò la materia delle “rogatorie dall’estero” sostanzialmente riproducendo i meccanismi procedurali accolti nel codice previgente, così confermandosi la tendenza del legislatore italiano ad adottare impianti formali nettamente sovrabbondanti rispetto alle esigenze effettive, quando non anche contraddittori rispetto agli obiettivi segnati dall’evoluzione delle fonti internazionali.
Se si eccettuano, infatti, gli effetti della soppressione dall’ordinamento giudiziario della figura della sezione istruttoria, con la conseguente necessità di riferirsi semplicemente alla corte d’appello in quanto tale, la struttura del procedimento giurisdizionale di esecuzione delle rogatorie dall’estero rimase sostanzialmente invariata rispetto al modello accolto nel precedente sistema rituale.
In generale, alla riaffermata centralità del ruolo della corte d’appello, corrispose un’assai limitata considerazione del ruolo del pubblico ministero.
Salvo i poteri di promozione procedurale affidati al procuratore generale, continuava, infatti, ad essere riservata all’intervento necessario del giudice ogni istanza di collaborazione giudiziaria a fini di acquisizione della prova, nessuna incidenza assumendo nella disciplina delle rogatorie dall’estero la circostanza del generale mutamento dei ruoli delle parti e del giudice all’interno del nuovo sistema processuale.
Ne risultava, per ciò solo, un’obiettiva divaricazione fra le modalità dell’offerta di assistenza giudiziaria e l’ordinaria titolarità, secondo il diritto processuale interno, delle potestà investigative che la correlativa domanda di collaborazione sollecita, inevitabilmente destinata ad acuire le disfunzioni di una struttura procedurale in sé rigida e farraginosa.
Soprattutto, quei modelli avrebbero rivelato una obiettiva difficoltà a riflettere le istanze di efficienza e tempestività proprie della moderna cooperazione giudiziaria, in sé caratterizzata, da un lato da sempre più intensi flussi di diretto scambio informativo tra autorità giudiziarie e, dall’altro lato, dalla necessità di assicurare l’efficienza delle prestazioni di assistenza giudiziaria richieste dal collegamento tra le procedure contestualmente in corso nei diversi ambiti nazionali (poiché riferite a comportamenti e dinamiche criminali in sé coinvolgenti l’azione repressiva di ordinamenti diversi).
In particolare, l’assetto codicistico della materia soffre visibilmente gli effetti negativi della pesantezza dell’apparato procedurale chiamato a mettersi in moto in presenza di una domanda di assistenza, tali caratteri negativi apparendo tanto più condizionanti quanto maggiore è la complessità del contenuto della richiesta e, in generale, quanto progressivamente più esteso ed intenso diviene il circuito internazionale della collaborazione a fini di giustizia. Tali considerazioni sono state poste alla base di scelte ormai circondate da diffuso consenso, come dimostrato dalla sostanziale convergenza delle soluzioni accolte nei già ricordati disegni di legge, pur di opposta origine politica, depositati nella scorsa legislatura.
Si è, in particolare, previsto che, sul versante passivo della cooperazione a fini di acquisizione probatoria e di sequestro a fini di confisca, l’intervento del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto e del giudice per le indagini preliminari del medesimo ufficio in luogo di quello del procuratore generale presso la corte d’appello e di questa medesima corte.
Tale scelta è stata operata in termini generali e, dunque, prescindendo dalla distinzione operata in quelle proposte legislative (entrambe sul punto specifico direttamente tributarie delle soluzioni prospettate dalla Commissione La Greca) tra l’esecuzione di domande di Stati membri dell’Unione e l’esecuzione di domande di altri Stati; ciò per evitare una sostanziale duplicazione dei circuiti giudiziari di per sé produttiva di appesantimenti e diseconomie, ma tanto più ingiustificata ove si consideri che la conservazione del circuito tradizionale (corte d’appello-procuratore generale) avrebbe conservato valore per una quota assai ridotta (approssimativamente stimabile intorno al dieci per cento) dei flussi complessivi della domanda di assistenza giudiziaria indirizzata al sistema giudiziario italiano.
Naturalmente, a tale scelta potrà dover corrispondere (anche in dipendenza delle soluzioni accolte in tema di titolarità delle funzioni di coordinamento investigativo) l’esigenza di rivisitare coerentemente le scelte, di appannaggio governativo, riferite all’individuazione sia dei corrispondenti nazionali del membro nazionale di Eurojust sia dei componenti della Rete giudiziaria europea.
Nella prospettiva appena delineata, si è specificamente previsto che il procuratore destinatario della richiesta di assistenza (trasmessagli direttamente dall’autorità di altro Stato o a lui pervenuta per il tramite del ministro della giustizia), richieda l’intervento del giudice per le indagini preliminari ogni qual volta la domanda abbia per oggetto acquisizioni probatorie da compiersi davanti al giudice ovvero attività che secondo la legge dello Stato non possono svolgersi senza l’autorizzazione del giudice, negli altri casi (vale a dire sia quando attività di quel genere costituiscano l’oggetto esclusivo della domanda di assistenza sia quando invece le medesime si associno ad altre per le quali non sia dovuta la garanzia del giudice) provvedendo direttamente all’esecuzione.
L’affidamento al giudice della funzione di vaglio delle richieste di acquisizione probatoria di autorità di altri Stati soltanto nei casi predetti vale ad assicurare una reale ed adeguata corrispondenza tra il livello delle necessarie garanzie giurisdizionali e la natura delle attività da compiersi e degli interessi in esse coinvolti, evitando l’intervento del giudice sia reso, come oggi, necessario anche in vista del compimento di atti (acquisizioni di documenti ed informazioni, essenzialmente) che, ai fini del procedimento penale italiano non lo richiedono.
Naturalmente, è sembrato opportuno anche conservare un parametro di riconoscimento della necessità della garanzia del giudice modellato sulle esigenze del procedimento penale straniero, sì da rendersi comunque essenziale l’intervento del giudice ogni qualvolta sia l’autorità richiedente a prospettare autonomamente la necessità ovvero anche soltanto l’opportunità che l’atto sia compiuto ovvero autorizzato da un giudice, sì che, ad esempio, alla raccolta delle dichiarazioni di persone a conoscenza di informazioni utili all’accertamento del reato provvederà il pubblico ministero, salvo che l’autorità dello Stato richiedente non abbia espressamente richiesto l’intervento del giudice ovvero l’adozione di forme e modalità di compimento dell’atto (l’esame in contraddittorio piuttosto che il giuramento del dichiarante, ad esempio) compatibili soltanto con quella garanzia.
Pur conservandosi una base distrettuale per il riparto delle attribuzioni giurisdizionali (assolutamente necessaria per evitare un effetto di moltiplicazione degli interlocutori che si offrono alla collaborazione con le autorità straniere, in sé incompatibile con le esigenze di rapida e chiara individuazione dei destinatari delle domande di assistenza giudiziaria, ormai in larghissima misura trasmesse in via diretta, ma pernicioso anche per la coerenza delle prassi applicative), ragioni di di rapidità ed efficacia della collaborazione interstatuale a fini di giustizia penale sono alla base della contestuale previsione che l’esecuzione della domanda di assistenza per la quale sia stata riconosciuta l’assenza di motivi di rifiuto possa essere delegata dal giudice e dal procuratore della Repubblica ai rispettivi, corrispondenti uffici del luogo dove i singoli atti di acquisizione probatoria devono compiersi (tutti gli uffici di procura, naturalmente, conserveranno ratione loci la titolarità delle attribuzioni connesse all’esecuzioni di domande di assistenza finalizzate a notifiche e comunicazioni ovvero provenienti da autorità amministrative di altri Stati).
Il preliminare tema del riparto territoriale delle competenze riservate agli uffici giudiziari aventi sede nei capoluoghi distrettuali è stato considerato partendo dalla constatazione, già in premessa anticipata, che la funzione di filtro delle rogatorie aventi ad oggetto una pluralità di atti da compiersi in distretti diversi affidata dal legislatore del 2001 alla Corte di cassazione si è, in fatto, risolta in un fattore di obiettivo rallentamento e rilevante quanto non necessario appesantimento delle procedure, per ovviare ai ritardi ed agli inconvenienti del quale, peraltro, le autorità straniere rese avvedute del rischio di dover attendere mesi prima di poter conoscere l’organo designato per l’ esecuzione della rogatoria sovente ricorrono al preventivo frazionamento del contenuto delle richieste, così da poterle indirizzare direttamente ed immediatamente alle autorità dei singoli distretti di volta in volta interessati (ma le prassi registrano anche la concretezza del rischio di deflusso verso i canali della cooperazione di polizia, anche in casi non secondari, di una domanda di assistenza giudiziaria altrimenti esposta a rischio di frustrazione: si pensi al caso nel quale si ponga il problema di procedere ad attività di ricerca della prova, come perquisizioni da svolgersi contemporaneamente in più distretti, rientranti nelle potestà legalmente previste degli organi di polizia).
Come noto, il procedimento concretamente prescelto dal legislatore del 2001 per realizzare la concentrazione delle attribuzioni processuali riferite ad una rogatoria oggettivamente complessa in capo ad un unico organo giurisdizionale era immediatamente apparso alla dottrina più attenta suscettivo di osservazioni critiche.
Innanzitutto, si era dubitato della coerenza della scelta di prevedere una ulteriore fase processuale finalizzata all’individuazione dell’organo competente rispetto all’obiettivo di assicurare la trattazione tempestiva delle rogatorie nei casi urgenti, sì che, sotto tale profilo, l’esigenza di evitare le divaricazioni decisorie ed esecutive possibili in un sistema che ammette la trattazione separata di un’unica domanda di assistenza in sé sembrava avere ricevuto una considerazione isolata dalle ragioni, pure rilevanti nel sistema della cooperazione, di una risposta giudiziaria tempestiva ed efficace.
Allo stesso modo, si era dubitato che le ragioni tipicamente proprie della logica investigativa che permea una quota assai rilevante della domanda di assistenza a fini di acquisizione probatoria, potessero ricevere adeguata considerazione, al fine della individuazione dell’organo in grado di assicurare il più efficace adempimento di una domanda di collaborazione giudiziaria complessa, da parte del giudice di legittimità, la sfera e le finalità tipiche dell’intervento cognitivo del quale registravano una dilatazione impropria.
Ancora, la stessa natura dei criteri di giudizio (“tenuto conto anche del numero degli atti da svolgere e della tipologia ed importanza degli stessi con riferimento alla dislocazione delle sedi giudiziarie interessate”), in sé non vincolanti e meramente indicativi, non allontanava dalla disposizione in esame i dubbi di costituzionalità prospettati, quanto alla sorte del principio del giudice naturale precostituito per legge, in relazione all’attribuzione della funzione di individuazione dell’organo competente all’exequatur secondo parametri lasciati all’apprezzamento ampiamente discrezionale della Suprema Corte.
Una diversa impostazione risolutrice era, peraltro, emersa nei lavori parlamentari poi sfociati nella l. n. 367 del 2001, attraverso l’emendamento che, all’evidente fine di assicurare l’unitarietà della fase giurisdizionale attraverso l’introduzione di criteri vincolanti, in successione normativamente guidata fra loro, prevedeva, per l’ipotesi di pluralità di atti da eseguirsi in distretti diversi, che si avesse “riguardo all’atto indicato nella rogatoria come principale. Altrimenti, la competenza appartiene alla corte d’appello nel distretto della quale deve compiersi il maggior numero di atti. Se neppure in tal modo è possibile determinare la competenza, questa appartiene alla corte d’appello di Roma”.
Si era, infine, notato che lo stesso presupposto della concentrazione (la pluralità di atti da eseguirsi in distretti diversi) ha di per sé una consistenza obiettiva astrattamente differenziata in relazione alla natura degli atti da compiersi (essendo più agevolmente percepibile ove sia richiesto la perquisizione di luoghi o il sequestro di cose che si trovano in territori diversi piuttosto che allorquando sia richiesta l’audizione di testimoni residenti in distretti diversi, ma che ben possono convocarsi dinanzi alla medesima autorità) e potrebbe persino non essere percepibile all’atto della deliberazione della Corte di cassazione (ove la dislocazione in distretti diversi delle persone o delle cose alle quali si riferisca la richiesta istruttoria si riveli, per effetto di circostanze sopravvenute ovvero non originariamente conosciute, soltanto successivamente alla pronuncia della S.C., ma prima che sia dato l’ordine di esecuzione della rogatoria da parte della corte d’appello individuata), ciò che contribuisce a dubitare della stessa affidabilità, rispetto ai fini prefissi di semplicità procedurale, del meccanismo selettivo prescelto, oltre che ad acuire possibili perplessità circa la corrispondenza di criteri di individuazione del giudice competente (all’exequatur di ammissibilità giuridica prima ancora che all’esecuzione degli atti richiesti) obiettivamente in sé privi di precisione ed obiettiva prevedibilità applicativa al principio costituzionale del giudice naturale.
L’esigenza di rimozione di quel così farraginoso ed inconcludente meccanismo procedurale potrebbe considerarsi adeguatamente prevedendo che, quando la richiesta abbia per oggetto attività di acquisizione probatoria che devono essere eseguite in più distretti, gli atti siano trasmessi al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto nel quale deve compiersi il maggior numero di atti e, ove non sia possibile determinare la competenza sulla base di tale criterio, gli atti siano trasmessi al procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma.
Appare rilevante notare che, ai fini del computo in parola, dovrebbe potersi aver riguardo ai soli atti che per loro natura possono eseguirsi soltanto in un determinato luogo (es. perquisizioni locali, ordinariamente il sequestro e l’intercettazione di comunicazioni tra persone presenti) e non anche quelli suscettivi di compimento in più luoghi (raccolta di dichiarazioni, acquisizioni di tabulati telefonici e, ordinariamente, di documenti, etc.). Onde evitare che eventuali dissensi tra uffici giudiziari rallentino oltre ragionevole misura l’assolvimento degli obblighi di cooperazione, sarà necessario altresì prevdere una specifica disciplina per contenere i tempi di definizione di eventuali contrasti tra uffici distrettuali del pubblico ministero e di parimenti eventuali conflitti di competenza.
Ovvie esigenze di semplificazione impongono di confermare l’attribuzione al procuratore della Repubblica individuato su base circondariale del compito di ricevere ed eseguire le richieste di assistenza a fini di citazione del testimone o di notificazione all’imputato residenti o dimoranti nel territorio dello Stato. nonché di quelle presentate da autorità amministrative di altri Stati in procedimenti concernenti illeciti penali. Quanto alla disciplina dei casi di rifiuto di esecuzione, le tradizionali prerogative ministeriali, come già posto in rilievo, sono da abbandonarsi con riguardo alla trattazione delle domande di assistenza giudiziaria provenienti da autorità di altri Stati membri dell’Unione, essendo per loro natura assai difficilmente conciliabili con la natura dei vincoli sovranazionali e, come tali, ripudiate dagli strumenti di diritto internazionale (come la più volte citata Convenzione del 29 maggio 2000) che pienamente riflettono il significato di quei legami sul cruciale terreno della collaborazione a fini di giustizia penale.
Naturalmente, dovrà comunque prevedersi che l’esecuzione della domanda di assistenza giudiziaria sarà essere rifiutata dall’organo giurisdizionale ogni qual volta ricorra uno dei motivi previsti dalla legge (tradizionalmente, riconducibili alle ipotesi nelle quali risulti che: a) gli atti richiesti sono vietati dalla legge e sono contrari a principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato; b) vi sono fondate ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle opinioni politiche o alle altre condizioni personali o sociali possano influire sullo svolgimento del processo e non risulta che l’imputato abbia liberamente espresso il suo consenso alla richiesta di assistenza; c) la richiesta non proviene da autorità di altri Stati membri dell’Unione europea, se il fatto per cui procede l’autorità straniera non è previsto come reato dalla legge italiana e non risulta che l’imputato abbia liberamente espresso il suo consenso alla richiesta di assistenza; d) è richiesto il sequestro di beni che possono divenire oggetto di una successiva richiesta di esecuzione di una confisca, se vi sono fondate ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per la successiva esecuzione della confisca (tale ultima previsione non è altro che la trasposizione nella materia in esame della regola oggi dettata dall’art. 737, comma 3, lett. b), c.p.p.).
È sembrato inoltre necessario ed opportuno conservare la previsione (introdotta nel sistema processuale in occasione della ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio fatta a Strasburgo l’8 novembre 1990) di una potestà di sospensione dell’esecuzione delle domande di assistenza giudiziaria motivata dalla necessità di non pregiudicare indagini o procedimenti in corso nello Stato.
Peraltro, nel nuovo assetto strutturale della disciplina di esecuzione delle domande di assistenza giudiziaria delle autorità di altri Stati, quella clausola trova finalmente possibilità di coerente e lineare applicazione, laddove invece nel vigente sistema, la consapevolezza dell’esistenza di una sfera concorrente di attività, di regola collegata ad istanze investigative ancora circondate da esigenze di riservatezza, che può influenzare la stessa possibilità di prestazione dell’assistenza richiesta convive con un assetto procedimentale nel quale - salvo ad immaginare un improbabile ricorso alle competenze assegnate al procuratore generale dall’art. 118-bis disp. att. c.p.p. (poiché, invero, funzionalmente assai deboli e, comunque, limitate al solo ambito distrettuale) - nulla si dice delle modalità attraverso le quali l’organo competente all’esecuzione della rogatoria può effettivamente assicurarsi la conoscenza delle circostanze impeditive e la compiuta valutazione del loro rilievo.
Naturalmente, della sospensione dell’esecuzione dovrà darsi immediata comunicazione all’autorità richiedente.
Ai fini dell’esecuzione delle richieste di assistenza giudiziaria, i principi di disciplina condivisi dalla Commissione sono ispirati dalle innovative previsioni della citata Convenzione tra gli Stati dell’Unione europea del 29 maggio 2000 (e da coerenti profili evolutivi delle prassi in atto in più ampi ambiti di cooperazione), in forza delle quali il canone generale governante la materia è quello dell’esecuzione delle domande nelle forme, nei modi e nei tempi richiesti dallo stato richiedente, sempre che le finalità e le procedure indicate non siano in conflitto con i principi fondamentali di diritto dello Stato richiesto.
Coerentemente a tali linee di evoluzione del diritto internazionale convenzionale, si è previsto che: - per il compimento degli atti richiesti si osservino le leggi dello Stato, salva l’osservanza delle forme espressamente richieste dall’autorità straniera che non siano contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano;
- l’autorità giudiziaria che procede all’esecuzione della richiesta di assistenza giudiziaria possa con decreto motivato autorizzare la presenza alle attività da compiersi delle autorità e degli esperti indicati dallo Stato richiedente (e sembra opportuno che di ciò sia data immediata comunicazione al ministro della giustizia se la richiesta proviene da autorità di Stati diversi da quelli membri dell’Unione europea);
- se durante l’esecuzione della richiesta di assistenza giudiziaria emerge l’opportunità di compiere atti non indicati nella richiesta medesima, l’autorità giudiziaria ne informi senza ritardo l’autorità richiedente;
- quando accordi internazionali prevedono la trasmissione diretta all’autorità giudiziaria delle richieste di assistenza giudiziaria, l’autorità richiedente che partecipa all’esecuzione possa presentare richieste complementari mentre si trova nel territorio dello Stato e che, trattandosi di autorità di Stati membri dell’Unione europea, la richiesta complementare possa essere comunicata anche verbalmente, con successiva documentazione nelle successive ventiquattro ore;
- sul versante attivo, quando, nei casi previsti da accordi internazionali in vigore per lo Stato, la domanda di assistenza giudiziaria può essere eseguita secondo modalità previste dall’ordinamento dello Stato richiedente, l’autorità giudiziaria, nel formulare la domanda di assistenza, ne specifichi le modalità di esecuzione, tenendo conto degli elementi necessari per l’utilizzazione processuale degli atti richiesti.
Naturalmente, nella nuova architettura del sistema dell’assistenza giudiziaria a fini di acquisizione probatoria dovranno essere coerentemente valutati dal legislatore delegato i profili di reale giustificazione logico-giuridica delle soluzioni date dal legislatore del 2001 ai pur delicati nodi problematici dell’utilizzabilità degli atti acquisiti grazie alla collaborazione interstatuale.
Alla già rilevata esigenza di attrazione nella disciplina generale dell’assistenza giudiziaria (sul versante passivo come su quello attivo) delle attività di ricerca e sequestro dei beni provento di reato e, come tali, suscettivi di confisca è corrisposta, peraltro, la condivisione della necessità di estendere il fronte delle garanzie difensive correlate all’adozione di misure cautelari reali, pur senza pregiudicare l’effettività delle prestazioni cooperative richieste al sistema giudiziario italiano.
Peraltro, nell’attuazione della delega potrà trovare considerazione specifica la possibilità di individuare forme di contraddittorio o di controllo difensivo successive all’acquisizione della prova richiesta ai fini di giustizia di altro ordinamento in sé compatibili con la natura di procedure finalizzate a dare attuazione all’obbligo dello Stato italiano di assicurare la collaborazione giudiziaria richiesta da altri Stati, e, dunque a non adottare ordinamenti processuali interni che, consentendo all’interessato di avere conoscenza preventiva della domanda di assistenza, minaccino le effettive possibilità di proficua esecuzione ed utilizzazione della medesima domanda e, più in generale, l’efficacia delle procedure nelle quali i suoi esiti sono destinati a confluire.
Specifiche direttive sono poi dedicate, coerentemente all’assetto complessivo dell’impianto legislativo prefigurato:
- alle forme di acquisizione della documentazione relativa ad atti ed informazioni spontaneamente trasmessi dall’autorità straniera in conformità ad accordi internazionali in vigore per lo Stato;
- all’obbligo dell’autorità giudiziaria italiana di osservare le condizioni eventualmente poste dall’autorità straniera all’utilizzabilità degli atti e delle informazioni spontaneamente trasmessi;
- alle determinazione delle condizioni e delle modalità di trasferimento temporaneo all’estero a fini di indagine di persone detenute o internate richiesto in conformità ad accordi internazionali in vigore per lo Stato (in particolare, adeguatamente riconoscendosi il ruolo del ministro della giustizia, in ragione del valore politico delle responsabilità che si assumono attraverso le relative negoziazioni;
- alla possibilità, nei rapporti con altri Stati dell’Unione europea e nei casi previsti da convenzioni internazionali in vigore per lo Stato, che l’audizione di testimoni e periti possa aver luogo mediante video conferenza o conferenza telefonica; - all’adozione nei rapporti di cooperazione con altri Stati dell’Unione europea (e comunque nei casi previsti da accordi internazionale) di forme di assistenza giudiziaria specifiche, quali quelle assicurate dalle cd. squadre investigative comuni.
Con riferimento a tale ultimo tema, all’attuazione della delega sarà affidato il compito di individuare condizioni di disciplina coerenti con gli obblighi assunti dall’Italia in sede internazionale e convenzionale.
In particolare, la Commissione ha considerato la necessità di modellare i presupposti dell’avvio di tali procedure di cooperazione su quelle indicate nella corrispondente Decisione Quadro n. 465 del 13 giugno 2002 quadro, adottata dal Consiglio dell’Unione Europea, in letterale conformità con le corrispondenti previsioni dell’art. 13 della Convenzione del 29 maggio 2000, prevedendosi la possibilità di costituzione dei gruppi di indagine comuni non soltanto nell’ipotesi di contestuale pendenza in più Stati di procedure collegate che abbisognino di coordinamento e concertazione, ma altresì in quella di “indagini condotte da uno Stato che comportano inchieste difficili e di notevole portata che hanno un collegamento con altri Stati”, ciò che con evidenza appare imporre la necessità di ammettere che anche l’indagine in corso in soltanto uno degli Stati, in ragione delle sue proiezioni operative nel territorio di un altro Stato, possa giustificare la conduzione congiunta delle attività di ricerca della prova.
Non meno rilevante, nell’ottica di una coerente ed efficace utilizzazione del nuovo strumento di collaborazione internazionale, appare poi la considerazione della adeguatezza delle previsioni normative destinate a regolare l’ipotesi che la proposta di costituzione di una squadra investigativa comune incida su materie già oggetto di indagini collegate di più uffici del pubblico ministero italiano.
A tale riguardo, si è considerata l’insufficienza di previsioni finalizzate ad assicurare che dell’iniziativa volta alla costituzione di una squadra investigativa comune con autorità di Stati diversi abbiano tempestiva comunicazione gli organi titolari di funzioni di coordinamento (nei rispettivi ambiti di attribuzioni, il procuratore nazionale antimafia e i procuratori generali presso le corti d’appello interessate).
Se pure sia da ritenere ragionevole che, sulla base della comunicazione ricevuta dell’iniziativa costituiva, l’organo di coordinamento possa, riconoscendo l’esistenza di indagini collegate di altri uffici, impartire eventuali direttive finalizzate all’opportuno coinvolgimento operativo degli altri uffici interessati, non di meno, ciò (soprattutto, forse, considerando il complesso circuito di coordinamento affidato dalla norma dell’art. 118-bis disp. att. c.p.p. ai procuratori generali presso la corte d’appello) potrebbe non valere a prevenire tempestivamente il rischio di sovrapposizioni ed interferenze.
Appunto al fine di evitare di trasferire sul piano della collaborazione internazionale il peso delle difficoltà di un coordinamento interno incerto, già nella ricordata elaborazione della Commissione di studio ministeriale istituita nel 1999 si prevedeva una regola processuale ulteriore, finalizzata ad evitare il perfezionamento di accordi non preceduti da adeguato raccordo operativo tra gli uffici del pubblico ministero della Repubblica interessati, attraverso l’indicazione della necessità di una preventiva intesa tra gli uffici procedenti e, in caso di contrasti, di un intervento risolutivo dell’organo funzionalmente sovraordinato.
In coerenza con quella soluzione, da stimarsi assai più idonea ad assicurare le finalità del coordinamento investigativo dal rischio di iniziative non precedute da adeguata concertazione tra gli uffici interessati alla collaborazione con le autorità di altri Stati, potrebbe allora prevedersi di inserire, dopo il comma 3 del novello art. 371-ter c.p.p., una disposizione così congegnata:
“Quando risulta che più uffici del pubblico ministero procedono ad indagini collegate a quelle delle autorità straniere di cui al comma 1, la richiesta è formulata d’intesa fra gli uffici procedenti. Nel caso di mancata intesa, il contrasto è risolto dal procuratore generale presso la corte d’appello ovvero, se gli uffici del pubblico ministero appartengono a distretti diversi, dal procuratore generale presso la corte di cassazione (ovvero, in maggior sintonia con quanto previsto dall’art. 118-bis disp. att., ma forse con minore efficacia, dai procuratori generali dei distretti interessati, d’intesa tra loro). Nel caso di indagini relative ai delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, il contrasto è risolto dal procuratore nazionale antimafia.”
Del resto, la necessità di preventiva intesa tra gli uffici del pubblico ministero titolari di indagini collegate (e l’opportunità di un efficace meccanismo di risoluzione dei contrasti) risulta condivisa, pur se tradotta in differenti schemi di disciplina, nei due più articolari disegni di legge presentati nella scorsa legislatura in vista della ratifica della richiamata Convenzione del 29 maggio 2000 (art. 21, comma 3, del d.d.l. 1951/C, di iniziativa dei deputati Violante ed altri; art. 5, comma 3, del d.d.l. n. 2372/C, di iniziativa del Governo).
Né va sottaciuto che un meccanismo analogo a quello proposto è già stato proficuamente sperimentato nel nostro sistema, in distinti, ma parimenti rilevanti al fine dell’efficienza del coordinamento investigativo e dei correlati valori della completezza e della tempestività delle investigazioni, campi applicativi (art. 11 l. 15 marzo 1991, n. 82, così come sostituito dall’art. 4 l. 13 febbraio 2001, n. 45).
Terminali notazioni sul tema in esame appare opportuno riservare al delicato profilo dell’utilizzabilità nel procedimento penale italiano degli atti compiuti dalla squadra investigativa comune.
Non mettendo conto rilevare che l’inserimento nel suddetto fascicolo dei verbali degli atti non ripetibili posti in essere dalla squadra investigativa comune sembra, invero, esigere regole specifiche soltanto con riguardo alle attività compiute all’estero (dal momento che per quelli compiuti nel territorio dello Stato l’utilizzabilità discende dall’applicazione dell’ordinario regime degli atti di indagine irripetibili) appare necessario prevedere disposizioni precipuamente destinate a regolare la sorte processuale degli atti non ripetibili, con evidenti rischi di incertezza e divaricazioni interpretative in sé pregiudizievoli per l’efficace impiego del nuovo istituto.
La soluzione unanimemente accolta è stata di prevedere l’utilizzabilità degli atti della squadra investigativa comune compiuti nel territorio dello Stato in conformità alla legge nazionale e di quelli compiuti all’estero che non siano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano in limiti e con modalità analoghi a quelle previsti dalla legge per i corrispondenti atti compiuti secondo la legge processuale italiana.
In sede di attuazione della delega, ulteriori specifiche disposizioni dovranno dettarsi per disciplinare le condizioni e i limiti della partecipazione a squadre investigative comuni operanti nel territorio dello Stato dei rappresentanti delle autorità di altri Stati, nonché di rappresentanti di organizzazioni internazionali e organismi istituiti nell’ambito dell’Unione europea e di esperti con funzioni di assistenza.

32. L'estradizione
All’esito di un dibattito alimentato anche dal contributo di proposte ed esperienze acquisito attraverso le audizioni di studiosi e di magistrati della Corte di cassazione, della procura generale presso la medesima corte e di quella presso la corte d’appello di Roma, la Commissione è giunta ad elaborare le direttrici di riforma di una materia in sé assai delicata, ma resa ancor più complessa dalla necessità di raffronto comparativo con la procedura di esecuzione del mandato di arresto europeo prevista ai medesimi fini nei rapporti con altri Stati membri dell’Unione europea.
Sul presupposto della conservazione della tradizionale regola di esclusione della possibilità di estradizione di un imputato o di un condannato all’estero senza garanzia giurisdizionale (salvo a considerare l’esigenza di disciplinare forme procedurali semplificate in caso di consenso dell’avente diritto) si è innanzitutto riconosciuta l’esigenza di valorizzare la dimensione di effettività di quella medesima garanzia, in coerenza con un’obiettiva tendenza generale della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, ad adeguare le forme di tutela processuale degli interessi che complessivamente sono coinvolti nelle procedure di estradizione al rango della protezione ad essi accordata dall’ordinamento.
Nell’enucleazione delle direttive in tema di estradizione per l’estero, tale generale esigenza si è tradotta innanzitutto nella scelta di escludere ogni residua incidenza dell’autorità politica nelle procedure in materia di liberta personale finalizzate ad assicurare la consegna dell’imputato e del condannato all’estero. Nel quadro di una più generale manovra di semplificazione ed accelerazione della relativa procedura, ma anche di rafforzamento delle garanzie difensive, si è modificata l’intera sequenza procedimentale dell’estradizione all’estero, prevedendosi:
- che la corte d’appello individuata in base a criteri predeterminati per legge predeterminata decida entro un termine, decorrente dalla richiesta del procuratore generale, prorogabile nei casi e nei modi previsti dalla legge, sulla base della documentazione trasmessa dal pubblico ministero e di quella depositata dalla difesa e dopo aver compiuto le attività di acquisizione informativa e gli accertamenti ritenuti necessari (parallelamente, si è previsto l’obbligo per il procuratore generale di interrogare l’estradando, all’evidente fine di meglio assicurare la completezza degli accertamenti necessari in vista delle successive determinazioni, ma anche di consentire al medesimo estradando di poter predisporre la propria difesa fin dal primo contatto con l’autorità giudiziaria);
- meccanismi di interlocuzione diretta dell’autorità giudiziaria con le competenti autorità dello Stato richiedente a fini di acquisizione informativa;
- che il procedimento dinanzi alla corte d’appello si svolga alla presenza necessaria del procuratore, del difensore e di quella eventuale del rappresentante dello Stato richiedente, nel rispetto del principio del contraddittorio;
- che, su richiesta del procuratore generale, la corte possa disporre la custodia cautelare in carcere dell’estradando che si trovi in libertà al momento della concessione dell’estradizione e il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato;
- che anche nel caso di estradizione convenzionale sia sempre necessario un vaglio giudiziale del quadro indiziario posto a base della domanda di estradizione (salvo, ovviamente, che questa sia richiesta nei riguardi di persona condannata in via definitiva), affidandosi alla giurisrudenza l’individuazione degli indici formali di svolgimento della relativa funzione di controllo;
- che in caso di diniego dell’estradizione la corte, anche d’ufficio, revochi le misure cautelari già applicate e provveda sulle richieste di restituzione delle cose in sequestro; - la fissazione di termini massimi di durata della custodia cautelare a fini estradizionali, da applicarsi anche in caso di sospensione dell’esecuzione dell’estradizione;
- che alla garanzia della specialità dell’estradizione, salvo che norme convenzionali non lo escludano, la persona estradata possa rinunziare, dopo la consegna, solo mediante dichiarazione raccolta dal giudice (ciò che il legislatore delegato potrebbe disciplinare secondo uno schema che contempli: prima dell’esercizio dell’azione penale, l’intervento del giudice per le indagini preliminari competente; dopo quel momento, l’intervento del giudice procedente, durante la pendenza del ricorso per cassazione, quello del giudice che ha emesso la sentenza impugnata e quando la sentenza è irrevocabile, del giudice dell’esecuzione), anche in tal caso dovendosi applicare la regola generale secondo la quale il consenso validamente prestato allo svolgimento di una procedura di cooperazione giudiziaria è da considerarsi irrevocabile, salvo che l’interessato provi di aver ignorato senza colpa circostanze determinanti del consenso.
Soprattutto, la Commissione ha ritenuto di condividere la proposta di differenziare le aree di esercizio delle concorrenti potestà dell’autorità politica e dell’autorità giudiziaria, sì da evitare la sovrapposizione di valutazioni riferite ai medesimi parametri.
A quest’ultima si è scelto di riservare il sindacato dei motivi di rifiuto connessi alla lesione di diritti fondamentali della persona, alla sussistenza nella sentenza per l’esecuzione della quale è stata richiesta l’estradizione di disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento, al pericolo di sottoposizione ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, religione, sesso, nazionalità, lingua, opinioni politiche, condizioni personali o sociali ovvero a pene e trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona.
Alla prima invece il vaglio, oltre che dell’effettiva tenuta della condizione di reciprocità nel caso nel quale sia richiesta l’estradizione del cittadino, del complesso delle circostanze fattuali riconducibili alla sfera delle valutazioni tipicamente politiche riferite all’incidenza dell’estradizione sulla sorte degli interessi essenziali dello Stato, in primis di quello della sicurezza della Repubblica.
Va altresì sottolineato che la Commissione ha ritenuto di accogliere l’idea che la funzione di filtro politico riservata al ministro debba potersi esaurire prima dell’avvio della procedura giurisdizionale, attraverso la decisione di dare o meno corso all’estradizione, ricollegandosi l’effetto della consegna ad una fattispecie a formazione progressiva il perfezionamento della quale interviene con l’adozione di una pronuncia giudiziale non più soggetta ad impugnazione (nulla, peraltro, impedirebbe di considerare nell’attuazione della delega l’esigenza di prevedere opportune e in taluni casi necessarie forme di intervento nelle procedure esecutive dell’autorità amministrativa).
Ne conseguirebbe l’effetto aggiuntivo di porre al riparo l’effettività degli obblighi di cooperazione assunti dallo Stato dal rischio di pratico svuotamento che attualmente in fatto talvolta consegue alla riconosciuta potestà del giudice amministrativo di sindacare la legittimità del decreto di estradizione e di sospenderne in via cautelare l’esecuzione, con conseguente, pratica impossibilità di assicurare la consegna dell’estradando in caso di successivo rigetto del ricorso.
Conservandosi l’attuale struttura del procedimento, viceversa, sarebbe inevitabile, a protezione della garanzia di serietà dell’offerta di cooperazione anticrimine della Repubblica, prevedere regole speciali per garantire il contenimento dei tempi di svolgimento del sindacato del giudice amministrativo, e, in particolare, dell’efficacia di provvedimenti cautelari non seguiti in tempi compatibili con le finalità della procedura di estradizione dalla conclusione del giudizio di cognizione piena.
Rilevanti innovazioni sono proposte anche con riguardo alla procedura di estradizione dall’estero.
Innanzitutto, attraverso l’esplicita attribuzione al ministro della giustizia di un potere di blocco, definitivo o temporaneo, delle procedure di estradizione avviate su richiesta dell’autorità giudiziaria finalizzato alla tutela di interessi supremi della Repubblica, ma limitato quanto alle forme di esercizio dalla previsione di un termine di esercizio e dall’obbligo di darne comunicazione all’autorità giudiziaria.
In secondo luogo, introducendosi una regolazione degli effetti processuali del principio della specialità in grado di coniugare la massima portata espansiva di quella fondamentale garanzia di civiltà giuridica con l’esigenza di pienezza dell’esercizio della funzione giurisdizionale compatibile con l’attuazione del medesimo principio.
In particolare, l’esigenza di superare le tensioni interpretative che continuano a segnare l’approccio giurisprudenziale ai cruciali nodi problematici posti ruotanti attorno all’applicazione sul versante attivo dell’estradizione del principio in parola, ha spinto la commissione a prevedere che il principio di specialità operi come causa di sospensione del procedimento e dell’esecuzione della pena, così aprendosi la strada non soltanto all’assunzione di prove urgenti e comunque non rinviabili (ciò che è ammesso anche sul diverso presupposto che la specialità operi come causa di improcedibilità), nonché di quelle che comunque possono condurre al proscioglimento dell’imputato, ma alla possibilità di prevedere che, ai soli fini della richiesta di estensione dell’estradizione, possa essere emessa un’ordinanza che dispone la custodia cautelare, la cui esecuzione resti sospesa fino alla concessione dell’estradizione suppletiva e debba essere revocata nel caso di rifiuto della stessa, sì da evitare che l’osservanza scrupolosa della garanzia di specialità si traduca nella pratica quanto definitiva interdizione della funzione giurisdizionale, in fatto impedendosi di giungere alla formazione di un titolo idoneo alla presentazione di una domanda di estradizione suppletiva, così come imposto dalla medesima logica di garanzia.
La ricostruzione accolta dalla Commissione, così come sottolineato dalla dottrina alla quale si deve la sua elaborazione, si pone sostanzialmente in linea con le disposizioni di diritto internazionale pattizio, le quali, al di là delle loro variegate formulazioni, impongono di riferire la ratio della regola della specialità non soltanto al divieto di procedere per il fatto anteriore e diverso, ma anche alla possibilità di na successiva estensione dell’estradizione e di una purgazione della stessa, sì che l’osservanza della regola di specialità non può prescindere dalla contestuale considerazione anche delle cause di caducazione dei relativi effetti, le quali pure contribuiscono a definire la natura e la funzione del principio in parola.
L’idea della specialità come causa di sospensione assicura inoltre il vantaggio di potersi applicare coerentemente sia al processo che all’esecuzione della pena (diversamente dall’idea di improcedibilità, del tutto inidonee a spiegare l’effetto della specialità nell’estradizione fondata su titolo di condanna definitivo), nonché quello di determinare la sospensione della prescrizione senza bisogno di adottare misure per interromperne il decorso.
Le ragioni anzidette contribuiscono altresì a dar conto della scelta di uniformare alle anzidette linee di disciplina anche la considerazione degli effetti della specialità nelle procedure di esecuzione all’estero di mandati di arresto probatorio, in ciò individuandosi un profilo di una più ampia esigenza di rimozione delle divaricazioni della disciplina dell’uno e dell’altro degli istituti finalizzati alla consegna della persona non imposte né giustificate dalla diversità dei relativi principi informatori.
L’esigenza di cristallizzazione normativa degli esiti positivi di un lungo e non sempre lineare percorso giurisprudenziale è poi alla base della direttiva che prescrive che la custodia cautelare sofferta all’estero ai fini dell’estradizione sia computata ad ogni effetto processuale previsto dalla legge italiana.
Obiettive istanze di equità impongono infine di prevedere la riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta all’estero a fini estradizionali.

33. Il riconoscimento di sentenze penali di altri Stati ed esecuzione all'estero di sentenze penali italiane
La materia appare destinata a non subire rilevanti modificazioni, in ragione anche della perdurante inoperatività per l’Italia della Convenzione sul valore internazionale dei giudizi repressivi del 1970, salvo a considerarsi, da un lato, come si è già sottolineato, gli effetti dell’attrazione nella sfera di disciplina dell’assistenza giudiziaria delle attività prodomiche all’esecuzione all’estero ovvero nel territorio dello Stato di provvedimenti di confisca e l’erosione applicativa delle tradizionali regole codicistiche che può prefigurarsi nella prospettiva della progressiva attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei rapporti tra Stati membri dell’Unione europea e, dall’altro lato, obiettive istanze di semplificazione del procedimento di esecuzione all’estero delle sentenze italiane rivelate dalle ancor lmitate esperienze applicative sin qui formatesi in forza di specifici accordi bilaterali (come quello fra Italia ed Albania del 2002).
Inoltre, sull’applicazione della relativa disciplina sono destinate a riflettersi le scelte che sul piano della riforma del sistema di diritto penale sostanziale devono compiersi quanto all’individuazione dei fini da considerarsi obbligatoriamente per l’attivazione di una procedura di riconoscimento, nonché una più generale opzione di valorizzazione del ruolo di concentrazione informativa tipicamente da affidarsi all’autorità amministrativa centrale.

34. L'attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei rapporti con gli altri Stati membri dell'Unione europea
Si tratta delle direttive destinate ad inserire nel codice di rito penale, nell’ambito della futura partizione corrispondente all’attuale XI Libro, un autonomo titolo contenente i principi guida del complesso processo di adattamento normativo necessario per dare attuazione al principio ormai prescelto come modello privilegiato di organizzazione normativa della cooperazione tra Stati membri dell’Unione europea.
Tale nucleo fondamentale di disciplina (gli elementi costituivi del quale si prevede che siano destinati a prevalere sulle fonti normative di pari grado che non introducano deroghe espresse, sì da configurarsi una sorta di “riserva di codice”) si è individuato allo scopo di assicurare unitarietà e coerenza di indirizzo alla produzione normativa finalizzata all’adeguamento del sistema processuale agli obblighi già assunti (in tema di esecuzione di ordini di blocco di beni e di sequestro probatorio, di ordini di confisca di beni, strumenti e proventi del reato, di provvedimenti di imposizione di sanzioni pecuniarie)ovvero da assumersi al termine delle negoziazioni intergovernative attualmente in corso (come nel caso della decisione quadro in preparazione sul cd. mandato probatorio europeo).
Si è, in altri termini, accolta l’idea che se la sede di specifica regolamentazione dei singoli apparati di adattamento normativo interno non può che continuare a ritrovarsi in leggi speciali, il codice debba apprestare un nucleo comune di fondamentali regole procedurali, in sé coerenti alle regole accolte nel sistema di cooperazione fra Stati dell’Unione europea nella prospettiva della progressiva attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie e destinate ad applicarsi salvo il caso di espressa, successiva deroga legislativa.
L’enunciazione di un nucleo di regole fondamentali di traduzione interna del principio del mutuo riconoscimento, così come allo stato delineatosi in ambito europeo, non potrà, naturalmente, non riflettersi anche sulla applicazione della disciplina di attuazione Decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002 sulla esecuzione del mandato d’arresto europeo introdotta con la legge n. 69 del 2005, in relazione a numerosi e non secondari profili di divaricazione dei contenuti di questa dagli obiettivi indicati dall’Unione europea che, ove non suscettivi di adeguata riduzione, dovranno considerarsi nella prospettiva di una speciale manovra di correzione ed integrazione legislativa le linee essenziali della quale sin da ora la Commissione ritiene di poter individuare con riguardo:
a) al ruolo conservato all’autorità centrale nel quadro di relazioni (di trasmissione, corrispondenza, interlocuzione, reciproca informazione) che la decisione quadro dell’Unione vuole invece riservate alle autorità giudiziarie, ancorché la logica di un’integrale “depoliticizzazione” della materia non possa spingersi sino al punto di escludere il pieno e tempestivo coinvolgimento informativo dell’autorità centrale e a non tener conto che soltanto all’autorità politica può riconoscersi un effettivo ruolo di garanzia dell’osservanza delle condizioni eventualmente richieste in casi particolari per l’esecuzione all’estero o nel territorio dello Stato della decisione della quale è stato chiesto il riconoscimento; pur con tali limiti, tuttavia, è evidente la necessità di prevedere che i mandati d’arresto europei possano essere trasmessi dagli Stati di emissione direttamente all’autorità giudiziaria territorialmente competente per l’esecuzione, che l’autorità giudiziaria possa trasmettere i mandati di arresto europei direttamente allo Stato di esecuzione, che l’autorità giudiziaria possa direttamente corrispondere con le autorità degli altri Stati dell’Unione anche ai fini della trasmissione della documentazione e degli accertamenti integrativi e delle ulteriori informazioni che siano eventualmente necessari all’esecuzione del mandato d’arresto (ovvero per dare diretta comunicazione della sospensione o del rinvio dell’esecuzione della consegna o concordare una nuova data di consegna);
b) alla necessità accolta sul piano sopranazionale di prevedere che l’autorità giudiziaria possa dare esecuzione al mandato d’arresto europeo anche nel caso in cui il fatto non sia previsto come reato dalla legge nazionale nelle ipotesi previste dall’art. 2, § 2 della già menzionata decisione quadro del 13 giugno 2002 (e sempre che il massimo della pena o della misura privativa della libertà personale sia non inferiore a tre anni), ripudiando qualsiasi forma di aggiramento del divieto di far ricorso alla clausola di doppia incriminazione (come attualmente invece realizzano le previsioni che tipizzano in una prospettiva interna le trentadue categorie delittuose contemplate dalla norma sopra richiamata, ovvero quelle che danno rilevanza alla mancata conoscenza della norma incriminatrice dello Stato di emissione da parte del cittadino o della persona residente nel territorio dello Stato dei quali sia stata chiesta la consegna o prescrivono forme di sindacato del merito del provvedimento posto alla base della richiesta di consegna ovvero ancora subordino l’esecuzione del mandato alla condizione che la persona della quale è chiesta la consegna non abbia agito in presenza di cause di giustificazione);
c) all’irrinunciabile esigenza di disegnare la successione temporale delle sequenze del procedimento in modo compatibile con l’obbligo di assicurare la consegna nel termine massimo di novanta giorni dalla ricezione del mandato, essendo invece quella attualmente prevista statutariamente indifferente agli obiettivi di tempestività della collaborazione indicati dalla decisione quadro del 13 giugno 2002. In coerenza con il sistema di regole individuato dalla già richiamata Convenzione integrativa del 29 maggio 2000, è poi previsto l’abbandono della clausola di doppia incriminazione al fine dell’esecuzione delle domande presentate da autorità di Stati membri dell’Unione europea.