La prevenzione dei suicidi in carcere - Quaderni ISSP Numero 8 (dicembre 2011)

Ministero della Giustizia
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

Istituto Superiore di Studi Penitenziari

Quaderni ISSP Numero 8 - La prevenzione dei suicidi in carcere
Contributi per la conoscenza del fenomeno

Dicembre 2011
 

7 - La prevenzione delle condotte auto aggressive: il fenomeno dei suicidi in carcere
a cura di Pasquale Iannella - vicecommissario di polizia penitenziaria

abstract

L’autore rileva che nonostante il numero dei suicidi nelle carceri italiane sia inferiore a quello degli istituti penali francesi, belgi e austriaci, esso è comunque troppo elevato. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, ed anche un solo tentativo di suicidio rappresenta una sconfitta per l’Amministrazione penitenziaria, che ha la responsabilità istituzionale del recupero.
L’Autore si sofferma anche sulle diverse origini delle condotte autolesive, e in particolare:

  • l’origine psicotica o nevrotica
  • l’etiologia emotiva, dettata dall’istinto di protesta verso gli operatori penitenziari e/o dell’Autorità Giudiziaria
  • la causa razionale, come risultato di un atto deliberato e finalizzato a ottenere in modo manipolatorio un beneficio giudiziario e/o penitenziario.

Gli effetti giuridici delle condotte autolesive sono in relazione ai fattori causali soggettivi, che determinano pertanto le diverse risposte delle autorità  penitenziarie e giudiziarie. Con l’art.580 c.p., è punita la partecipazione al suicidio: -istigazione o aiuto al suicidio: “Chiunque determina altri al  suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima...” 

Il fenomeno delle condotte autoaggressive in carcere è molto diffuso, tanto da rendere tali gesti parte della quotidianità penitenziaria. Questa triste constatazione, avallata da fredde statistiche elaborate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sembra faccia immaginare il carcere come un luogo in cui sia  “normale” o fisiologico che i detenuti si infliggano lesioni spesso anche letali. La carcerazione è un fattore specifico di vulnerabilità all’autoaggressione che è un chiaro ed inequivocabile segnale del grave stato di disagio e di malessere in cui i detenuti si trovano a vivere. Gli atti di autolesionismo compiuti in carcere, possono essere interpretati in vario modo. Spesso sono frutto di una certa teatralità, che affonda le sue radici nell’esigenza di catturare l’attenzione degli operatori penitenziari quando ci si sente abbandonati nel ventre di un’istituzione. Non è così per il suicidio. Esso, non prevede nessun rapporto ulteriore ed anzi tronca definitivamente ogni relazione. Il suicida dichiara, senza ambiguità, senza alternative, che la sofferenza è stata più forte dell’istinto di conservazione. Non sempre il suicidio in carcere è un gesto di ribellione, ma pone sempre l’istituzione davanti alla propria impotenza. Il condannato cessa di essere un recluso per affermarsi, attraverso la radicale negatività del gesto, come essere umano. 

Dal 1987 l’Amministrazione Penitenziaria ha predisposto norme e direttive generali per realizzare presidi per la prevenzione dei suicidi, soprattutto nelle prime fasi della carcerazione [1]. Nel 2007 il DAP ha ancora dettato regole di accoglienza finalizzate, nelle intenzioni dichiarate, al contenimento e riduzione degli effetti stressanti del-l’impatto con il carcere ed i gesti autosoppressivi [2]. Se dopo venti anni si è avvertita la necessità di tornare sull’argomento, è un chiaro segno che il fenomeno rimane grave e sostanzialmente immutato. Giova rilevare che sul piano numerico i suicidi nelle carceri italiane risultano meno della metà di quelli che si verificano nelle carceri francesi, la metà di quelli delle carceri belghe, un terzo di quelli delle carceri austriache, grosso modo pari a quelli di Inghilterra e Germania, e meno della media che si registra nei sistemi penitenziari europei. Ma sono sempre troppi.

È un evento drammatico che sconvolge l’ambiente penitenziario ed interroga sulle responsabilità professionali di ciascuno di noi. Di fronte ad un suicidio in carcere ci si sente sotto accusa, si registra uno smacco. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti ed anche un solo tentativo di suicidio è una sconfitta per l’Amministrazione Penitenziaria che ha il compito costituzionale di recupero e reinserimento. Si può affermare che l’Amministrazione Penitenziaria, pur avendo il compito di gestire l’esecuzione penale, ha il dovere, attraverso l’attività di tutela della salute della popolazione detenuta, di garantire il rispetto di quella dimensione personale senza la quale il carcere diverrebbe sempre più luogo di contenimento di semplici corpi ripiegati negli spazi angusti ed infelici della detenzione. Se così fosse, l’esecuzione della pena verrebbe illegittimamente ad incidere sul diritto alla salute costituzionalmente riconosciuto (art.32 Cost.) e si risolverebbe in un trattamento contrario al senso di umanità (art.27 Cost.).

Esiste, altresì, anche marcato richiamo alla responsabilità sociale il quale è rafforzato dalla considerazione della particolare vulnerabilità bio-psicosociale della popolazione carceraria rispetto a quella generale. Ne deriva il preciso dovere morale di assicurare un ambiente carcerario che rispetti la dignità delle persone in un percorso di reintegrazione sociale, alla luce di una riconsiderazione critica delle politiche penali. Osserviamo che alcuni studi più recenti [3] hanno avvalorato che la tesi della non esclusività della malattia psichica come ragione predominante nella spiegazione dei gesti anticonservativi, includendo fattori sociologici e di contesto quali variabili necessariamente da considerare, mettono in evidenza come le condotte autolesionistiche devono essere affrontate non come onere di carattere specialistico ma con il contributo integrato di tutte le competenze istituzionali. Il nuovo approccio, discostandosi da quegli interventi che inquadrano il fenomeno come esclusivo problema clinico e quindi affrontabile soprattutto attraverso la rivisitazione degli interventi psicologici, ci consiglia di spostare il baricentro dall’enfatizzazione del dato sintomatico e selettivo alla centralità dei bisogni del soggetto.

Tale nuova prospettiva, rappresenta la possibilità di intervenire concretamente, da un punto di vista operativo ed organizzativo, attraverso il contributo di  tutte le figure professionali operanti in carcere. Sono diverse le modalità con le quali i detenuti pongono in essere gesti anticonservativi in carcere. In primo luogo si fa riferimento alle condotte auto lesive, intendendo le stesse come quei gesti che si sostanziano nel procurarsi lesioni sul corpo. Tale comportamento viene posto in essere solitamente attraverso l’uso improprio della lametta contenuta nel rasoio il cui utilizzo è consentito dalle vigenti normative. Esso consiste nel praticarsi dei tagli superficiali in precise parti del corpo non vitali, quali avambracci, spalla, gambe, pancia ecc… Tali condotte trovano ragione di esistere fondamentalmente per due categorie di motivi. La prima attiene alle finalità di strumentalizzare il gesto per ottenere qualcosa; rientrano in tale ipotesi ad esempio, la negazione di una certa terapia sanitaria, un cambio camera detentiva, problematiche giudiziarie, trasferimenti di istituto. La seconda categoria, concerne i disturbi psichici, momenti di sconforto, condizioni familiari e problematiche di carattere personale. Un mezzo significativo a cui spesso fa ricorso il detenuto per poter richiamare l’attenzione sulle sue vicende, è l’ingestione di corpi estranei.

Fra gli oggetti più frequentemente riscontrati, grazie all’ausilio delle radiografie, si trovano: tagliaunghie, chiodi, chiavi, viti, spilli, spazzolini da denti, manici di cucchiai, forchette, piccoli coltelli, catenine con crocifissi o medaglie, lamette, pile, lampadine, molle delle reti del letto, pezzi di vetro, pezzi di metallo in genere, cioè tutto quel materiale che è possibile recuperare in cella. Le lame di rasoio sono fra le cose che fanno più impressione, la tecnica consiste nel rompere a metà la lametta nel senso della lunghezza, sovrapporla e farla scivolare sul fondo della lingua. Dalle radiografie non si evidenziano particolari lesioni e l’espulsione anale avviene, di solito, senza dolore e a volte senza che il detenuto se ne accorga. Agli “ingoiatori” viene programmata una dieta a base di cibi solidi (mollica di pane, patate, mele, verdure, crusca), al fine di favorire l’espulsione naturale dell’oggetto ingerito. La progressione dei corpi estranei nel tubo digerente viene favorita mediante l’ingestione di farinacei che avvolgendo il corpo, ne riducono anche la pericolosità per la parete gastro- intestinale e gli impediscono di restare impigliato nelle pliche della mucosa. Ma che “risultato” ottiene l’ingoiatore? Si potrebbe pensare ad un ricovero in un centro clinico dell’Amministrazione Penitenziaria o in un ospedale civile se si tratta di un intervento urgente d’emergenza. E quindi, anche se in modo traumatico, il detenuto, anche solo temporaneamente, “evade” dalla propria cella, oppure talvolta, il gesto può essere finalizzato a segnalare l’esistenza trascurata, lo sconforto o l’abbandono di un detenuto. Tra le condotte autolesive va riportata anche quella di inalare il gas contenuto nelle ricariche dei fornelli comunemente in dotazione e consentite dalle vigenti disposizioni, al fine di stordirsi provocandosi delle allucinazioni. Rappresenta un comportamento anticonservativo frequente anche il così detto “sciopero della fame o della sete” ossia, la scelta dichiarata di non nutrirsi o assumere liquidi. Infine, si rilevano i comportamenti autosoppressivi con i quali indichiamo le condotte suicidarie, le quali sono solitamente poste in essere attraverso impiccamento utilizzando pezzi di lenzuolo, cinte dei pantaloni, lacci delle scarpe. È naturale come si può giungere alla morte anche attraverso comportamenti che mirano all’autolesionismo ma sono mal calcolati e dunque preterintenzionali. Secondo alcuni studiosi la condotta autolesiva del soggetto recluso può avere tre origini soggettive diverse, così da potersi distinguere, tra:

  • autolesionismo con causa psichica: come sintomo di psicosi o nevrosi carceraria;
     
  • autolesionismo con causa emotiva: come atto istintivo di protesta nei confronti dell’operatore dell’Amministrazione Penitenziaria e/o dell’Autorità Giudiziaria;
     
  • autolesionismo con causa razionale, come atto deliberato diretto ad ottenere strumentalmente un beneficio giudiziario-penitenziario.

Distinguerne le cause è di estrema importanza perché gli effetti giuridici delle condotte autolesive sono in relazione alle cause soggettive motivazionali che giustificano una pluralità articolata di reazioni da parte delle autorità penitenziarie e giudiziarie. Vi sono stati psicologici alla base del gesto autolesivo: uno dei più frequenti è la crisi ansioso-depressiva, che può manifestarsi con lo sciopero della fame, le lesioni da taglio multiple sugli avambracci o sull’addome o sul torace compiuti da detenuti di nazionalità italiana. Mentre, per i detenuti extracomunitari, specie se di religione musulmana, l’atto di procurarsi enormi tagli con forti emorragie assume un valore purificatorio, quasi di catarsi. Generalmente nei soggetti che ricorrono a questi mezzi “ricattatori”, in assenza di un evidente quadro psicopatologico, si riscontra un atteggiamento di tipo rivendicativo, ove risultino ipervalutati i “torti” subiti e trascurate le responsabilità personali. Talora, inoltre, si notano anche personalità rigide, diffidenti, scarsamente adattabili, che pongono in atto tali gesti con determinazione, spesso ripetendoli più volte anche sottoponendosi ad interventi chirurgici, se le loro rivendicazioni non fossero accolte. Infine, si può ricordare come la situazione ambientale determini in soggetti facilmente influenzabili comportamenti imitativi, anche autolesivi, ritenuti necessari allo scopo di essere meglio accettati dal gruppo. Per tentare di contenere questo “problema” l’Amministrazione Penitenziaria ha emanato varie circolari raccomandando a tutto il personale il massimo impegno per prevenire il verificarsi di suicidi e di atti di autolesionismo da parte dei detenuti, sia rimuovendone, per quanto possibile, le cause, sia impedendone l’esecuzione.

Infatti, viene riconosciuto allo Stato il potere di intervenire coattivamente “quando l’atto autolesivo sia posto in essere secondo modalità tali da far sussistere un concomitante e prevalente interesse della collettività”. Questo può avvenire in tre casi:

  1. quando l’atto sia talmente grave da porre in pericolo la vita dello stesso attore,
  2. quando l’atto sia il sintomo di una malattia mentale che limiti o escluda la capacità di autodeterminarsi;
  3. quando all’atto seguano conseguenze sulla diffusione ed il contagio di patologie incidenti sulla pubblica incolumità, di cui l’autore sia portatore.

In altri casi la reazione giuridica è di tipo negativo, nel senso che lo Stato interviene semplicemente non concedendo quel beneficio che l’autore voleva  raggiungere ponendo in essere strumentalmente un autolesione.

LA RILEVANZA GIURIDICA DEL SUICIDIO

Va osservato che nel nostro ordinamento giuridico, il suicidio non costituisce reato. Dalla lettura della relazione ministeriale sul progetto del codice  penale vigente, sembra che la volontà di non punire chi si toglie la vita, risieda nella duplice considerazione che la morte di un soggetto assolve tutto,  inoltre, la scelta di uccidersi attiene alla sfera intima dell’individuo. Con riferimento alla prima considerazione, non si comprende in dottrina come non sia punito il tentativo del suicidio atteso che l’autore resta in vita e dunque si può punire. Giova rilevare che una parte della dottrina (Manzini) trova incoerente che il tentato suicidio non costituisca reato, soprattutto se si pensa che ai sensi dell’art. 5 del codice civile risultano vietati perfino gli atti di disposizione del proprio corpo [4]. Tale diposizione si pone in correlazione con l’art. 32, co. 1 della Costituzione che tutela il diritto alla salute e in senso lato anche il diritto alla vita, dunque, anche se non esiste una norma che punisca direttamente il suicidio o il tentativo di suicidio, le condotte autosoppressive contravvengono, se non i principi del diritto penale, almeno quelli di diritto civile e costituzionale. Ora esemplificando all’estremo i termini della questione ed evitando di soffermarci sull’evoluzione storica della repressione giuridica del suicidio – di per sé peraltro suscettibile di diverse interpretazioni [5] – e comunque culminata nella sua decriminalizzazione – deve osservarsi, che con la secolarizzazione dell’ordinamento giuridico, il diritto ha il compito esclusivo di regolare i rapporti tra consociati, allo scopo di assicurare e mantenere una loro pacifica coesistenza. Questa sua finalità ontologicamente relazionale, fa sì che la tutela dei beni sia proiettata verso le aggressioni esterne, non rivestendo rilievo le condotte poste in essere dagli stessi titolari.

Contro una siffatta impostazione, si potrebbe sostenere che l’assenza di un precetto normativo contenente un comando di vivere, trova giustificazione nella non sanzionabilità della violazione e che il suicidio resta comunque un fatto antigiuridico perché rappresenta la più aperta negazione e la più decisa ribellione al contratto sociale che sta alla sua base [6]. Giova osservare che con l’art. 580 c.p., è invece punita la partecipazione al suicidio [7]. Occorre accertare che il soggetto:
a) abbia commesso una qualsiasi azione per effetto della quale in una persona sia sorto il proposito (istigazione primaria) o si sia rafforzato il proposito (istigazione secondaria) di suicidarsi;
b) oppure abbia fornito a chi intendeva suicidarsi i mezzi necessari per attuare l’insano proposito (agevolazione). In codesti fatti è da ravvisarsi non solo la condotta criminosa, ma anche l’evento (di pericolo) del reato; occorre accertare, altresì che il soggetto abbia voluto effettivamente spingere la persona al suicidio o agevolare l’esecuzione (dolo).

LA TUTELA DELLA SALUTE DEL DETENUTO E L’OBBLIGO GIURIDICO DI IMPEDIRE L’EVENTO

La tutela della salute della persona reclusa assume una valenza positiva in relazione a quella che è la concezione della pena riconosciuta nella nostra Costituzione nell’art. 27, terzo comma, Cost. che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla  rieducazione del condannato“. La norma costituzionale, è noto, sancendo il principio della “umanizzazione” e della “funzione rieducativa” della sanzione penale, impone una concezione della pena non meramente retributiva o preventiva ma attenta ai bisogni umani del condannato in vista del suo possibile reinserimento sociale. È naturale osservare come, allora, la umanizzazione della pena e la rieducazione del detenuto postuli necessariamente la tutela del suo diritto alla salute. La condizione di benessere psico-fisico diviene, infatti, strumentale all’attività volta al recupero sociale dell’individuo, a quello che viene definito il “trattamento”.

La stessa esecuzione della pena nei suoi caratteri sanzionatori e disciplinari deve cedere il passo di fronte alla malattia. La disciplina sui ricoveri, sull’incompatibilità e sull’applicazione di misure verso il recluso-malato si muovono in tale direzione. L’assistenza sanitaria del detenuto, quindi, pur essendo incidentale rispetto ai fini primari della carcerazione e della sicurezza, si pone come attività strumentale, si qualifica rispetto alla funzione di trattamento e di sicurezza. La tutela della salute del detenuto, l’organizzazione sanitaria e i compiti della medicina penitenziaria, non possono essere pienamente compresi al di fuori di quel binomio sicurezza-trattamento che caratterizza tutta la fase esecutiva e accompagna, con tutte le ambiguità e le difficoltà insite nel reciproco rapporto, l’espletamento di tali funzioni, espressioni diverse della unica finalità della pena con valenza rieducativa. La grande complessità del sistema penitenziario odierno, nel suo insieme e in rapporto ai suoi molteplici compiti, risiede in questa singolarità della funzione.

Il principio della tutela della salute come fondamentale diritto di ogni individuo sancito dall’articolo 32 della Costituzione, si estrinseca, sia pure sotto diversi aspetti, anche attraverso il rispetto del diritto all’integrità fisica del detenuto. In tal senso devono essere intese le norme contenute nell’ordinamento penitenziario: negli artt. 5 e 6 O.P. sulle modalità di costruzione dei nuovi istituti penitenziari e sulle caratteristiche dei locali di soggiorno e di pernottamento; nell’art. 7 sul vestiario ed il corredo da fornirsi a ciascun detenuto; nell’art. 8 sull’uso dei bagni e delle docce per l’igiene e la pulizia personale; nell’art. 9 sulla somministrazione del vitto e nell’art. 10 sulla permanenza all’aria aperta per un tempo minimo di due ore [8]. Tali disposizioni hanno come obiettivo quello di garantire un livello decoroso di condizioni di vita quotidiana e di igiene personale dei detenuti, attuando in sostanza una tutela “preventiva” della salute.

Diversamente dalla norme poste a tutela “preventiva” del diritto alla salute, l’organizzazione del servizio sanitario negli istituti penitenziari prevista dall’art. 11 O.P., è volta ad assicurare la realizzazione delle cure mediche che si rendono necessarie dall’attualità delle condizione del detenuto. Tale disposizione, traendo forza dall’art. 32, co. 2 Cost., impone la sotto-posizione a visita medica generale per tutti i soggetti che fanno ingresso in istituto, nonché il controllo periodico dell’idoneità al lavoro dei detenuti che prestano attività lavorativa in carcere [9]. Giova rilevare che in ogni istituto deve essere istituito un servizio di medicina generale e di uno specialista in psichiatria, nonché di una farmacia interna per la terapia ordinaria [10]. Attraverso il riordino della medicina penitenziaria, avvenuto con il D.lgs. 230/99, si è affermato che in materia di erogazione dei servizi sanitari vige il principio della parità di diritti tra i detenuti e i cittadini liberi.

Le competenze in materia sanitaria sono ripartite ora tra il Ministero della Sanità, per la programmazione controllo del Servizio Sanitario Nazionale negli istituti penitenziari, le Regioni e le AA.SS.LL.; mentre, al Ministero della Giustizia sono riservate competenze in materia di sicurezza all’interno delle strutture sanitarie interne al carcere e presso i luoghi di cura esterni [11]. Quando si verificano eventi che rendono necessarie cure mediche o diagnostiche che non possono essere adeguatamente fornite dai presidi sani-tari esistenti in istituto, i detenuti possono essere trasferiti presso ospedali o altri luoghi esterni di cura [12].

Dunque, il rapporto esecutivo penale è caratterizzato dall’esistenza di una sfera di potestà pubblica che si relaziona, attraverso i propri atti e provvedimenti, con soggetti detenuti in termini non già unilaterali (potestà/soggezione) bensì bilaterali, di rapporto giuridico di diritto pubblico (secondo l’impostazione tradizionale: potere - diritto soggettivo/diritto affievolito, interesse legittimo). La seconda caratteristica del rapporto tra l’Amministrazione Penitenziaria e la persona detenuta o internata concerne la posizione di garanzia che la particolare situazione segregativa in cui si trova il detenuto, fa sorgere in capo all’Amministrazione Penitenziaria, quale istituzione deputata alla custodia dei condannati e internati.

Da tale posizione nasce un’articolata serie di obblighi per l’amministrazione, quali la tutela dell’integrità fisica e della salute che comporta l’insorgere di responsabilità a carico dell’amministrazione che può essere fatta valere in sede civilistica (sotto il profilo risarcitorio) [13], in coerenza con i rimedi attivabili presso il Magistrato di Sorveglianza (reclamo ai sensi degli artt. 14 ter e 69 L.354/75 con possibilità di emissione del decreto di ottemperanza ai sensi del 69 O.P.). A tal proposito si rileva che secondo il più recente orientamento, le residue barriere dogmatiche che impedivano una piena omologazione tra “rischio di impresa” del privato e “rischio di servizio” dell’ente pubblico debbono essere rimosse, ed è pertanto applicabile anche alla p.a. il paradigma della responsabilità oggettiva che ex art. 2049 c.c. grava sui datori di lavoro privati per i fatti illeciti dei dipendenti.

Giova rilevare che, mancando nel Codice Civile una precisa disposizione che fondi l’obbligo di attivarsi in presenza di determinate condizioni, ha indotto gli studiosi ad ispirarsi alle riflessioni condotte in relazione all’art. 40, 2° co., c.p., norma che equipara il comportamento omissivo, che integra violazione di un obbligo di azione, a quello commissivo. Occorre però, ai fini del risarcimento del danno extracontrattuale derivante da omissione, considerare rilevanti i soli comportamenti omissivi costituenti violazione di un obbligo giuridico di agire, non bastando la mera inerzia di fronte ad un pericolo ipoteticamente evitabile a fondare un giudizio di responsabilità. Si è peraltro notato come non vi siano norme che impongano all’Amministrazione Penitenziaria l’obbligo di prevenire, ad esempio, l’uso della droga da parte dei detenuti al fine di tutelarne la salute.

Tuttavia, sebbene non esistano norme positive che stabiliscano un obbligo del genere, si potrebbe ritenere che vi sia comunque un obbligo generico di esercitare un controllo per impedire l’introduzione di sostanze stupefacenti all’interno degli istituti penitenziari anche in funzione della salvaguardia della salute dei detenuti derivante dalla particolare situazione nella quale i medesimi si trovano. Inoltre, in caso di decesso di un detenuto per overdose, la mera presenza e circolazione di droga nella struttura carceraria non basta per addebitare all’Amministrazione Penitenziaria la violazione omissiva di obblighi giuridici, non potendosi escludere modalità di introduzione della sostanza che non implicano la violazione di alcun obbligo, e non essendo pertanto ascrivibile alcuna responsabilità omissiva al Ministero della Giustizia [14]; inoltre, la scelta di compiere o non controlli preventivi all’interno dei penitenziari rientra nell’ambito della discrezionalità amministrativa della P.A. e sfugge, pertanto, a qualsiasi sindacato giudiziale.

Obblighi “giuridici” di controlli stringenti sussistono solo con riguardo a detenuti “a rischio”: tranne il caso in cui, per la presenza di palesi indicatori di labilità psichica, i detenuti siano da considerare come soggetti a rischio, non può ritenersi sussistente un incondizionato obbligo “giuridico” di svolgere un’attività di controllo diretta ad evitare che questi possano assumere consapevolmente sostanze stupefacenti [15].

LA GESTIONE DELLA SUSSISTENZA DI UN “DIRITTO A LASCIARSI MORIRE”

Giova precisare che la questione va intesa e circoscritta al problema della sussistenza in capo ad ognuno del diritto a non essere sottoposto a trattamenti medici contrari alla propria volontà e non a quello di un “diritto a lasciarsi morire” inteso come eutanasia che trova riferimenti normativi precisi come l’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente) e sulla letteratura formatasi intorno all’istituto del consenso dell’avente diritto.

Il risvolto negativo della tutela della salute è il diritto di non essere curato. E’ evidente che il riconoscimento di tale diritto pone questioni serie e delicate nel rapporto tra la libertà di disporre consapevolmente dei trattamenti terapeutici e la tutela del bene vita. Osserviamo che il diritto all’autodeterminazione individuale e consapevole in ordine ai trattamenti sanitari può considerarsi positivamente acquisito ed è espressamente posto:

  1. dal’art. 32 della Cost. – “nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge” - Oltre alle legge sulle vaccinazioni obbligatorie, la legge più significativa, contenente anche norme di carattere generale, che ha dato attuazione alla norma costituzionale in tema di trattamenti sanitari obbligatori, è la n. 833 del 23.12.1978, ed in più specificatamente agli artt. 33e 34.
  2. Art. 5 della Convezione di Oviedo sulla biomedicina attuata in seno al Consiglio di Europa: “un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona abbia dato consenso libero e informato”.
  3. Art. 3 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo: “nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata”.
  4. Art. 32 del codice di deontologia medica: il quale statuisce che, in ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Siamo perciò di fronte al riconoscimento positivo della piena libertà di scelta del paziente rispetto al trattamento e al principio della sua fisica inviolabilità.

E difatti, a fondamento del diritto qui in esame, vi è, da un lato, il riconoscimento di una sfera di libertà (o di autonomia) della persona nelle scelte che più intimamente la riguardano; dall’altro l’idea di una sfera di inviolabilità dello spazio fisico, corporeo, che non si può invadere senza il consenso del titolare. Come effetto di tale riconoscimento si avrà che la mancanza del consenso qualifica come esercizio di violenza l’esecuzione del trattamento sanitario, chiamando in causa non solo la violazione dell’art. 32 Cost. ma anche quella dell’art. 13 Cost., posto a tutela della inviolabilità della libertà personale, che conseguentemente chiama in causa la duplice riserva rinforzata: di legge e di giurisdizione. Difatti, là dove il nostro Ordinamento ha imposto il trattamento sanitario obbligatorio ha previsto che ciò avvenga nei casi espressamente previsti dalla legge e con provvedimento del Giudice (nella specie quello tutelare, vedasi art. 33 L. 833/78).

Tuttavia, contro tale impostazione, apparentemente ineccepibile sul piano formale, è possibile muovere una importante obiezione, in base alla quale il diritto fondamentale in parola troverebbe comunque un limite nelle superiori esigenze di salvaguardia della vita umana, concepita come il valore supremo nel nostro ordinamento. Il ragionamento è semplice: a ciascuno spetterebbe una libertà di rifiutare ogni trattamento medico, a meno che non si tratta di un trattamento c.d. di sostegno vitale, ossia di un trattamento necessario per la propria sopravvivenza; in tale caso le istanze di tutela della vita prevarrebbero, ed il trattamento in questione potrebbe essere imposto al paziente anche in assenza di una specifica norma di legge autorizzatrice, operando comunque – a giustificazione della coazione- la generale norma scriminante dello stato di necessità – art. 54 c.p.

È il caso del così detto sciopero della fame del detenuto riguardo la legittimità dell’alimentazione obbligata del soggetto che volontariamente si astiene dal nutrirsi e la potenziale responsabilità penale dei medici e dei funzionari dell’Amministrazione Penitenziaria [16]. In via generale possiamo affermare che il dibattito ruota attorno a due opinioni: la prima tesi si fonda sull’applicabilità dell’art. 54 C.P. (stato di necessità) e del combinato disposto degli artt. 589 C.P. (omicidio colposo) e 40 C.P. che vedrebbe un rapporto causale dell’omissione di intervento con la morte e obbligo giuridico del pubblico ufficiale che ha la responsabilità della custodia di agire quando vi sia imminente pericolo di vita del detenuto (art. 51 C.P. adempimento di un dovere).

La seconda contraria si basa sull’interpretazione dell’art. 32 Cost. che vieta trattamenti sanitari obbligatori non previsti espressamente dalla legge, come nel caso di specie, nonché, sulla disposizione del codice di deontologia medica del 2009 ove è previsto che il medico non deve intervenire nel caso in cui una persona sana di mente e dunque capace di intendere e di volere si rifiuti di alimentarsi. In sostanza si deve rilevare da un lato, a carico del personale medico e dell’Amministrazione Penitenziaria, l’obbligo di garantire l’incolumità personale, poiché con la presa in carico del detenuto si assume la responsabilità della sua tutela all’integrità fisica; dall’altro, si deve constatare che la scelta di non nutrirsi e dunque l’intento di suicidarsi, sembra essere libera solo all’apparenza poiché sappiamo che la carcerazione può distorcere la percezione della realtà. Per quanto sopra evidenziato, è opportuno che il detenuto venga attentamente monitorato al fine di capire se la sua scelta di non alimentarsi è frutto della sua volontà o invece si trova in uno stato confusionale che gli impedisce di decidere con consapevolezza [17].

NOTE

nota 1 In particolare si fa riferimento alla circolare n° 3233/5683 del 30 dicembre 1987 dell’allora Direzione Generale degli II.PP. (Tutela della vita e della incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati: istituzione e organizzazione del servizio nuovi giunti).

nota 2 Lettera circolare n° 0181045 del 6 giugno 2007 della Direzione Generale Detenuti e Trattamento (I detenuti provenienti dalla libertà: regole di accoglienza – linee di indirizzo).

nota 3 Buffa P.: “L’attenzione al disagio psichico in carcere: dalla responsabilità formale al pragmatismo etico” in Autonomie locali e servizi sociali, XXVI, 1/2003, Il Mulino, Bologna.

nota 4 L’art. 5 c.c. testualmente dice: “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati, quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, ordine pubblico, o buon costume“.

nota 5 La ricostruzione storica contenuta nel classico saggio in argomento di E. Durkheim, Le suicide Etude de sociologie, Paris, 1897, è stata recentemente sottoposta ad una serrata critica da Marra, La repressione legale del suicidio. Analisi e sviluppo della ricostruzione durkemiana. In Materiali per una cultura giurdidica, 1986, XVI, 129 ss. E Id., Suicidio, diritto e anomia, Iammagini della morte volontaria nella civiltà occidentale, 1987, 99 ss. In sintesi, mentre il Durkheim afferma che, nel corso dei secoli e presso tutte le civiltà, la repressione legale del suicidio si pone come il risultato di una forte disapprovazione sociale, al contrario Marra – con dovizia di fonti e ampia dimostrazione degli errori storici commessi da Durkheim – sostiene che tale riprovazione morale può rinvenirsi solo nel diritto religioso medievale. In una prospettiva storica vedi anche Bernardini, Dal suicidio come crimine al suicidio come malattia, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1994, 81 ss.

nota 6 Così VITALE, L’antigiuridicità “strutturale” del suicidio, in Riv. Internaz. Fil. Dir, 1983, 46 ss., secondo cui il suicidio si oppone “alla struttura stessa del rapportarsi giuridico, giacchè il diritto, lungi dall’essere una mera tecnica di organizzazione sociale, si rivela come una forma di strutturazione e misurazione reciproca della coesistenza, ove lo statuto deontico della doverosità, che si esprime nel dover essere della norma, va più precisamente inteso come dovere- di-essere”.

nota 7 istigazione o aiuto al suicidio -“Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, e’ punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, e’ punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta e’ minore degli anni quattordici o comunque e’ priva della capacita’ d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio”.

nota 8 Il diritto di permanere all’aria per almeno due ore al giorno può essere rinunciato dal detenuto nel corso della fruizione, con il dovere in capo alla Polizia Penitenziaria di consentire il rientro in camera anche se ciò può comportare un aggravio di lavoro (M.d.S di Brescia , 14 aprile 1998, in Rass. Pen. Crim, 1998, 285).

nota 9 La Cass. In sent. 14 giugno 1993, in Cass. Pen. 1994, 3111 ha ritenuto che le verificazioni mediche ed i relativi prelievi a scopo diagnostico su detenuti ed internati costituiscano attività amministrative di controllo, legittimate dall’art. 11 O.P., dovendosi conseguentemente escludere le adozione delle garanzie previste dal C.P.P.

nota 10 V. Magliona-Pastore, La cartella clinica penitenziaria – aspetti giuridici e medico-legali, in Riv. It. med. leg., 1991, 453.

nota 11 V. su Dir. Pen. Proc. 1999, 1221, il commento alla normativa introdotta con D.lgs. 22 giugno 1999 n. 230 di La Greca, con note critiche sul fatto che si è in concreto creata una competenza concorrente tra i ministeri della Sanità e Giustizia che potrebbe portare ad una dispersione di risorse e mancanza di funzionalità.

nota 12 Il provvedimento che nega un ricovero in un luogo esterno di cura non è impugnabile poiché non incide sulla libertà del soggetto , ma solo sulle modalità della detenzione. In tal senso,Cass. 30 gennaio 1991, in Cass. Pen. 1992, 2817.

nota 13 Con la Sentenza n. 2845 del 4 novembre 2009, il Tribunale di Venezia, sez. III, ha deciso sulla pretesa risarcitoria avanzata dai famigliari di un detenuto deceduto in carcere dopo avere assunto sostanze stupefacenti (oppiacee) in combinato con forti dosi di alcool. La domanda di risarcimento è stata proposta nei confronti del Ministero della giustizia, ritenuto responsabile dell’omissione dei controlli che avrebbero evitato l’ingresso delle sostanze medesime nella struttura carceraria, e così la morte del loro congiunto.

nota 14 Trib. Roma, sez. II, 3 settembre 2007.

nota 15 v. Cass. sez. I n. 10723/1996; sez. III n. 12124/2003; sez. III n. 11609/2005.

nota 16 Sulla questione V. Fiandaca, Sullo sciopero della fame nelle carceri, in Foro it. 1983, II, 235.

nota 17 V. sent. 10/04/89, Rass. Pen. Crim., 1989, 280, il tribunale di Milano perveniva a condanna degli imputati (tutti medici penitenziari) argomentando che, pur non potendo ammettere l’intervento coattivo per la nutrizione del soggetto che volontariamente si astiene dal cibo, l’alimentazione forzata doveva essere operata dai sanitari, per evitare la morte del detenuto, attraverso il trattamento sanitario obbligatorio disciplinato dagli art.. 34 e 35 della L. 833/78, dal momento stesso in cui il soggetto non era più capace di intendere e di volere per l’anomalia psichica e ciò nonostante proseguiva il digiuno.