La prevenzione dei suicidi in carcere - Quaderni ISSP Numero 8 (dicembre 2011)

Ministero della Giustizia
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

Istituto Superiore di Studi Penitenziari

Quaderni ISSP Numero 8 - La prevenzione dei suicidi in carcere
Contributi per la conoscenza del fenomeno

Dicembre 2011
 

6 - "Il ruolo della Polizia Penitenziaria nell’attività di prevenzione e gestione di eventi critici: gesti autolesionistici”
a cura di Mariarosaria Iannaccone - vicecommissario di polizia penitenziaria

abstract

L’Autrice considera il gesto autolesionistico nei suoi aspetti causali, rilevando per esempio l’attivazione di esso a seguito della negazione di un beneficio, o della percezione di un’ingiusta detenzione, o della mancanza di privacy. Un altro aspetto preso in esame nell’elaborato, è il fenomeno dello sciopero della fame e il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Lo sciopero della fame può configurarsi quale “diritto di non essere curato”, un diritto che, in ambito penitenziario, mina la posizione di garanzia di assicurare la tutela della salute dei ristretti. Tuttavia, quando lo sciopero supera i tre giorni, la morte può essere evitata soltanto attraverso l’alimentazione artificiale accettata dal soggetto o imposta dall’autorità sanitaria. Quando subentra uno stato d’incapacità d’intendere e di volere, è legittimo il ricorso all’alimentazione forzata. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio interviene soltanto qualora due medici abbiano formalmente verificato la momentanea incapacità d’intendere e di volere.

Le circostanze che, anche potenzialmente, possono determinare situazioni di rischio per l’ordine e la sicurezza negli Istituti penitenziari o compromettere l’incolumità psico-fisica degli operatori penitenziari e delle persone ristrette, sono definiti “eventi critici”. Tra questi rientra il gesto autolesionistico, il cui compimento può essere dettato da molteplici motivazioni, come ad esempio dall’ottenimento, in modo strumentale, di un beneficio precedentemente negato, come l’assunzione di farmaci oltre quelli prescritti o di sedativi in caso di astinenza. Ulteriori motivi possono ravvisarsi nella “ritenuta” ingiusta detenzione, nelle richieste di spostamento da una camera detentiva ad un’altra, nel timore per la propria incolumità o nella mancanza di privacy. Inteso in tal senso  [1], il benessere della persona detenuta e quindi, la conseguente assenza di gesti autolesionistici od autosoppressivi, non risiederebbe negli stimoli esterni (corsi didattici e ricreativi) ma, nel rapporto della persona detenuta con le altre persone ristrette e con l’ambiente penitenziario.

L’autoaggressione può essere considerata anche come fenomeno predicente l’estremo gesto suicidale, quando quest’ultimo non sia frutto di un raptus ma, l’epilogo di un percorso che segna la minore o maggiore gravità del disagio. Tale tragitto può essere scomposto in più fasi: “iniziale”, in cui alla comparsa di sensazioni di ansia, angoscia ed irrequietezza, si affianca la ricerca di un aiuto farmacologico e di un supporto psicologico; una fase centrale, in cui prevale lo stato ansioso con iniziali scatti d’ira, di rabbia e di disperazione. Pervasa da intenti autoaggressivi, tale stadio preannuncia la fase “finale”[2] in cui si può sviluppare un desiderio di fuga dalla “non realtà” o un’anestesia psichica verso qualsiasi timore, anche verso la morte [3]. In questi casi, ed in qualsiasi altra situazione in cui si possa ravvisare un elevato rischio del compimento di gesti auto – etero aggressivi, necessita l’adozione di adeguati e mirati provvedimenti di sorveglianza attraverso i quali, l’intero personale viene allertato ad una maggiore attenzione nei confronti della persona detenuta a rischio.

Svariate sono le modalità per concretizzare il disagio o l’intento manipolativo: dai tagli multipli sugli avambracci, sull’addome, sul torace, dalle incisioni sulla pelle, dalle cuciture delle palpebre e labbra, si arriva all’ ingestione di oggetti o sostanze tossiche, al darsi fuoco, allo sciopero della fame, al rifiuto della terapia, all’induzione o aggravamento di patologie ed alla simulazione di malattia. Diversi sono anche gli strumenti adoperati: lamette, pile, posate di plastica e di alluminio, bombolette di gas, detersivi, fili di rame elettrici etc. I corpi estranei frequentemente ingoiati, sono quelli facilmente reperibili nella camera detentiva : chiodi, viti, spazzolini da denti, manici di cucchiai, forchette, lamette, pile, lampadine, molle delle reti del letto e pezzi di metallo in genere.

Di fronte a tale moltitudine di oggetti o strumenti utilizzati per auto ledersi, è difficile se non impossibile per il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria prevenire in modo assoluto atti di tal natura. A ciò si aggiunge che nel caso di ingestione di corpi estranei, essendo spesso programmata dalla persona detenuta al fine di “evadere” seppure temporaneamente dalla camera detentiva, emergono difficoltà gestionali, soprattutto in caso di carenza di organico, data la necessità, in casi estremi, di ricoveri nelle strutture ospedaliere esterne all’Istituto penitenziario (è il caso di sospetta perforazione intestinale derivante dall’ingestione di pile che richiede un intervento chirurgico, la c.d. laparotomia urgente) [4]. La difficoltà di gestire tale evento critico emerge anche se si dovesse avallare l’opinione di chi ritiene che il detenuto non ingerisca oggetti per puro desiderio di allontanarsi dalla struttura detentiva, ma per segnalare un’esistenza trascurata, un abbandono od uno sconforto [5]. È ormai pacifico che è possibile intervenire coattivamente, anche contro la volontà dell’autore, quando l’atto autolesivo sia posto in essere secondo modalità tali da far sussistere un concomitante e prevalente interesse della collettività.

E ciò avviene:

  1. quando l’atto sia talmente grave da porre in pericolo la vita dello stesso autore,
  2. quando l’atto sia il sintomo di una malattia mentale che limiti o escluda la capacità di autodeterminarsi;
  3. quando dall’atto possano derivare conseguenze sulla diffusione ed il contagio di patologie incidenti sulla pubblica incolumità, di cui l’autore sia portatore. 

Tali affermazioni pur essendo pacifiche, non rendono semplice l’affrontare la modalità autolesionistica/autosoppressiva dello sciopero della fame. In merito, dispute dottrinali hanno ad oggetto il rapporto tra il diritto alla salute e l’autodeterminazione della persona detenuta, alla luce delle norme costituzionali. Il fenomeno dello sciopero della fame è un’ipotesi di “diritto di non essere curato” quale risvolto negativo del diritto alla salute. È un diritto che, in ambito penitenziario, insinua la posizione di garanzia di assicurare la tutela della salute dei ristretti. A tale obbligo penitenziario, si contrappone la libertà dei detenuti di rifiutare oltre gli alimenti, anche gli interventi terapeutici. In altri termini, vige un rapporto tra posizioni contrastanti che pone il problema di valutare l’eventuale prevalenza del diritto di libertà individuale di gestire il proprio corpo e la propria vita, ai sensi degli artt.2, 13 e 32 comma 2 della Costituzione, sul dovere dello Stato di tutelare la salute dei consociati ( art 32 comma 2 Costituzione).

Per contemperare il “diritto” ed il “dovere” va adottato il principio della prevalenza del diritto del singolo, solo se dal suo esercizio non ne derivino conseguenze precludenti le facoltà degli altri consociati; ergo, in caso contrario, si affievolisce la posizione individuale [6]. Lo sciopero della fame è il rifiuto totale e volontario dell’assunzione di cibo, senza giustificato motivo medico, che duri da più di tre giorni [7]. Se il digiuno si prolunga nel tempo, la morte può essere scongiurata solo con l’interruzione dello sciopero della fame attraverso l’alimentazione artificiale accettata dal soggetto o imposta dall’autorità sanitaria [8].

Di fronte ad una persona detenuta che sciopera dunque, il problema è quello della liceità dell’intervento medico attraverso l’alimentazione forzata. Essendo un trattamento non solo obbligatorio ma anche coattivo, per essere lecito dovrebbe rispondere alla duplice valenza della riserva di legge scaturente dagli artt.32 e 13 della Costituzione [9]. Quindi, se in base a tali disposizioni, non può essere imposto alcun trattamento che non sia previsto dalla legge (art. 32 della Costituzione) e nessuna misura restrittiva della libertà personale può essere adottata, neanche per fini sanitari se non nei casi previsti dalla legge e con le garanzie dell’intervento del giudice (art 13 della Costituzione), ne deriva l’illiceità dell’alimentazione forzata dei detenuti, in assenza di disposizioni legislative che si riferiscano direttamente a tale ipotesi [10]. A fronte delle opinioni dottrinali che si esprimono sfavorevolmente alla legittimità del ricorso al trattamento sanitario obbligatorio nei confronti del detenuto digiunatore [11], avanza l’obbligo giuridico della tutela della incolumità fisica del detenuto che grava sull’Amministrazione Penitenziaria. Ne consegue il dovere di intervenire al fine di prevenire la morte o i danni derivanti da denutrizione [12] e, quando subentra uno stato di incapacità di intendere e di volere, è legittimo il ricorso all’alimentazione forzata.

Il T.S.O. interviene solo qualora due medici abbiano formalmente acclarato la momentanea incapacità di intendere e di volere, non potendosi ipotizzare un T.S.O. se il soggetto è “sano di mente”. La competenza a disporre il T.S.O., con le modalità dell’alimentazione forzata, spetta al sindaco del Comune in cui si trova l’Istituto penitenziario ove è ristretto il detenuto.

Per quel che concerne la responsabilità del medico ed il dovere di salvaguardare l’incolumità del detenuto, sotto il profilo penalistico rileva la fattispecie dell’omicidio colposo in caso di omissione dell’intervento terapeutico dal quale ne deriva la morte. [13] Assodato che ogni trattamento sanitario, deve essere “di regola” preceduto dal consenso del soggetto destinatario ed un eventuale dissenso è superabile solo dove una legge ne prevede un preciso dovere di intervenire anche coattivamente, si pone il problema di come collocare in tale situazione, gli artt.41 O.P. e 82 reg esec. In ossequio all’art.41 O.P. sussiste, in capo alla Polizia Penitenziaria, l’obbligo giuridico d’intervenire per sventare l’attuarsi di eventi critici. Tale norma infatti, rubricata “Impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione”, individua il dovere giuridico e la responsabilità della Polizia Penitenziaria nel salvare il recluso, anche usando la forza se necessario. In sintesi, il personale è autorizzato ad usare quei mezzi di coercizione fisica che,“normalmente” gli sono proibiti [14].

Nel discorrere di “obbligo di impedire gli eventi” attraverso l’uso della forza fisica e mezzi di coercizione nel caso dello sciopero della fame, la normativa penitenziaria non prevede un chiaro intervento in tale direzione, limitandosi a consentire l’impiego della forza fisica per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere una resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti, e ad autorizzare il ricorso a mezzi di coercizione diversi dalla forza fisica, espressamente previsti dal regolamento, al fine di evitare danni a persone o di garantire l’incolumità dello stesso soggetto. Il richiamo all’art 82 del D.P.R. 230/2000, si riferisce agli strumenti impiegati, sotto controllo sanitario, per le medesime finalità, presso le istituzioni ospedaliere pubbliche, che si sostanziano nelle misure di immobilizzazione dell’individuo (fasce di contenzione ai polsi e caviglie).

Non essendo pacifico che lo sciopero della fame sia un atto autolesionistico, che possegga i caratteri della violenza, è dubbioso se possa rientrare appieno tra quegli atti che la normativa mira ad impedire; norma tra l’altro, che non essendo inserita in quelle concernenti i problemi sanitari, si ritiene finalizzata ad interventi di altra natura [15]. Tra i quali, se rientrano a pieno titolo gli interventi coattivi per impedire un’impiccagione o per eliminare gli effetti di atti autolesionistici (tagli delle vene), non rientrano le imposizioni di “fare” a fronte di condotte omissive.

L’Amministrazione Penitenziaria è però titolare di una vera e propria posizione di garanzia nei confronti della persona detenuta, il cui obbligo è suffragato anche dalle norme penalistiche [16]. L’Amministrazione quindi, se da un lato è garante del- l’impedimento, avendo l’obbligo giuridico di attivarsi, anche contro la volontà del detenuto dall’altro, non può essere impiegato l’uso della forza fisica per vincere una resistenza posta a tutela di un proprio diritto, in assenza di un pregiudizio alla salute della collettività. Se dunque, lo sciopero della fame è considerato “potenzialmente epidemico” per la microsocietà penitenziaria, è ovvio che può essere impiegato l’uso della forza; in caso contrario invece, viene meno il dovere giuridico d’intervento, escludendosi lo stesso nesso di causalità tra la condotta e l’evento di cui all’art 40 c.p. Considerata in tali termini, se da un lato, la restrizione della libertà personale, conseguente allo stato di detenzione, consente, per fini di ordine e sicurezza, un controllo della persona da parte del personale appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria, dall’altro, il detenuto ha il diritto, costituzionalmente tutelato, di espandere la propria responsabilità attraverso l’esplicazione del “residuo” di libertà personale, al pari del soggetto libero.

L’orientamento favorevole all’intervento coatto dell’Amministrazione, sviluppa invece due considerazioni [17]. La prima ritiene che la scelta di lasciarsi morire per fame nella struttura penitenziaria è apparentemente libera, perché il comportamento del soggetto non è scevro da condizionamenti derivanti dalla stato detentivo, che spingono il detenuto a perdere la percezione della realtà. Essendo dunque, incapace di valutare in maniera adeguata il “reale”, necessita di una tutela differenziata rispetto ai soggetti in libertà. La seconda considerazione fa leva sullo stadio terminale del digiuno che determina una condizione somato-psichica [18].
Lo sconfinare del rifiuto di alimentarsi in disturbi psicologici, assimilabile alla malattia mentale autorizzerebbe il ricorso agli artt. 34 e35 della L. 833/78, ossia al T.S.O.[19]


NOTE

nota 1 F. FAGGIAN, “Ti sciuro”, Uni Service, Trento, 2007, pag 24;

nota 2 L. MANCONI, A. BORASCHI, “Quando hanno aperto la cella era già tardi perché:suicidi ed autolesionismo in carcere 2002 – 2004” in Rassegna Italiana di Sociologia,1, gennaio - marzo 2006 : una considerevole parte dei suicidi possono definirsi “suicidi annunciati” in quanto gli autori versano obiettivamente in gravi o gravissime condizioni di depressione o hanno già posto in essere tentativi o minacce di suicidi;

nota 3 F. FAGGIAN, “Ti sciuro”, Uni Service, Trento, 2007, pag.27;

nota 4 F. FAGGIAN, “Ti sciuro”, Uni Service, Trento, 2007,pag. 33;

nota 5 F. FAGGIAN, “Ti sciuro”, Uni Service, Trento, 2007, pag.33: l’opinione contraria risale a Gonin;

nota 6 G. BONILINI, M. CONFORTINI, “Codice penale ipertestuale, leggi complementari, commentario con banca dati di giurisprudenza e legislazione”, a cura di M. Ronco, S. Ardizzone, Utet giuridica, 2007, pag.133;

nota 7 ALLEGRANTI, GIUSTI, “Lo sciopero della fame del detenuto. Aspetti medico legali e deontologici”, Cedam, Padova, 1983 pag.6;

nota 8 ALLEGRANTI, GIUSTI, “Lo sciopero della fame del detenuto. Aspetti medico legali e deontologici”, Cedam, Padova, 1983 pag.6;

nota 9 ONIDA, “Dignità della persona e diritto di essere ammalati”, in Questioni giuridiche 1982, pag. 362;

nota 10 ONIDA, “Dignità della persona e diritto di essere ammalati”, in Questioni giuridiche 1982, pag.362; VALENTINI, “I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia”, Padova, 1996, pag.333;

nota 11 ONIDA, “Dignità della persona e diritto di essere ammalati”, in Questioni giuridiche 1982, pag.365; LUCIANI, “Diritto alla salute”, in Enciclopedia Giuridica, pag. 11: pur distinguendosi tra obbligo di soccorso in punto di morte e intervento coattivo in caso di digiuno volontario, si nega la legittimità dell’alimentazione forzata e si afferma l’inapplicabilità della normativa sui trattamenti sanitari obbligatori;

nota 12 M. CANEPA, S. MERLO, “Manuale di diritto penitenziario”, Giuffrè, Milano, 2006, pag.145;

nota 13 M. CANEPA, S. MERLO, “Manuale di diritto penitenziario”, Giuffrè, Milano, 1996, pag.124;

nota 14 Seminario di psicologia penitenziaria, “La distruttività nell’uomo: psicopatologia dei reati nella popolazione carceraria”, 19 settembre 2008, Complesso socio-sanitario dei Colli, pag 10;

nota 15 La Corte di cassazione ha valutato tali forme di costrizione come atti di coercizione leciti in ambito carcerario e non come atti medici: in Cassazione penale sez IV sent 19.12.1979;

nota 16 GIUNTA, “La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria”, in Diritto penale processuale, 1999, pag. 629: Infatti, l’obbligo giuridico si desume dal combinato disposto della clausola generale di equivalenza di cui all’art 40 c.p., con gli articoli di parte speciale 589 (omicidio colposo), 590 (lesioni personali colpose) c.p., o ancora gli artt 328, comma 1 (rifiuto di atti di ufficio. Omissione) e 586 ( morte o lesioni come conseguenza di altro delitto)c.p ; TERRAGNI, Illecito omissivo improprio e posizione di garanzia, in Giurisprudenza italiana, 1998, V, pag. 1081; FIANDACA, sullo sciopero della fame nelle carceri, in Foro italiano, 1983, II, pag 235;

nota 17 M. CANEPA, S. MERLO, “Manuale di diritto penitenziario”, Giuffrè, Milano, 2006;

nota 18 dove “è il digiuno che prende la mano al digiunatore”, dove l’organismo non vuole o non può più ricevere il cibo a causa delle modificazioni anatomiche della mucosa gastroenterica e delle ghiandole annesse;

nota 19 il sindaco rilascerà, nella sua qualità di autorità sanitaria, previa proposta motivata del sanitario, apposita ordinanza di ricovero, immediatamente esecutiva, presso il servizio psichiatrico di un ospedale civile del territorio e contestualmente comunicherà il provvedimento al giudice tutelare.