La prevenzione dei suicidi in carcere - Quaderni ISSP Numero 8 (dicembre 2011)

Ministero della Giustizia
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

Istituto Superiore di Studi Penitenziari

Quaderni ISSP Numero 8 - La prevenzione dei suicidi in carcere
Contributi per la conoscenza del fenomeno

Dicembre 2011
 


3 - L’autolesionismo penitenziario. Il fenomeno suicidario: analisi criminologica ed interventi gestionali.
a cura di Angela D’Aniello - vicecommissario di polizia penitenziaria

abstract

La D’Aniello riporta il significato etimologico del termine “autolesionismo”: dal greco autòs, se stesso, e dal latino ledere, ferire: indica l’atto per effetto del quale un individuo provoca intenzionalmente un danno al proprio corpo, lesionandosi, di solito, in modo abbastanza grave. Gli atti autolesivi  presentano gradi di diversa gravità, affrontati sulla base di una diversa capacità di coping in situazioni di stress emotivo. coglie bene l’aspetto  strumentale che, in alcuni casi, è alla base del tentativo di suicidio. Difatti, per poter ottenere un beneficio, il detenuto strumentalizza al massimo grado  la propria corporeità, attivando pericolosi gesti autoaggressivi, per destare l’attenzione degli operatori penitenziari. Come rilevano L. Baccaro, F. Morelli  (2009), lo “scambio comunicativo” tra ristretti e personale penitenziario avviene attraverso l’uso del corpo. L’Amministrazione penitenziaria ha l’obbligo di tutelare l’integrità psicofisica dei detenuti, e può agire anche in modo coattivo quando un soggetto perda la capacità di intendere e di volere. Nel caso specifico del perdurare dello sciopero della fame, si inserisce il ricorso al trattamento sanitario obbligatorio, di cui alla legge 833/78.


Gli atti di autolesionismo e gli atti suicidari rappresentano un fenomeno diffusissimo, all’interno delle strutture detentive, tanto da costituirne una delle caratteristiche strutturali. La mancanza di una definizione condivisa di “autolesionismo” nella letteratura risulta nella mancanza di pareri univoci; diversi ricercatori rilevano differenti costrutti e comportamenti che finiscono per chiamare autolesionismo. Etimologicamente la parola deriva dal greco autòs, se stesso, e dal latino ledere, ferire: indica l’atto per effetto del quale un individuo provoca intenzionalmente un danno al proprio corpo, lesionandosi, di solito, in modo abbastanza grave da provocare danneggiamenti ai tessuti o agli organi [1]. È tradizione indagare  separatamente la condotta autolesiva rispetto al più drammatico fenomeno del suicidio. La letteratura scientifica [2], da molto tempo, ha riflettuto sulle relazioni e sulla continuità tra le varie manifestazioni autoaggressive, sino a parlare di un “continuum di autodistruzione” che parte da quelle meno cruente sino a quelle autosoppressive. Scegliere di approcciare il fenomeno tenendo conto di questa relazione non significa accomunare i vari fenomeni in modo  indifferenziato.

Gli atti autolesivi e suicidari differiscono tra loro rispetto alle diverse motivazioni che ne muovono l’agire. Secondo alcuni autori,  mentre l’automutilazione è il tentativo di tornare ad uno stato di normalità, un atto patologico di rigenerazione, il suicidio rappresenta un’uscita  attraverso la morte, un atto di fuga. Mentre una persona che tenta il suicidio cerca di porre fine a tutte le sensazioni, con una fuga definitiva dalla  sofferenza emotiva, chi si auto-ferisce cerca, invece, una soluzione per rimanere in avanti e andare avanti, attraverso il sollievo temporaneo dal disagio  psicologico. Anche Gonin [3] ha interpretato la semplice lesione auto-inferta come un comportamento finalizzato alla decompressione psicologica di uno stato  stressante ed angosciante. “L’elemento puramente manipolativo e volto ad ottenere benefici non può rendere conto  sufficientemente delle motivazioni alla base  dell’autolesionismo carcerario”.

Questo, per altro verso, non implica cadere nell’errore opposto di credere tali condotte espressione di manifestazioni  psicopatologiche. Esse sono, piuttosto, manifestazione di un disagio con gradi di diversa gravità, affrontati in ragione di una diversa capacità di coping in  una situazione di stress emotivo. Interessante è l’affermazione secondo la quale l’autolesione servirebbe ad interrompere stati di morte emotiva. Grande è la  suggestione di tale definizione che riporta alle condizioni di vita dei settori più deprivati e ristretti degli istituti penitenziari. In generale la  condotta auto-aggressiva è un fenomeno drammatico, dove motivazioni consce ed inconsce si intrecciano, dove costante è la non tolleranza della situazione  attuale, dove è sempre presente un sentimento di vuoto esistenziale. Attraverso di essa il detenuto realizza un modo di comunicare verso l’ambiente sentito  come ostile.

In un particolare contesto, quale quello detentivo, il fenomeno dell’autolesionismo assume connotazioni particolari sia in relazione  all’ambiente in cui tali comportamenti maturano sia in relazione agli autori che li pongono in essere. Si verificano spesso estrinsecazioni violente che possono manifestarsi o come violenza contro gli altri oppure come violenza contro se stessi. Il detenuto, nella struttura detentiva, per poter ottenere un  beneficio, strumentalizza al massimo il proprio organismo, rasentando forme di autolesionismo rischiosissime e ciò al fine di richiamare l’attenzione degli operatori penitenziari. Sono tanti in carcere a tagliarsi, cucirsi la bocca, aggredire il proprio corpo per esprimere il disagio della detenzione: si arriva, perciò, a parlare di “autolesionismo dell’anima”.

In questi casi i gesti auto-aggressivi costituiscono un modo di agire provocato da disperazione, comportamenti comunicativi e meccanismi inconsci di  trasformazione della rabbia repressa e dell’angoscia. Tali atti evidenziano un problema non trascurabile, poiché per quanto finalizzati ad una sostanziale manipolazione degli operatori, rilevano comunque una scelta di campo: il linguaggio del corpo attraverso la sua lesione, il cui potenziale aggressivo non può passare inosservato. Ad alcune modalità di autolesione corrisponde una richiesta ben definita, perfettamente compresa dal personale penitenziario.

Infatti è un codice linguistico condiviso da entrambi le parti: lo “scambio comunicativo” avviene attraverso l’uso del corpo [4]. La condotta autolesiva del soggetto recluso può avere origini soggettive diverse, così da potersi distinguere tre forme di autolesionismo: condotta autolesionistica intesa come sintomo di psicosi o nevrosi carceraria (autolesionismo con causa psichica); condotta autolesionistica che assume il significato dell’atto istintivo di protesta nei confronti dell’operatore del-l’amministrazione penitenziaria e/o dell’autorità giudiziaria (autolesionismo con causa emotiva); condotta autolesionistica (con causa razionale) deliberatamente diretta ad ottenere strumentalmente un beneficio giudiziario-penitenziario [5] o attraverso la pressione psicologica esercitata sugli organi giudiziari o penitenziari; oppure mediante la deliberata predisposizione del deficit psico-fisico elevato dall’ordinamento a presupposto oggettivo legittimante la concessione di una misura o di una modalità alternativa all’esecuzione penale nella struttura carceraria.

Questa tripartizione assume una importanza fondamentale perché gli effetti giuridici delle condotte autolesive si possono correttamente far variare in relazione alle cause soggettive motivazionali, che permettono di leggere e comprendere il gesto e, soprattutto, individuare quali provvedimenti adottare e in quale direzione orientare il trattamento. Dal punto di vista psicologico, analizzando la personalità del soggetto che ricorre al gesto dell’autolesione, vengono annoverate strutture di personalità istrioniche, ma anche soggetti fragili ed indecisi. Spesso, in queste persone, in assenza di un evidente quadro psicopatologico, si riscontra un atteggiamento di tipo rivendicativo ove risultano ipervalutati i torti subiti e trascurate le personali responsabilità.

Talora, inoltre, si possono evidenziare anche strutture di personalità rigide e diffidenti, poco adattabili, che pongono in atto gesti con determinazione e ripetitività fino a che le loro rivendicazioni ed istanze non vengono recepite. Infine, si può ricordare come la particolare situazione ambientale determini in soggetti facilmente influenzabili comportamenti imitativi, anche autolesivi, ritenuti necessari allo scopo di essere meglio accettati dal gruppo. Da quanto detto, in primo luogo, emerge la difficoltà di interpretare in maniera univoca il gesto autolesionistico: per alcuni soggetti, può essere un mezzo per ottenere attenzione e aiuto e per altri, invece, può rappresentare un atto dimostrativo di reazione alla situazione detentiva che sfugge alla propria volontà e controllo. Attraverso la violenza e l’aggressività, il soggetto vuole dimostrate la propria forza, il potere sulle cose, sulla struttura che lo detiene e sugli operatori penitenziari.

A prescindere dalle diverse finalità, si tratta di gesti che, comunque, meritano la massima attenzione da parte degli operatori penitenziari e, soprattutto, di coloro che inevitabilmente vengono chiamati a fronteggiare emergenze di questo genere. A questo proposito sono state emanate dall’Amministrazione Penitenziaria numerose circolari con le quali si raccomanda a tutto il personale, secondo le rispettive competenze, di garantire costantemente con prontezza, efficacia e scrupolo il massimo impegno, allo scopo di prevenire il verificarsi di suicidi e di atti di autolesionismo da parte dei detenuti, sia rimuovendone, per quanto possibile, le cause, sia impedendone l’esecuzione. Infatti viene riconosciuto allo Stato il potere di intervenire coattivamente ponendo fine alla condotta dell’autore del gesto, anche contro la sua volontà, quando l’atto autolesivo sia posto in essere secondo modalità tali da far sussistere un concomitante interesse della collettività. Questo può avvenire nelle ipotesi in cui l’atto sia talmente grave da porre in pericolo la vita dello stesso autore, oppure sia da considerarsi come sintomo di una malattia mentale che limiti o escluda la capacità di autodeterminarsi o infine, nei casi più gravi, quando dal gesto insano possono aversi conseguenze sulla diffusione ed il contagio di patologie incidenti sulla pubblica incolumità, di cui l’autore sia portatore.

In altri casi la reazione giuridica è di tipo negativo, nel senso che lo Stato interviene semplicemente non concedendo quel beneficio che l’autore voleva raggiungere in modo fraudolento, ponendo in essere strumentalmente una autolesione. E’ questo un delicato punto critico attesa anche la natura estremamente poco delineata dei diritti confliggenti in tale fattispecie. Ed infatti, nel caso in cui un detenuto rifiuti consapevolmente le cure prestatigli dall’amministrazione, vengono a scontrarsi il diritto ineludibile dell’individuo di far ciò che crede sia meglio per sé stesso, con il dovere dell’amministrazione di garantire l’integrità psico-fisica del detenuto che gli è stato affidato dalla collettività.

Pertanto, la ricostruzione del “comportamento” dell’A.P. tra l’obbligo giuridico di impedire l’evento e la gestione della sussistenza di un diritto a lasciarsi morire trova, in particolare, nello sciopero della fame il terreno di un difficile bilanciamento trattandosi di interessi costituzionalmente rilevanti. L’importanza del tema non sfugge a nessuno se si pensa che le più forti opposizioni dei detenuti alle cure imposte dall’A.P. si sono realizzate durante lo svolgimento dei c.d. scioperi della fame, laddove la prolungata e mancata assunzione di cibo provoca nel detenuto uno stato patologico che l’Amministrazione cerca di vincere, anche contro la volontà del digiunatore, in vista della necessità di evitare l’esito infausto che potrebbe realizzarsi se si consentisse al detenuto di rifiutare le cure ad oltranza. Lo sciopero della fame, in linea generale, è una forma di manifestazione delle proprie idee riconducibile all’alveo degli artt. 2 e 21 Cost.

Alla luce di tale inquadramento può, innanzitutto, affermarsi in termini generali che, qualora il soggetto che compie la scelta del rifiuto del cibo sia capace di intendere e di volere, anche se tale scelta può comportare il rischio della vita, non può essere ritenuto legittimo un intervento medico realizzato con le modalità dell’alimentazione forzata. Atteso, infatti, che tale trattamento è inquadrato dalla pressoché unanime dottrina nel catalogo di quelli di tipo sanitario, lo stesso si porrebbe in violazione
del diritto individuale al rifiuto delle cure, di cui al combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost., riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale [6].

Diritto che incontra quale unico limite la circostanza che la scelta del singolo possa pregiudicare la salute della collettività: ipotesi in presenza della quale il legislatore è legittimato ad intervenire coattivamente, ancorché, nei “limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Non c’è dubbio, quindi, che gli interessi al rispetto della dignità della persona, della sua libertà di autodeterminarsi e, segnatamente, di manifestare le proprie idee con ogni mezzo debbono essere garantiti e bilanciati con i (potenzialmente) contrapposti interessi all’integrità fisica e alla stessa vita, e ciò almeno fin quando le conseguenze delle scelte del singolo si mantengono all’interno della sfera individuale.

E soluzione diversa non può certamente fondarsi sull’art. 5 c.c., laddove si prevede che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando sono contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”, dal momento che tale disposizione, riletta alla luce dell’art. 32 Cost., deve intendersi “tacitamente modificata” in seguito alla sostituzione del concetto statico di integrità fisica con quello dinamico di salute [7]. Se tali sono le premesse, occorre chiedersi se il particolare status di detenuto solleciti a considerare in modo diverso la problematica del difficile bilanciamento degli interessi in gioco. Da un parte, potrebbe osservarsi che chi versa in stato di detenzione, privato dei normali canali con i quali far conoscere le proprie opinioni, trova nello sciopero della fame uno dei rari strumenti attraverso i quali è in grado di manifestare il proprio disagio e la propria protesta, tenendo vivo l’interesse su un certo evento.

In tal modo riappropriandosi per così dire, di una porzione di quella libertà che originariamente gli viene negata. D’altra parte, è innegabile che, quando lo sciopero della fame si realizza all’interno delle mura di un carcere inevitabilmente assume contorni e sfumature diversi rispetto a quelli riscontrabili quando il medesimo gesto viene compiuto nella società libera, data la condizione di solitudine, fragilità e generale privazione in cui versa lo scioperante.

Ed è legittimo chiedersi, alla luce di tale constatazione, se la Costituzione consenta o addirittura imponga al legislatore, all’esito di un diverso contemperamento degli interessi in gioco, di riconoscere al detenuto un livello di tutela dell’integrità fisica superiore a quello previsto in via generale per tutti gli individui.

Talora si è ritenuto di fornire una risposta positiva a tale interrogativo. Lo ha fatto, in primo luogo il Governo, quando ha tentato di promuovere una riforma tesa a dotare il Ministro della Giustizia, in talune circostanze, del potere di disporre l’alimentazione forzata del detenuto in sciopero della fame.

E non sono mancate, in dottrina, ricostruzioni tese ad individuare nella legislazione vigente le disposizioni sulle quali fondare la piena legittimità dell’applicazione del trattamento sanitario. Orientamento seguito anche da alcune pronunce giurisdizionali, che hanno ammesso, in determinate circostanze e nel rispetto di precise garanzie, la possibilità per l’amministrazione carceraria di praticare tale trattamento coattivo sul detenuto.

Il fondamento legislativo del trattamento sanitario, in particolare, è stato individuato ora negli artt. 33 e 34 della legge n.833/1978, laddove si prevede la legittimità di tale pratica nei confronti delle persone affette da malattie mentali, ora nell’art. 41 della legge penitenziaria, ove si consente l’utilizzo dei mezzi di coercizione fisica nei confronti dei detenuti al fine di prevenire “atti di violenza” e garantire la loro “incolumità”. Soluzioni invero avversate dalla prevalente dottrina in forza della considerazione per cui, quanto alla prima disposizione richiamata, la posizione del detenuto che rifiuta consapevolmente il cibo non può essere assimilata a quella di un malato di mente, né può aver pregio l’argomento per cui il deperimento fisico del digiunante inevitabilmente finisce, dopo un certo numero di giorni, per produrre riflessi anche sul suo equilibrio psichico. Quanto all’altra previsione richiamata, si è osservato come la stessa appaia all’evidenza diretta ad impedire atti di autolesionismo e non sembri, dunque, riferibile all’ipotesi di un comportamento omissivo consapevolmente protratto nel tempo.

Sulla scia delle indicazioni costituzionali, sembra ragionevole seguire la tesi in forza della quale il bilanciamento tra l’obbligo giuridico di impedire un evento e la gestione della sussistenza di un diritto a lasciarsi morire ( interesse alla vita e all’integrità fisica, da un parte, e alla libertà di autodeterminazione, dall’altra), debba essere in linea di principio impostato secondo un medesimo schema tanto con riguardo al libero cittadino che al detenuto. Non sembra possibile, in altre parole, riscontrare nel peculiare status del detenuto caratteri tali da giustificare in astratto soluzioni diversificate.

Sembrano a questo proposito calzanti le parole della Corte Costituzionale che, in più occasioni, ha ricordato come la garanzia dell’inviolabilità della libertà personale sancita dall’art. 13 Cost. non soltanto operi anche nei confronti di chi si trova in stato di detenzione, (ovviamente per quella parte che residua dall’applicazione della misura detentiva) ma che tale porzione di libertà “è tanto più preziosa in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la personalità individuale”[8]. Così come sembra senz’altro da scartare, in relazione all’art. 32 comma 2 Cost., l’unica strada che consentirebbe di giungere ad una soluzione diversa: vale a dire quella di vedere nello sciopero della fame un fenomeno dotato di “potenzialità epidemica [9]”.

Se questa è dunque la soluzione che appare più ragionevole, ciò non significa, ovviamente, che l’Amministrazione Penitenziaria non debba operare con tutti  gli strumenti legittimi a sua disposizione per ridurre al minimo il rischio che il detenuto scelga di intraprendere uno sciopero della fame: in questo senso  vanno, ad esempio, numerose circolari adottate, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni 80, dal D.A.P., ove si ribadisce di fornire una continua assistenza sanitaria e psicologica ai detenuti. Né ciò significa che la condizione carceraria non renda ancora più delicato e rilevante l’accertamento della 0specifica condizione di salute del detenuto che dà inizio allo sciopero della fame, onde accertarne l’effettiva capacità di compiere tale scelta in modo
davvero consapevole. Non può, del resto, non costituire motivo di riflessione il diverso approccio, forse più pragmatico, seguito in circostanze analoghe  dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha riconosciuto in alcune occasioni una chiara prevalenza all’obbligo dello Stato di proteggere l’integrità  del detenuto. La Corte, in particolare, ha affermato, con specifico riguardo al deliberato rifiuto del cibo, che l’alimentazione coattiva non deve sempre  ritenersi illegittima e che anzi l’art. 3 della CEDU, sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, in certi casi impone allo Stato un  obbligo di proteggere l’integrità fisica delle persone private della libertà, ovviamente a condizione che venga opportunamente dimostrata dai sanitari la “necessità medica” di un intervento coattivo e che siano rispettate le procedure stabilite dal legislatore statale [10].

L’Amministrazione penitenziaria può ben essere considerata titolare di una vera e propria posizione di garanzia penalmente rilevante nei confronti della persona detenuta. Graverebbe su di essa un obbligo giuridico, desunto dall’ordinamento penitenziario nel suo complesso, di tutelare la vita e l’integrità psico- fisica degli individui che ad essa vengono affidati ed il cui inadempimento configurerebbe un’ipotesi di reati ai sensi del combinato disposto della clausola generale di equivalenza di cui all’art. 40 c.p. con gli articoli di parte speciale 589 c.p. (omicidio colposo) o 590 c.p. (lesioni personali colpose) o, ancora gli art. 328 c.p., comma 1, (rifiuto di atti d’ufficio) e 586 c.p. ( morte o lesioni come conseguenza di altro delitto).

Il detenuto si trova sotto la responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria, a cui è affidato il compito di assicurare che egli rimanga in carcere evitando che evada, di controllare il rispetto da parte sua delle regole della disciplina penitenziaria, ma anche di garantirne l’incolumità.

L’Amministrazione è, quindi, garante dell’impedimento dell’evento concreto di danno o di pericolo. Su di essa graverebbe l’obbligo giuridico di attivarsi, anche e soprattutto, contro la volontà del detenuto. In tale contesto si pongono le indicazioni fornite dal D.A.P [11].

L’orientamento favorevole all’intervento coatto dell’amministrazione rafforza la propria tesi sviluppando alternativamente due considerazioni [12]. La prima ritiene che la scelta di lasciarsi morire in carcere per fame sia libera solo in apparenza. Il comportamento del soggetto risulterebbe influenzato dallo stato detentivo, ossia da una condizione ambientale in cui, il detenuto costretto a vivere contro la sua volontà, sarebbe portato a distorcere, a livello essenziale, la percezione della realtà. La condizione di detenuto renderebbe incapace il soggetto di valutare in maniera adeguata il reale, tanto da risultare bisognoso di una tutela differenziata che così finisce con il distinguerlo e con il discriminarlo rispetto agli altri soggetti in libertà.

La seconda considerazione fa leva, invece, sullo stadio terminale del digiuno, per cui le conseguenze a livello di apparato digerente determinano una condizione somato-psichica tale che “è il digiuno che prende la mano al digiunatore”, dove l’organismo non vuole o non può più ricevere il cibo, per cui non ci si troverebbe di fronte ad una libera volontà del digiunatore ma ad un non volere derivato da un rifiuto somatico. E, ancora, il dissenso alla nutrizione artificiale risulterebbe invalidato dal subentrare di un stato fisico-psichico tale da scemare grandemente ogni capacità di intendere e volere del digiunante. In tutti questi casi, dove il soggetto perde conoscenza, ovvero versa in condizioni psichiche assimilabili allo stato di infermità mentale, verrebbe a mancare quell’attualità del dissenso che impedisce il trattamento medico. In tale circostanza lo sconfinare del rifiuto di alimentarsi in disturbo psicologico assimilabile alla malattia mentale autorizzerebbe il ricorso agli artt. 34 e 35 della Legge 833/78 [13].

 NOTE

nota 1 Mastronardi L., Manuale per operatori criminologici e psicopatologici forensi, Ed. Giuffrè, Milano.

nota 2 Per la disamina della problematiche psichiatriche ci si è basati su DSM-IV, Manuale diagnostico dei disturbi mentali, Masson, 1996.

nota 3 Gonin D., Il corpo incarcerato, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1994.

nota 4 Baccaro L., Morelli F., In carcere: del suicido ed altre fughe, Ristretti orizzonti, Padova, 2009.

nota 5 Di solito per ottenere un permesso, per l’avvicinamento alla famiglia, per il trasferimento in un altro carcere, per parlare con il magistrato o per un posto di lavoro all’interno dell’istituto.

nota 6 Modugno F., Trattamenti sanitari “non obbligatori” e Costituzione in dir e soc., 1982.

nota 7 Fiandaca G., Sullo sciopero della fame nelle carceri, in Foro it., 1983.

nota 8 Corte cost. n.349/1993, in Foro it., 1995.

nota 9 Allegranti I.,Giusti G., Aspetti medico-legali e deontologici dello sciopero della fame del detenuto, Padova, 1983.

nota 10 Così Jalloh c. Allemagne, sent 11 luglio 2006; Nevmerzhitsky c. Ukraine, sent 5 aprile 2005.

nota 11 “Nel caso del c.d. sciopero della fame del detenuto, oltre a porre in essere le forme trattamentali più idonee per far recedere il detenuto da tale comportamento di nocumento su se stesso, si ritiene che l’alimentazione forzata debba essere attuata dal momento in cui il detenuto sia pervenuto a condizioni di vita tali da trovarsi in stato di alterazione della propria volontà a causa di anormalità psichica e, ciò nonostante, prosegua nel rifiuto dell’alimentazione. Il sanitario, pertanto, ha il compito di seguire lo svolgimento cronico dello stato morboso del detenuto scioperante e di adottare con tempestività i necessari interventi terapeutici per tentare di prevenire il ricorso alle situazioni di estrema urgenza, come nel caso di trattamento sanitario obbligatorio. Così, oltre che per il personale sanitario, anche per quello direttivo degli istituti penitenziari, vi è l’obbligo di garantire al ristretto l’incolumità personale e la salute, in considerazione del fatto che la scelta di lasciarsi morire in carcere per fame è libera soltanto in apparenza, essendo il comportamento del detenuto influenzato dallo stato detentivo, che può portare a distorcere a livello essenziale la percezione della realtà. Fra gli interventi che gli operatori e i sanitari sono tenuti a porre in essere per prevenire la morte o i danni da denutrizione del recluso che, volontariamente, rifiuta di nutrirsi vi è anche quello del ricorso al trattamento sanitario obbligatorio, secondo le procedure e le modalità indicate dal legislatore con la normativa di cui alla legge n. 833/78, istitutiva del servizio sanitario nazionale.”

nota 12 Mancini R., Trattato di diritto penale italiano, Utet, Torino, 1964, vol. VIII.

nota 13 Art. 34. (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori per malattia mentale). La legge regionale, nell’ambito della unità sanitaria e nel complesso dei servizi generali per la tutela della salute, disciplina l’istituzione di servizi a struttura dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e riabilitative relative alla salute mentale. Le misure di cui al secondo comma dell’articolo precedente possono essere disposte nei confronti di persone affette da malattia mentale. Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi territoriali extraospedalieri di cui al primo comma. Il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentono dio adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui al terzo comma dell’articolo 33 da parte di un medico dell’ unità sanitaria locale e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel presente comma. …..omissis…
Art. 35.(Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale e tutela giurisdizionale). Il provvedimento con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, da emanarsi entro le 48 ore dalla convalida di cui all’art. 34, quarto comma, corredato dalla proposta medica motivata di cui all’art. 33, terzo comma, e dalla suddetta convalida deve essere notificato, entro 48 ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune. Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera. Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è disposto dal sindaco di un comune diverso da quello di residenza dell’infermo, ne va data comunicazione al sindaco di questo ultimo comune, nonché al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune di residenza. Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è adottato nei confronti di cittadini stranieri o di apolidi, ne va data comunicazione al Ministero dell’Interno, e al consolato competente, tramite il Prefetto.
Nei casi in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio psichiatrico della unità sanitaria locale è tenuto a formulare, in tempo utile, una proposta motivata al sindaco che ha disposto il ricovero, il quale ne dà comunicazione al giudice tutelare, con le modalità e per gli adempimenti di cui al primo e secondo comma del presente articolo, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso.