Proposta di legge 3091/C avente ad oggetto Modifiche agli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 - Ergastolo cd. ostativo (2015)

  • pubblicato nel 2015
  • autore: Roberta Palmisano
  • analisi normativa
  • Ufficio Studi, ricerche, legislazione e rapporti internazionali
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 DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

La proposta di legge n. 3091/C ha ad oggetto la modifica dell’art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354 e del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 e la previsione della possibilità di concedere i benefici anche in caso di mancata collaborazione sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata terroristica o eversiva.

Nel considerare la situazione nel nostro Paese profondamente mutata rispetto al tempo in cui l’istituto è stato congegnato per finalità generalpreventive, si condivide la proposta di modifica dell’art. 4-bis, commi 1 e 1-ter, della legge 26.7.1975, n.354 (Ordinamento Penitenziario), introdotto dall’art.1 del d.-l. 15.5.1991, n.152, convertito nella l. 12.7.1991, n. 203 e modificato dall’art. 15, primo  comma,  lettera  a), decreto-legge 8.6.1992, n. 306, convertito nella legge 7.8.1992, n. 356.
L’ipotesi appare idonea a risolvere il problema del cd. ergastolo ostativo e tiene presenti sia i dissensi da più parti manifestati in ordine a tale istituto sia i recenti orientamenti della Corte EDU in materia di pena perpetua.

1.
Il comma 1 dell'art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario enuclea una serie di figure delittuose espressive del fenomeno della criminalità organizzata e statuisce, in via generale, che ai condannati per tali reati non possono essere concessi i benefici dell'assegnazione del lavoro all'esterno, nonché i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della stessa legge. Nel testo originario si richiedeva che fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Con le successiva modifiche si è stabilito che i benefici penitenziari possono essere concessi ai detenuti che collaborano con la giustizia a norma  dell’art. 58-ter della legge, cioè soltanto “coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati".
Il legislatore ha opportunamente voluto incentivare la collaborazione con la giustizia introducendo una preclusione ai predetti benefici rimuovibile soltanto mediante una condotta qualificata (la collaborazione), ritenuta la sola idonea a dimostrare l'intervenuta rescissione dei collegamenti criminali.
Come ricorda la sentenza n. 39 del 7.2.1994 della Corte Costituzionale, queste restrizioni si applicano all'istituto della liberazione condizionale in virtù del rinvio all'art. 4-bis Ord. Penit. contenuto nell'art. 2, primo comma, della stessa legge n. 203 del 12.7.1991, a tenore del quale “i condannati per i delitti indicati all’art. 4-bis primo comma dell’Ordinamento Penitenziario, possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo in presenza dei presupposti previsti dal medesimo comma per la concessione dei benefici ivi indicati”.
Con le sentenze del 19.7.1994 n. 357 e del 22.2.1995 n. 68, la Corte Costituzionale ha tracciato un percorso per evitare la vanificazione dei programmi trattamentali che sarebbe conseguita alla drastica impostazione dell'art. 4-bis, primo comma. La Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del predetto primo comma dell'art. 4-bis, secondo periodo, nelle parti in cui non prevedeva che i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma possono essere concessi anche nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso come accertata nella sentenza di condanna, oppure l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile, rendono impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, sempre che in entrambi i casi siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
La ratio delle pronunce è chiara: quando la collaborazione con la giustizia è oggettivamente impossibile lo sbarramento preclusivo viene meno perché un comportamento che obiettivamente non può essere prestato non deve essere richiesto come presupposto per l’applicazione di un istituto funzionale alla rieducazione.

2.
La liberazione condizionale prevista all'art. 176 c.p. è stata a sua volta oggetto di modifiche al fine di renderla coerente con il principio enunciato dall’art. 27 Cost., secondo cui il processo rieducativo e di reinserimento sociale è diritto spettante a ciascun detenuto. Così si è avvicinata alle altre misure alternative alla detenzione, pur se ha contenuto ed effetti diversi dalle vere e proprie misure alternative, in quanto non è sostitutiva di un altro trattamento penale, ma realizza una riduzione di parte della pena detentiva
L’aver tenuto durante il tempo dell’esecuzione un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento è il presupposto del giudizio prognostico favorevole su cui si basa la valutazione che legittima la liberazione.
Il beneficio della liberazione condizionale ha natura sostanziale e la gravità del reato e la capacità a delinquere al momento del fatto non possono essere determinanti in ordine al giudizio sulla sua concedibilità, per la quale rileva invece il comportamento successivo alla commissione del reato.

Nei confronti dei condannati per delitti di matrice mafiosa o di terrorismo (delitti commessi per finalità di terrorismo,anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il  compimento  di  atti  di  violenza,  delitto  di cui all'articolo 416-bis   del  codice  penale,  delitti  commessi  avvalendosi  delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività  delle associazioni in esso previste), la cui realizzazione presuppone un’organizzazione criminale strutturata, la “rottura” dei collegamenti con l’organizzazione criminale di riferimento è requisito necessario (anche se non sufficiente) per la liberazione condizionale.
È stato ritenuto che “attraverso la collaborazione chi si è posto nel circuito della criminalità organizzata può dimostrare di esserne uscito perché è solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza quella volontà di emenda che l’intero ordinamento penale deve tendere a realizzare”.
Per l’accertamento del “sicuro ravvedimento” del condannato (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 273/2001) e del suo positivo percorso di rieducazione e recupero sociale, il legislatore ha assunto la collaborazione con la giustizia a criterio legale di valutazione.
Ha quindi prevalso la presunzione per la quale l’atteggiamento di chi non si adoperi “per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori” o per aiutare “nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e la cattura degli autori” è indice di persistenza dei legami, e quindi della mancanza di ravvedimento.
Va rilevato che per i condannati all’ergastolo per il delitto di omicidio commesso avvalendosi dell’aggravante del "metodo mafioso" e della "agevolazione mafiosa" che scelgono di non collaborare con la giustizia la pena in concreto è “perpetua”, talché il divieto di accesso alla liberazione condizionale riduce la portata degli effetti del percorso rieducativo e, di riflesso, può incidere negativamente sulla stessa finalità rieducativa della pena.
Come chiarito dalla Corte di Cassazione (SSUU n. 337 del 18 dicembre 2008), infatti, la circostanza aggravante prevista all’art. 7 legge n. 203/1991 per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art.416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, nei casi in cui accede ad un delitto sanzionato con la pena edittale dell'ergastolo non determina alcun incremento del trattamento sanzionatorio, ma comporta una serie di effetti giuridici e meccanismi più severi  di esecuzione della pena.

3.
La questione di costituzionalità relativa all’ipotizzato contrasto dell'art. 4-bis, comma 1, primo periodo, della legge n. 354/75 con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione è stata già risolta in senso negativo dalla Corte Costituzionale (sentenza 135/2003), che ha spiegato che l’art. 1 legge 23.12.2002, n. 279, emanata in applicazione dei principi già affermati nelle menzionate sentenze della stessa Corte, aveva modificato la disciplina dell’art. 4-bis nel senso di ammettere il condannato ai benefici penitenziari anche nelle situazioni in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso o l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità rende impossibile un’utile collaborazione con la giustizia.
La Corte ha osservato che la preclusione dell’art. 4-bis, primo comma, non è assoluta, in quanto deriva da una scelta del condannato, il quale, pur essendo nelle condizioni di collaborare, sceglie di non farlo. La scelta del condannato di non collaborare è libera proprio perché le ipotesi in cui la collaborazione è impossibile o irrilevante, e quindi è  oggettivamente inesigibile, sono escluse dall’applicazione della norma.

4.
La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo si è occupata del problema della compatibilità con l’art. 3 Convenzione EDU della pena dell’ergastolo inteso come pena realmente perpetua, senza cioè alcuna possibilità per il condannato, trascorso un certo periodo di detenzione, di beneficiare della liberazione anticipata o condizionale.
La questione era stata affrontata nel 2008 (sentenza Kafkaris c. Cipro) quando la Grande Camera  aveva escluso la violazione dell’art. 3 ritenendo che la possibilità di una grazia da parte del Presidente della Repubblica cipriota su proposta del Procuratore generale fosse sufficiente per riconoscere che il ricorrente avesse una concreta possibilità di essere rilasciato anticipatamente, escludendo così la violazione dell’art. 3 CEDU
Con due importanti sentenze pronunciate il 17 gennaio 2012 la quarta sezione della Corte ha esaminato il sistema penale del Regno Unito, dove è prevista la possibilità che il giudice, al momento della condanna all’ergastolo per reati di omicidio intenzionali particolarmente gravi, stabilisca che il condannato non possa mai godere di benefici, dovendo pertanto trascorrere effettivamente l’intera vita residua in carcere, salva soltanto la possibilità di un provvedimento di clemenza del potere esecutivo per ragioni umanitarie.
Nel caso Harkins e Edwards c. Regno Unito la Corte ha rigettato i ricorsi dei due detenuti – l’uno cittadino britannico, l’altro statunitense – contro la decisione del governo inglese di estradarli negli Stati Uniti, dove sarebbero stati esposti al rischio di essere condannati alla pena dell’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata (life imprisonment without parole). 
Con analoghe argomentazioni nel caso Vinter c. Regno Unito la Corte ha ritenuto che nei casi in cui il giudice abbia l’obbligo di applicare ai condannati per determinati reati l’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata si impone uno scrutinio più attento dal punto di vista della possibile violazione dell’art. 3 CED sotto il profilo della grave e manifesta sproporzione della pena.

La Grande Camera, investita del caso Vinter c. Regno Unito, con la recente pronuncia del 9 luglio 2013, ha dichiarato la violazione dell’art. 3 CEDU quando la pena dell’ergastolo non prevede la possibilità della liberazione anticipata.
La Grande Camera ha ribadito che gli Stati contraenti sono liberi di prevedere la pena dell’ergastolo soprattutto quando tale sanzione è irrogata da un giudice indipendente che ha accertato la gravità del caso concreto, osservando che non è nel potere della Corte EDU sindacare le decisioni interne dei singoli Stati in ordine alla lunghezza della pena. 
In linea di principio la previsione della pena dell’ergastolo per i delinquenti adulti condannati per reati gravi, quali l’omicidio, non è in contrasto con l’art. 3 della Convenzione EDU e gli Stati membri hanno il dovere, ai sensi della Convenzione, di adottare misure per la protezione dei cittadini dal crimine violento, continuando a detenere in carcere i condannati per tutto il tempo in cui rimangono pericolosi (cfr. Maiorano c. Italia). Così una condanna all’ergastolo potrà anche essere scontata per intero, purché la pena de jure e de facto sia riducibile. La stessa sentenza ha evidenziato che la politica penale europea pone al centro la finalità rieducativa della pena detentiva.
La sentenza richiama in proposito i principi del diritto europeo e internazionale secondo i quali a tutti i condannati, compresi quelli all'ergastolo, deve essere offerta la prospettiva di rilascio quando vi è prova di riabilitazione e rammenta in particolare che:

  • le Regole penitenziarie europee ai punti 6, 102 e 103 prevedono che la detenzione deve essere gestita in modo da facilitare il reinserimento nella società, che la vita in carcere deve consentire ai detenuti di condurre una vita responsabile e che devono essere previsti piani individuali  che includano la preparazione per il rilascio;
  • la Risoluzione 1976 (2) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa raccomanda di concedere la liberazione anticipata non appena vi siano le condizioni per una prognosi favorevole e di garantire il riesame di tutti i casi compresi quelli dei condannati all’ergastolo;
  • la Raccomandazione 2003 (23) sulla gestione dei condannati all'ergastolo da parte delle amministrazioni penitenziarie sottolinea espressamente che essi dovrebbero godere della possibilità di liberazione condizionale e dovrebbero beneficiare di una preparazione adeguata al rilascio;
  • la Raccomandazione 2003 (22) sulla liberazione condizionale chiarisce che i condannati all’ergastolo non dovrebbero essere privati della speranza di rilascio;
  • la Relazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura
  • e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) a seguito della visita in Ungheria nel 2007 e in Svizzera nel 2011, esprimendo serie riserve sul sistema ungherese che considera alcune categorie di detenuti come una minaccia permanente per la società e sul sistema svizzero che considera “intrattabili” alcune categorie di detenuti (per reati sessuali o altri reati gravi), raccomanda che nessun detenuto dovrebbe essere privato della possibilità di tornare in libertà;
  • le regole minime delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti esortano ad utilizzare tutte le risorse disponibili per garantire il ritorno degli autori di reati nella società;
  • la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici prevede espressamente che lo scopo essenziale del sistema penitenziario deve essere la riabilitazione dei detenuti e nessun sistema penale può essere solo retributivo;
  • lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale all'articolo 110 prevede la revisione di tutte le condanne all’ergastolo dopo 25 anni ed esami periodici successivi.

La Corte EDU, come sopra evidenziato, nel raccomandare che ogni Stato contraente deve prevedere un meccanismo che garantisca la possibilità di valutare, non più tardi di 25 anni dopo l’irrogazione dell’ergastolo, se vi siano stati significativi cambiamenti nella vita del detenuto e sia stato compiuto un progresso verso la riabilitazione, cita l’Italia e la giurisprudenza costituzionale italiana (sentenze n. 204/1974, n. 264/1974, n. 192/1976, n. 274/1983 e n. 161/1997) secondo cui l’istituto della liberazione condizionale  rende la pena dell’ergastolo compatibile con l'articolo 27 della Costituzione.

5.
Per queste considerazioni deve ritenersi costituzionalmente legittima la scelta del legislatore di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, attribuendo soltanto ai detenuti disponibili a collaborare con la giustizia la possibilità di dimostrare il sicuro ravvedimento e di beneficiare della libertà condizionale.
Tuttavia tale scelta non è necessaria. La stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 306/93 paragrafo 11) ha definito preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita. La Corte nell’esprimere perplessità nei confronti della “vanificazione dei programmi e percorsi rieducativi (in atto magari da lungo tempo) che sarebbe conseguita alla drastica impostazione del decreto-legge”, ha accomunato i soggetti la cui collaborazione sia incolpevolmente impossibile o priva di risultati utili e ai soggetti per i quali la rottura con le organizzazioni criminali sia comunque adeguatamente dimostrata.
Ancorare pregiudizialmente la concedibilità della liberazione condizionale nei confronti dei condannati per taluni delitti al presupposto della condotta collaborativa determina una preclusione eccedente rispetto alla funzione rieducativa della pena, non potendosi sempre riconoscere una correlazione necessaria tra la scelta collaborativa e la positiva evoluzione del soggetto nel corso della espiazione della condanna.
In presenza dei requisiti previsti dall’art. 176 c.p. (espiazione di una notevole parte della pena, adempimento delle obbligazioni civili o dimostrata impossibilità di adempierle, comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento) e fatta salva ovviamente la valutazione del Tribunale di Sorveglianza nel caso concreto in ordine alla sussistenza del requisito della certezza del ravvedimento, l’istituto della liberazione condizionale deve poter esplicare in pieno la propria valenza incentivante e pedagogica nei confronti di tutti i condannati che abbiano dato prova sicura della effettiva rottura con i precedenti legami.
Non sembra che possa negarsi che, in taluni casi, l’accertamento della concreta volontà di distaccarsi dal mondo della criminalità organizzata e l'assenza di collegamenti attuali possa essere fondato sui risultati positivi del percorso rieducativo e sulla partecipazione particolarmente positiva e fattiva del condannato al trattamento intramurario, pur in assenza di un comportamento collaborativo.
In concreto tutto ciò si verifica, in un numero di casi non irrilevante né insignificante, grazie a condotte conformi all’art. 27 del Regolamento di esecuzione dell’OP, che al primo comma stabilisce che l’osservazione della personalità dei condannati deve implicare anche “una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla parte offesa”.

6.   
Si condivide quindi la modifica dall’art. 4-bis, comma 1, prima parte, nel senso che, in presenza di tutti i requisiti di cui all’art. 176 c.p., il beneficio della liberazione condizionale può essere concesso quando il condannato dia prova certa del ravvedimento attraverso la collaborazione con la giustizia o attraverso altri comportamenti di corrispondente significato, i quali rendano altresì sicura l’assenza di qualunque collegamento con la criminalità organizzata, eversiva o mafiosa.
In questo modo sarà recuperata la coerenza del dettato dell’art. 176 c.p., istituto peraltro preesistente alla legislazione in materia penitenziaria e a quella in materia di criminalità organizzata, e la concessione del beneficio sarà legata alla certezza del ravvedimento del condannato, requisito al tempo stesso necessario e sufficiente.


Roma, 12 novembre 2015

 

IL DIRETTORE DELL'UFFICIO
Roberta Palmisano