Strumenti normativi contro la criminalità economica - Relazione tecnica

aggiornamento: 17 luglio 2014


Interventi in materia di contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti

L’obiettivo prioritario dell’azione legislativa è dato da un più efficace contrasto dei fenomeni criminali capaci di alterare la struttura delle relazioni economiche e del tessuto produttivo ed imprenditoriale.
Occorre rafforzare gli strumenti repressivi per consentire un’efficace azione di contrasto delle condotte di quanti si determinano a commettere reati nella convinzione che il crimine produca ricchezza, senza che la sanzione detentiva, ove applicata, possa annullarne gli effetti.
La criminalità organizzata, e quella di tipo mafioso in particolare, ha dimostrato, ormai da molti anni, una spiccata pericolosità anche in riferimento all’interesse pubblico al regolare andamento del mercato e dei processi economico-finanziari in generale, sapendo accumulare straordinarie ricchezze illecite che vengono utilizzate, in maniera occulta e insidiosa, per produrre ulteriore profitto, con inevitabile compromissione delle condizioni della concorrenza e della competizione di mercato.
Rispetto alle tradizionali forme di parassitismo economico, la criminalità organizzata ha vissuto una parabola evolutiva che la vede, oggi, in grado di assumere essa stessa un ruolo da protagonista attraverso la creazione di vere e proprie imprese criminali.
Si assiste non più o non solo allo sfruttamento della ricchezza lecitamente prodotta da imprenditori che divengono vittime della sopraffazione criminale, ma all’assunzione di un autonomo ruolo imprenditoriale, ovviamente schermato da forme legali, che si avvale delle ingenti risorse finanziarie illecitamente prodotte attraverso la commissione di una pluralità di delitti, dall’estorsione al traffico di sostanze stupefacenti, alla gestione di prostituzione, gioco d’azzardo ed altri illeciti affari.
Non può poi essere trascurata l’altra forma di criminalità, quella dei c.d. colletti bianchi, che, operando nel settore degli affari pubblici, riesce a sfruttare le posizioni di potere derivanti dall’attribuzione di pubbliche funzioni al fine di realizzare illecite ricchezze private. Il riferimento è al grave fenomeno della corruzione che deve essere contrastato anche ripristinando rigore ed efficacia repressiva di alcune figure di reato, quale quella del c.d. falso in bilancio, che colpiscono comportamenti solitamente preordinati alla commissione dei fatti di corruzione. Su questo terreno di azione, devono essere affinati gli strumenti repressivi con l’introduzione di una nuova forma criminosa, il c.d. autoriciclaggio, che serve a reprimere le condotte di occultamento e reimpiego della ricchezza criminale, anche poste in essere dall’autore del reato che quella ricchezza ha prodotto, finalizzate alla produzione di ulteriori vantaggi per mezzo dello sfruttamento di quella ricchezza in attività imprenditoriali o finanziarie.
Non può sfuggire che, specie in un periodo, come l’attuale, di una perdurante e grave crisi del circuito economico-produttivo, il rafforzamento dell’azione repressiva nei confronti della criminalità finalizzata alla formazione dell’illecita ricchezza è quanto mai necessario, nella prospettiva di contribuire, anche con lo strumento penale, al ripristino delle condizioni per una virtuosa crescita economica del Paese.


Il contrasto dell’utilizzazione dei capitali illecitamente accumulati: l’introduzione del delitto di autoriciclaggio

L’auto-riciclaggio (self-laundering) consiste nell'utilizzo da parte di un soggetto di denaro o altre utilità derivanti da un reato che egli stesso ha commesso (cd. reato presupposto).
Si pensi, ad esempio, al pubblico ufficiale corrotto che acquisti un bene con il prezzo della corruzione o all’imprenditore che reinvesta i proventi di reati societari da lui commessi.
Queste attività “successive” (nel primo caso, l’acquisto del bene; nel secondo, il reimpiego dei proventi) non sono punibili, in quanto il codice penale espressamente afferma che il “riciclatore di sé stesso” non è punibile.
Tale scelta si giustifica per il fatto che, negli esempi fatti, si è di fronte alla prosecuzione della medesima condotta criminosa da parte dello stesso soggetto. Non v’è, cioè, un secondo comportamento, ma soltanto la prosecuzione della precedente condotta. Il complessivo disvalore è già interamente sanzionato con il primo frammento di condotta (quindi, con la pena prevista per il reato presupposto).
In questo senso, si dice che l’impiego di denaro, beni o altre utilità di illecita provenienza (appunto, il riciclaggio), pur essendo una condotta successiva e naturalisticamente diversa rispetto al reato presupposto, costituisce un post factum non punibile per chi abbia commesso o partecipato al reato presupposto.
Questa ricostruzione non può e non deve però valere in tutti quei casi in cui l’autore di un delitto non colposo si avvalga della ricchezza prodotta attraverso la commissione di quel delitto per procurare a sé o ad altri un ulteriore vantaggio in attività imprenditoriali o finanziarie, e ciò faccia sostituendo, trasferendo o impiegando quel denaro, quei beni o quelle altre utilità così realizzate.
Si tratta allora, per evitare di incorrere nella doppia punizione di uno stesso fatto delittuoso, di valorizzare la natura essenzialmente finanziaria e imprenditoriale delle operazioni di sostituzione, trasferimento o impiego di denaro, beni o altra utilità, e di attribuire centralità, sotto il profilo teleologico della condotta, al dolo specifico, qualificato dalla finalità di un ulteriore vantaggio, diverso rispetto a quello proprio del delitto presupposto.
Si esclude, pertanto, la punibilità dell’autore del reato presupposto per i comportamenti diretti a consentirgli il semplice godimento dei relativi proventi o per quelli di mero ostacolo, volti unicamente a conseguire per sé l’impunità per il delitto presupposto. In tal modo, si fa salvo il rispetto dei principi del ne bis in idem sostanziale e del nemo tenetur se detegere.


Bilanci trasparenti per un mercato trasparente: nuove sanzioni per il falso in bilancio e potenziamento della confisca delle ricchezze illecite

Si prevede una sostanziale modifica delle norme incriminatrici e del regime sanzionatorio penale e amministrativo delle false comunicazioni sociali, rispettivamente per le società non quotate e per quelle quotate.
Entrambe le ipotesi devono essere formulate in termini di delitto, con conseguente prolungamento dei tempi di prescrizione e tendenziale aggravamento del quadro sanzionatorio; va poi rivisitata la formulazione della condotta, in termini idonei a ricomprendere il c.d. “falso qualitativo”.
Limitatamente alle società non quotate che non superano i limiti di legge per la sottoposizione alla procedura di fallimento, e sempreché il fatto abbia cagionato danno non grave, va previsto un regime di procedibilità a querela. L’idea è che il recupero del necessario rigore punitivo non possa e non debba risolversi in eccessi di pressione inquisitoria in riferimento alle più modeste realtà imprenditoriali, e ciò per evitare che, in un momento di crisi economica così grave, l’intervento penale finisca col contribuire al mantenimento dei fenomeni di depressione del mercato.
Meritano poi di essere riconsiderate le previsioni delle soglie di punibilità attualmente vigenti, legate alla natura estimativa delle violazioni ed all’entità delle falsità di bilancio: la fissazione di quelle soglie di punibilità, al di sotto delle quali è inibito l’intervento penale, ha fatto correre il rischio di incentivare le condotte di falso, pur sempre dannose per l’economia di mercato. Si tratta allora di mettere a punto un sistema che coniughi il recupero di rigore per i fatti oggettivamente pericolosi, se non già produttivi di offesa agli interessi sottesi alla norma incriminatrice, con l’esigenza di evitare una diffusività dell’intervento penale che gli faccia perdere la necessaria capacità selettiva dei comportamenti da reprimere.
Un ulteriore intervento di particolare rilevanza è quello relativo all’ampliamento dell’ambito operativo della confisca c.d. allargata (o per sproporzione), applicabile ai soggetti condannati in relazione a determinate ipotesi di reato e in riferimento ai beni di cui gli stessi siano titolari senza poterne giustificare la provenienza e la cui entità sia sproporzionata rispetto al loro reddito. Il meccanismo ablatorio è già operante: una volta che intervenga la condanna per uno o più dei delitti specificamente indicati dalla legge, e che sono quelli che per i dati ricavabili dall’esperienza applicativa sono funzionali all’accumulazione di capitali illeciti, si provvede alla confisca, anche senza la prova di un collegamento diretto con quel delitto, delle ricchezze che appaiano sproporzionate alla capacità di reddito e che non siano giustificate nella loro provenienza.
Sul punto, la nuova formulazione del quadro normativo comporta l’applicabilità della confisca anche nel caso di condanna per i reati di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri e di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.
Si prevede, inoltre, una specifica preclusione in ordine alla possibilità che la giustificazione della legittima provenienza dei beni si fondi sulla disponibilità di denaro provento o reimpiego di evasione fiscale, in questo modo inibendo facili ed elusive difese che facciano leva sulla prospettazione di una fonte, pur illecita di profitto, per giustificare una ricchezza invero di ben altra provenienza.


Interventi in materia di corruzione e concussione

Anzitutto si amplia il novero dei soggetti attivi del delitto di concussione, inserendo anche l’incaricato di pubblico servizio, che non v’è ragione di escludere dai potenziali autori di fatti criminosi di tale gravità. È infatti fallace l’idea del legislatore del 2012, che ha posto mano all’ultima riforma di questo settore penale, secondo cui l’incaricato di un pubblico servizio non rivestirebbe, al pari del pubblico ufficiale, una posizione funzionale tale da poter ingenerare nel privato quel metus pubblicae postestatis, quel timore derivante dall’esercizio di una pubblica potestà, tale da porlo in una situazione di soggezione nei confronti delle pretese di sopraffazione orientate ad indebiti vantaggi economico-patrimoniali.
Si introduce, poi, uno specifico obbligo di informativa a favore del procuratore generale presso la Corte dei Conti, a prescindere dalla sussistenza di un danno per l’erario, e dell’Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, nell’ipotesi in cui il pubblico ministero eserciti l’azione penale per i delitti di concussione e corruzione. Solo in tal modo, infatti, l’Autorità nazionale anticorruzione e la Procura generale presso la Corte dei conti sono messe nelle condizioni per esercitare i loro compiti istituzionali alla luce di una compiuta informazione su quanto l’indagine penale ha prodotto in termini di ricostruzione probatoria di tali gravi fatti criminosi. Si instaura, in tal modo, un virtuoso raccordo informativo tra momento repressivo e istituzioni di prevenzione nel rispetto della necessaria separatezza, ma al contempo valorizzando il necessario rapporto osmotico di conoscenze.


Interventi sul reato di associazione a delinquere di tipo mafioso

Si prevede una modifica della norma che punisce l’associazione di tipo mafioso, introducendo un inasprimento del trattamento sanzionatorio delle singole condotte di partecipazione e delle circostanze aggravanti.
L’innalzamento dei limiti di pena gioverà ad incrementare l’efficacia deterrente della norma incriminatrice, potenziando la sua capacità dissuasiva di comportamenti illeciti così gravi e destabilizzanti per l’ordine socio-economico ed eliminerà una sperequazione di trattamento sanzionatorio con altre forme di criminalità associata, quale quella finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, che è certo pericolosa ma non in misura maggiore rispetto all’associazione di tipo mafioso.
L’aumento delle previsioni di pena gioverà poi ad evitare, per quanto possa considerarsi ipotesi non frequente, che nell’applicazione giudiziaria il gioco di attenuanti e diminuenti per la scelta del rito abbreviato possa risolversi nella determinazione di trattamenti sanzionatori eccessivamente modesti in relazione alla gravità del fenomeno e alla pressante esigenza di contenerlo quanto più possibile, se non di sradicarlo totamente.


Partecipazione a distanza al procedimento penale

Si intende mettere a punto una diversa disciplina della partecipazione dell’interessato al procedimento penale, sia di cognizione che di esecuzione.
È infatti quanto mai opportuno estendere l’istituto della partecipazione a distanza a tutti i casi in cui l’imputato o il condannato sia detenuto in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice. Oggi si prevede che l’imputato partecipi a distanza, con collegamento in videoconferenza, soltanto se il processo da celebrare abbia ad oggetto un reato particolarmente grave. Si verifica, invece, che imputati detenuti particolarmente pericolosi debbano essere fisicamente tradotti in udienza, magari presso tribunali o corti poste a notevole distanza dal luogo di detenzione, per prendere parte a processi in cui sono imputati di fatti criminosi meno gravi, senza che ciò significhi che le esigenze di sicurezza siano minori rispetto a quelle apprezzabili quando il processo riguardi reati più gravi.
Deve poi essere consentito che il giudice possa disporre la partecipazione a distanza al dibattimento dell’imputato detenuto, anche per ragioni di sicurezza rappresentate dall’amministrazione penitenziaria: si pensi, a titolo esemplificativo, al rischio di evasione connesso alla traduzione, ovvero all’inopportunità dell’assegnazione del detenuto in istituti prossimi alla sede giudiziaria interessato dalla celebrazione del processo, per comportamenti che abbiano destabilizzato l’ordine e la sicurezza penitenziaria.


Interventi in materia di costruzione di una memoria condivisa delle vittime innocenti della mafia e del terrorismo

Il contrasto della criminalità mafiosa non può essere affidato esclusivamente agli attori istituzionali. Occorre, e questa è idea generalmente condivisa, che alla lotta per l’affermazione della legalità concorra l’intera società civile, che deve essere coinvolta e sensibilizzata con la formazione e il mantenimento di una memoria collettiva dei fatti più offensivi.
Si intende così istituire la “Giornata della legalità e della memoria di tutte le vittime innocenti delle mafie”, fissando la data del 21 marzo di ogni anno e prevedendo che in tale occasione possano essere organizzate iniziative presso  istituzioni pubbliche al fine di costruire una memoria condivisa delle vittime innocenti e degli avvenimenti.
Si prevede poi che le vittime di reati di tipo mafioso, degli atti di terrorismo ed i familiari superstiti possano ottenere un attestato di “testimone della memoria storica” da rilasciarsi dal Ministero dell’interno. Al possesso dell’attestato conseguirà il diritto per i dipendenti pubblici di fruire di permessi lavorativi straordinari in una misura massima predeterminata, retribuiti e soggetti a recupero, per la partecipazione alle iniziative intraprese sui temi della memoria storica e dell’impegno contro le mafie e il terrorismo.
Si vuol poi prescrivere che si possa procedere al cambiamento delle generalità anche per i soggetti che, nell’ambito dei procedimenti per delitti di mafia, rendono dichiarazioni nella veste di persone offese dal reato, persone informate sui fatti o testimoni, in modo che possa essere protetta al meglio la loro incolumità.