Le dimensioni dell'affettività - Dispense ISSP n.3 (settembre 2013)

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Ministero della giustizia
Dipartimento dell'amministrazone penitenziaria


Il diritto alla sessualità e affettività quale diritto inviolabile del detenuto; analisi e prospettive applicative de iure condito e de iure condendo
Le affettività ristrette. Aspetti psicologici e profili operativi
“Identità di genere: omosessualità e transessualità nella detenzione”

a cura di Annalisa Gadaleta, Silvia Lupo e Soccorsa Irianni - Vice Commissari di Polizia penitenziaria -

INDICE

Prefazione

§ 1. Il diritto alla sessualità e affettività quale diritto inviolabile del detenuto; analisi e prospettive applicative de iure condito e de iure condendo

§ 1.1. Affettività e sessualità del detenuto nell'ottica del diritto de iure condendo
§ 1.2. Intervista al dott. Mauro Palma, ex Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura

§ 2. Le affettività ristrette. Aspetti psicologici e profili operativi

§ 2.1. S-prigionare gli affetti Il sesso recluso: i desideri tra le sbarre
§2.2. La sessualità negata:conseguenze psico-fisiche della privazione sessuale

§3. “Identità di genere: omosessualità e transessualità nella detenzione”

§ 3.1 Dalla condizione di uomo nella società alla condizione di omosessuale in carcere. Dalla pornografia all’omosessualità: alcuni casi pratici
§ 3.2 Affettività e sessualità - I tre livelli generali di adeguamento sessuale nella detenzione
§ 3.3 L’omosessualità nelle donne
§ 3.4 La transessualità - società e carcere
§ 3.5 Rapporti con il personale di Polizia Penitenziaria: la formazione del personale come necessità di miglioramento, l’importanza della conoscenza del fenomeno, degli strumenti e dei modelli gestionali e trattamentali
§ 3.6 Problematiche connesse alla custodia ed alla gestione – Criticità e soluzioni prospettate
§ 3.7 Uguaglianza e dignità
§ 3.8 La tutela della salute: le cure ormonali e la L. 164/82
§ 3.9 La gestione dei detenuti transessuali ristretti presso il G8 di Rebibbia
§ 3.10 Gli interventi a sostegno e il ruolo del Comandante di Reparto negli Istituti con sezioni “precauzionali”

Prefazione

Le dimensioni dell’affettività in carcere.
Si può amare all’interno di un carcere?
Dagli elaborati presentanti sul tema dell’affettività in carcere emerge che dell’argomento si discute in Italia dagli anni Trenta, ma né leggi né regolamenti penitenziari hanno individuato soluzioni percorribili.
Numerose sono state le proposte di legge in materia di affettività e sessualità per i soggetti ristretti in carcere. Nove per la precisione, calendarizzati per la discussione ma mai discussi. Nonostante non abbiano avuto un seguito, va riconosciuto loro il merito di aver comunque sollevato la problematica della sessualità in carcere, inducendo gli operatori penitenziari a momenti di riflessione e facendo emergere la tematica in tutta la sua complessità.
La sessualità è un ciclo organico, un impulso fisiologicamente insopprimibile, un bisogno di vita; trattare di affetti in carcere e, molto di più, di sessualità, suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità.
La sessualità costituisce l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti a non essere normativizzato, quasi che l’afflizione della privazione sessuale deve necessariamente accompagnare lo stato di detenzione.
L’omosessualità invece, anch’essa in larga parte diffusa, più che una scelta consapevole appare come un effetto dell’adattamento al contesto carcerario. Questo pregiudica, destrutturandola, l’identità individuale e sociale del soggetto.
Si verifica così il fenomeno della cosiddetta “omosessualità temporanea o indotta “.
Il tema della sessualità caratterizza la vita quotidiana del carcere, rappresentando uno degli aspetti più problematici della reclusione, durante la quale si possono sviluppare le “anormalità” sessuali e la conseguente sofferenza nell’individuo. Lo studioso Clemmer (1940) sostiene che il contesto penitenziario può essere promotore di comportamenti sessuali anormali.
Quel detenuto che cerca di avere un rapporto omosessuale con un altro detenuto, in modo sporadico, lo fa con persone i cui lineamenti fisici possono verosimilmente ricordargli quelli femminili, perché è la donna che gli manca e, pertanto, trovandosi tra uomini, tenta di trovare quello che assomigli di più a ciò che non può raggiungere.
Nelle sezioni femminili, le conseguenze derivanti dalla privazioni delle relazioni presentano caratteristiche diverse. In effetti le donne, per loro natura e per condizionamenti culturali, non hanno la stessa ansia o tensione degli uomini per la privazione del sesso, essendo per lo più orientate verso manifestazioni di affetto, e, dunque, sebbene vi siano rapporti lesbici, essi sono meno appariscenti di quelli messi in atto dagli uomini e non creano, sempre, motivi di disordine.
Carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili, perché se c’è qualcosa che nega la confidenza, la libertà di espressione dei sentimenti, questo è proprio il carcere.
La questione poi, pone senz’altro di fronte ad un problema etico: è giusto concedere momenti di piacere a chi, con le sue azioni, ha causato dolore ad altri?
A ciò si aggiunga la situazione reale delle carceri nel nostro Paese, caratterizzata dal cronico problema dell’edilizia carceraria, dal sovraffollamento, nonché dalla carenza di personale penitenziario.
La moderna criminologia ha però dimostrato come incontri frequenti e intimi con le persone con le quali vi è un legame affettivo abbiano un ruolo insostituibile nel difficile percorso di recupero del reo.
A tal proposito, diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative volte a garantire l’esercizio — in ambito carcerario - del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei.
In particolare, in Canton Ticino, ad esempio, l’affettività può esprimersi attraverso una serie articolata di colloqui ed incontri intimi per i detenuti, con la possibilità di trascorrere momenti d’intimità con i propri familiari o amici per sei ore consecutive in una casetta situata nella zona agricola del carcere: una zona immersa nel verde, non lontana dall’Istituto e protetta da una recinzione.
In Italia mancano simili spazi e le proposte avanzate sono recepite con non poca resistenza, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività” in carcere, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”.
Da un punto di vista utilitaristico, però, il riconoscimento di un “diritto all’affettività” avrebbe senza dubbio un ritorno in termini di vivibilità e di gestione penitenziaria.
Questa convinzione è stata di recente ribadita dall’Amministrazione Penitenziaria, in una circolare Dap del 24 aprile 2010, la n. 0377644, avente ad oggetto “Nuovi interventi per ridurre il disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per prevenire fenomeni auto aggressivi”.
Secondo quanto previsto in circolare, andrebbe profuso il massimo impegno nell’adozione, anche in via sperimentale, di tutte le possibili misure, organizzative ed operative, atte a valorizzare, nei limiti della normativa vigente, gli spazi ed i momenti di
affettività.
Dunque, accanto alle idee, magari pregevoli e condivisibili in linea di principio, vi è la difficoltà di creare spazi ulteriori, per colloqui più intimi, in luoghi dove, è evidente che lo spazio manca anche per il semplice vivere quotidiano.
Mentre la nostra Carta costituente, a chiare lettere, disegna un carcere la cui cifra tenda alla rieducazione e le cui pene non consistano in trattamenti disumani.
L’espiazione di pena in carcere comporta, tra gli altri, la compressione delle ragioni della genitorialità, maternità e paternità, sia di quella già in essere, che di quella eventuale e futura. In particolare in materia di procreazione assistita, la Suprema Corte, con la sentenza n. 7791 del 30/01/2008, ha previsto la tutelabilità, per le persone detenute, di quelle situazioni che, in quanto incidenti sul diritto alla salute, facciano riferimento alle tecniche di procreazione assistita. Pertanto, il diritto alla paternità (o maternità), in caso di malattie impeditive della procreazione, deve essere garantito (mediante accesso alle pratiche di procreazione assistita) ai detenuti, così come lo è per i cittadini liberi, purché sussistano le condizioni previste dalla legge in materia (Cass. Sez. I, sent. n. 46728/2011).
Di contro, qualificare e valutare se vi sia una tutela della sessualità del ristretto in ambito penitenziario è lavoro arduo e complesso.
L'unico strumento normativo positivo che non ha tale precipua vocazione ma che, sic stantibus rebus, può essere utilizzato al fine di poter garantire una dimensione sessuale, nel solo alveo di un rapporto matrimoniale o di convivenza, è quello del permesso premio: ex art. 30 ter O.P, che peraltro,non riguarderebbe tutti i detenuti, perché concedibile (in particolari condizioni di premialità) solo a ristretti condannati.
Per Mauro Palma ,ex Presidente del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura,i limiti nel caso italiano, e di un’altra minoranza di Paesi, hanno tre aspetti. Il primo riguarda la complessiva cultura, esterna al carcere, che vede la sessualità come un premio e non come una normale funzione umana. Il secondo, nel sempre presente desiderio di imporre qualche restrizione in più alla privazione della libertà, non assumendo pienamente il principio che la pena è la privazione della libertà, mentre si pensa che la privazione della libertà è il presupposto per ulteriori afflizioni. Il terzo aspetto è nell’errata visione della professionalità di chi opera nel carcere, soprattutto nell’ambito della sicurezza perché spesso viene presentata tale previsione come una diminuzione del loro ruolo professionale.
La normativa penitenziaria, dunque, pur riconoscendo il valore dei rapporti affettivi, in realtà non riesce a garantire a pieno quel complesso di relazioni, spazi ed opportunità per l’esercizio del diritto all’affettività: aspetti questi ritenuti fondamentali per motivare, consapevolizzare e sostenere il detenuto.

§1. Il diritto alla sessualità e affettività quale diritto inviolabile del detenuto; analisi e prospettive applicative de iure condito e de iure condendo.

Un tema poco esplorato è quello delle differenze in carcere. Differenze di ogni tipo sono scandagliabili nel microcosmo detentivo: di nazionalità, di estrazione sociale o religiosa, di classificazione reatuale. Ma, anche, diversità affettive e sessuali, come modus di essere (eterosessuale, omosessuale, transessuale) e come modalità relazionale, con le problematiche ad esse connesse. Sotto i profili securitari, oltre che trattamentali, la vita detentiva assume colori diversi per un ristretto omosessuale rispetto ad un ristretto eterosessuale e, ancor di più, rispetto ad uno transessuale. In tutti questi casi, ben diverse sono le problematiche relativamente alla “conoscenza” del recluso, alla sua interazione con gli altri ristretti, agli aspetti allocativi, gestionali, trattamentali o sanitari, ad esempio. Parimenti, la dimensione, le istanze e le urgenze di un detenuto coniugato e con figli sono, per esempio, molto differenti da quelle di uno celibe.
Questa realtà, queste problematica vanno condotte senza scelte di campo aprioristiche, con la volontà di conoscere e fotografare questo variegato caleidoscopio dell'affettività e sessualità in ambito detentivo, nelle sue peculiarità sociologiche, giuridiche e detentive, a 360°. Carcere deriva etimologicamente dall'ebraico "carcar", che significa tumulare, luogo senza tempo, che nega la vita; trattare di affetti in carcere e, molto di più, di sessualità, suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità. Prima facie, si potrebbe pensare che la sessualità è un aspetto, un sottoinsieme dell'affettività.
Invero, sono due concetti distinti che non necessariamente si intersecano: vi può essere affettività senza componente sessuale (si pensi ad una relazione genitoriale o tra parenti il linea diretta o, ancora, ad una relazione amicale) e sessualità senza affettività, quale estrinsecazione della personalità e/o di un'autofilia (si pensi alla fruizione di materiale pornografico). Affettività e sessualità possono essere idealmente prefigurati come due insiemi, che si intersecano (con una zona relazionale comune), ma con parti parimenti distinte.
Nel carcere, in questo luogo "senza tempo", vanno declinate l'affettività e la sessualità. Comprendere, qualificare e gestire, per noi Operatori, queste due dimensioni è pregnante quanto delicato: la nostra Carta costituente, a chiare lettere, disegna un carcere la cui cifra tenda alla rieducazione e le cui pene non consistano in trattamenti disumani; la verità ordinamentale ha quale focus irrinunciabile il rapporto con la famiglia come elemento del trattamento e dimensione da valorizzare (ex plurimis artt. 15 e 28 O.p.), pur conciliandolo con le esigenze di ordine e di sicurezza peculiari di un ambito detentivo. Se la dimensione affettiva è normativamente tutelata dalla normativa penitenziaria, benché, talvolta, solo formalmente (vedasi esempio di molti detenuti stranieri e taluni italiani che non riescono concretamente a poter fruire dei colloqui con i parenti e affini), pressoché inesistente, da un punto di prospettiva normativo, è la dimensione sessuale; rebus sic stantibus, unico "strumento", non pensato con tale vocazione ma, talora, funzionalizzato in tal senso è la concessione dei permessi premio ex art. 30 ter O.p., che, comunque, è astrattamente fruibile da un numero residuale di ristretti. In tale humus detentivo, come ha sostenuto il medico penitenziario Francesco Ceraudo, per molti anni Presidente nazionale dell'Amapi (Associazione medici dell'amministrazione penitenziaria italiana), la sessualità in carcere è, pressoché sospesa, congelata. Nei primi tempi della detenzione, la sessualità, appunto, è compressa da problematiche più contingenti; riemerge, in maniera prepotente, nei periodi successivi. Il sesso negato può diventare sesso esasperato o sesso “deviato”, come nei casi di 'omosessualità indotta' in soggetti che, prima della detenzione, erano eterosessuali. Ma questo elaborato tenta di discettare, senza operare discriminazioni, anche della sessualità, a 360°, esplorandone le sue alcune dimensioni e senza discriminazioni: dal sesso negato al sesso immaginato (come accade con l'utilizzo spasmodico ed esasperato di materiale pornografico o con l'autofilia patologica), dalla sessualità repressa alla conseguente fenomenologia dell'omosessualità indotta, come studiata e attenzionata dal sociologo americano Clemmer, nella sua elaborazione della "prigionizzazione" e dagli italiani De Deo e Bolino, prima, e Salierno, dopo, che, con monitoraggi e indagini, individuarono una percentuale elevatissima (pari alla pressoché totalità dei detenuti) adusi all'omosessualità indotta in ambito carcerario. Attenzione va data agli strumenti per l'esplicazione dell'affettività e della sessualità de iure condito. Colloqui visivi e telefonici, permessi ex art. 30 O.p., prima, e permessi premio ex art 30 ter O.p. ,dopo, matrimonio in istituto del detenuto, procreazione assistita, colloqui ex art. 61 Reg. es. sono efficaci strumenti perché il detenuto coltivi e mantenga relazioni affettive e familiari? Per quanto attiene la sessualità "solitaria", prescissa da relazioni affettive, vi è la vexata quaestio dell'utilizzo del materiale pornografico e del suo acquisto, ex art. 18, comma 6 O.p., alla luce degli ultimi orientamenti della Suprema Corte. Ma il tema dell'affettività e sessualità per i soggetti in ambito penitenziario è stato recentemente all'attenzione di addetti ai lavori e mass media per la sentenza della Corte Costituzionale n. 301 del 2012, che ha stigmatizzato e rigettato ogni lagnanza in merito alla presunta incostituzionalità del "controllo a vista" in relazione ai colloqui visivi, articolo 18, comma 2 della comma 2 della legge 26 luglio 1975, n. 354.
Lo sforzo giuridico di questo elaborato e l'auspicata cifra peculiare è l'aver operato, nel terzo capitolo, un monitoraggio, in ordine cronologico, di tutte le proposte di legge in materia di affettività e sessualità per i soggetti ristretti in carcere. Nove sono le proposte di legge in tal senso; dalla prima del 1996, il cui primo firmatario è l'On. le Pietro Folena, sino all'ultima del 2012, i cui primi firmatari sono gli On. li Della Seta e Ferrante del 2012. Tutti questi progetti o proposte di legge sono stati calendarizzati per la discussione ma, forse non casualmente, mai discussi. De iure condendo, si prefigura una varietà di strumenti e modalità per la valorizzazione dell'affettività e della sessualità, rigorosamente nell'alveo di una relazione coniugale o di un rapporto affettivo stabile del soggetto ristretto; dalla proposta di introduzione di colloqui "senza controllo a vista" all’edificazione di nuovi ambienti negli istituti penitenziari, dai permessi precipui per coltivare motivi familiari alle visite per i familiari, di svariate ore, da trascorrere in aree verdi, dall'innesto normativo di un vero e proprio diritto all'affettività alla fruizione succedanea delle telefonate per i detenuti stranieri che, di fatto, non fruiscono dei colloqui visivi.
E' peculiare che, nel ventaglio di strumenti implementativi dell'affettività, solo due progetti di legge, la proposta "Boato" e la proposta "della Seta", propugnino la novella dell'art. 28 della legge n. 354 del 26 luglio del 1975, con l’inserzione di un vero e proprio “diritto all'affettività". Nella valutazione dell’attenzione, giuridica e sociale, riposta dal Parlamento in merito alle problematiche detentive (sulle quali il presente elaborato verte), utile è stato interrogare, con interviste, alcuni dei Deputati e Senatori che hanno proposto progetti di legge in merito: tra questi, l' On.le Pietro Folena, primo a proporre una legge in materia (n. 1503 del 13 giugno 1996), l'On. le Amalia Schirru, deputato (proponente del progetto di legge n. 3810 del 21 ottobre 2010 in materia) che, da anni si occupa di carcere dagli scranni parlamentari.
Proficuo appare, ai fini di una giusta definizione delle problematiche relative all'affettività e sessualità in ambito penitenziario, uno screening numerico di quelle che sono le "dimensioni" [1] di questi aspetti penitenziari. E' evidente che la problematica dell'affettività (quale bisogno di dare e riceve affetto) e della sessualità (quale dimensione fisiologica e naturale) riguarda tutti i ristretti, ma assume urgente e pregnanza maggiore per quei ristretti che hanno partner e figli.
Esaminando i dati del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria si evince che, dopo un calo di ristretti negli anni 2006 e 2007 (a seguito dell'indulto), vi è stato un aumento molto significativo nel 2008 (ben 9.834!); infatti nel 2007, i detenuti erano 48.693, mentre, nel 2008, erano ben 58.127. Negli anni successivi, l'aumento dei detenuti è stato continuo e progressivo sino al 2010, quando i detenuti hanno raggiunto il picco massimo degli ultimi anni con numero pari a 67.961 e con leggeri e progressivi cali negli anni successivi (66.897 nel 2011, 65.701 nel 2012).

Grafico 1 - numero complessivo dei detenuti dal 2005 al 2012

 

DETENUTI PER STATO CIVILE - ANNI 2005 – 2012
Anno Celibe/Nubile Coniugato/a Vedovo/a Divorziato/a Separato/a legalmente Convivente Non rilevato Totale
2005 29872 19104 767 1422 2316 2220 3822 59523
2006 18379 12592 521 880 1460 1911 3262 39005
2007 22739 14479 545 1115 1868 3099 4848 48693
2008 26476 17101 584 1379 2212 4443 5932 58127
2009 28437 19214 644 1549 2593 5276 7078 64791
2010 29070 20265 643 1618 2721 5889 7755 67961
2011 27979 20063 635 1593 2772 5934 7921 66897
2012 26473 19746 622 1707 2838 6176 8139 65701

 

Grafico 2 - resoconto dell'anagrafica dei detenuti

Si nota come, dal 2006 sino al 2010, vi è stato un aumento progressivo di detenuti coniugati; è significativo che tale numero sia elevato e, pressocchè, crescente (sia pure con una leggerissima flessione), nonostante un calo significante del numero totale di detenuti nel 2011 e 2012. Parimenti, la crescita dei detenuti conviventi, con una crescita che, dal 2006 è, anch'essa, sempre costante e crescente (sia pure con una leggerissima flessione), nonostante un calo significativo del numero totale di detenuti nel 2011 e 2012.
L'Ordinamento penitenziario riserva grande importanza al rispetto ed al mantenimento delle relazioni familiari sulla scorta dei precetti costituzionali. L'art. 29, I° comma, Cost. prescrive che: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" [2]. L'art. 28 O.p. si staglia, invero, come un indubbio baluardo della tutela dei rapporti familiari per il soggetto ristretto in ambito penitenziario, statuendo che: "particolare cura nel mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglia", con un indiscusso intento programmatico [3]. Sempre alla famiglia fanno riferimento, altresì, l'art. 15 O.p., che include l'agevolazione degli "rapporti con la famiglia" tra gli elementi del trattamento e l'art 45 O.p. che recita: "Il trattamento dei detenuti e degli internati è integrato da un'azione di assistenza alle loro famiglie. Tale azione è rivolta anche a conservare e migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari e a rimuovere le difficoltà che possono ostacolarne il reinserimento sociale...". L'art. 45 O.p. va letto in stretta connessione con la norma cornice dell'art. 28 O.p. e ricomprende, nella sua prospettiva all'assistenza familiare, tutti i ristretti. I rapporti con la famiglia costituiscono, quindi, un elemento fondamentale del trattamento rieducativo [4]; la famiglia è qualificata come risorsa, sia per l'interazione materiale, affettiva e relazionale con il recluso, che per l'iter rieducativo e risocializzante dello stesso.

Prima facie, i rapporti con la famiglia "sembrano orientati più a preservare il detenuto da effetti desocializzanti della detenzione che non a favorire un percorso rieducativo" [5]; in vero, nella prospettiva del mantenimento e consolidamento dei rapporti affettivi e familiari, strumenti quali i colloqui visivi e telefonici, la corrispondenza, i permessi premio ex art 30 ter, si configurano pregnanti di valenza trattamentale. Lo strumento più importante, volto al mantenimento dei rapporti tra il ristretto e i propri cari, è quello del "colloquio" visivo che ha avuto una forte apertura nella riforma penitenziaria del 1975; nel regolamento del 1931, infatti, il carcere, era concepito come realtà chiusa rispetto alla società ''esterna". Anche le visite di alcune autorità (ministri, segretari, magistrati, vescovi, ecc.) erano concesse solo in via eccezionale ma, ad es. con l' assoluto divieto di rivolgere la parola ai detenuti e gli stessi colloqui visivi con i familiari erano oggetto di un disciplina molto restrittiva. La Riforma penitenziaria del 1975 ha, invece, apportato una vera e propria svolta copernicana nel modo di concepire il detenuto; egli è sì all'interno del mondo carcerario, ma con auspicata piena e sinergica interazione con l'esterno (famiglia, volontariato, in primis). La natura di colloqui [6] (rectius, con controllo a vista, ma non auditivo) con la famiglia quali strumenti elementi del trattamento viene, altresì, confermata e, ancora più, ribadita, nel nuovo Regolamento di esecuzione del 2000; i colloqui non sono condizionati alla condotta tenuta, né all'iter o all'interazione del ristretto rispetto al programma trattamentale, o connessi alla gravità del reato commesso [7]. A scopo premiale, possono essere concessi colloqui in numero ulteriore rispetto a quello previsto dall'art. 18 O.p e 37 Reg. Es. 230/2000 [8]; l'aumento del numero dei colloqui, ex art 37 n. 8, può essere concesso nel caso di prole sotto i dieci anni o nel caso di particolari circostanze [9].

La tutela dei rapporti familiari, conformemente all'evoluzione del concetto di famiglia, viene estesa anche alle famiglie di fatto e alle convivenze more uxorio [10]. Riguardo all'individuazione delle persone ammesse ai colloqui, la circolare D.a.p. n. 3478 del 1998 dell'8.7.1998, concordemente con la Dottrina prevalente, reputò che sia la legge del '75, che il regolamento di esecuzione, utilizzassero i termini "congiunti" e "familiari" come equivalenti e che fosse utile considerare un concetto di famiglia in termini più sociologici che giuridici; le relazioni familiari non possono essere facilmente sottoposte agli schemi rigidi della legge, ma vanno considerati in senso sociologico, quale unità fondamentale dell'organizzazione sociale, caratterizzata dalla residenza comune, dalla cooperazione economica, dall'affectio maritalis o familiaris. La norma, invero, prevede un ibrido di diritto e concessione per le persone estranee alla famiglia (e comunque parenti e affini oltre il quarto grado), di importante valutazione ed impatto per quei soggetti che hanno sì relazioni affettive ma incipienti, o, comunque, non connotate da coabitazione e convivenza; si pensi a rapporti tra fidanzati o a conoscenze affettive in fieri o, come spessissimo accade per i detenuti, nate in modo epistolare e non ancora corroborate da conoscenza fisica, o anche situazioni se mai riconsolidate dopo l'avvenuta separazione consequenziale alla detenzione. In questi casi, la decisione sull'ammissibilità ai colloqui di tali soggetti viene presa con piena discrezionalità dall'Amministrazione che, peraltro, viene invitata, dalla lettera circolare D.a.p. 3478/5928, ad usare criteri di particolare favore nei confronti delle relazioni affettive, con particolare riguardo ai rapporti costruttivi e strutturati [11], precisando di attenersi al concetto giuridico di conviventi e intendendo con essi le persone che coabitano in uno stesso alloggio.

Altro invito pregnante della nota Circolare de qua è quello di non attribuire alcuna rilevanza all'identità del sesso (si pensi, appunto, a relazioni tra soggetti omosessuali) o alla tipologia dei rapporti concretamente esistenti con il detenuto, siano essi more uxorio, di amicizia, di collaborazione domestica, di lavoro alla pari, o altro. Altra norma che presta particolare attenzione alla tutela delle relazioni familiari prevedendo particolari modalità di contatto tra detenuto e congiunti ammessi ai colloqui è l’art. 61, comma 2, Reg.es. rubricato come “Rapporti con la famiglia e progressione nel trattamento”. E’, infatti, previsto e disposto che la Direzione degli istituti e l’U.E.P.E. dedichino particolare attenzione ad affrontare la crisi conseguente all’allontanamento del soggetto dal nucleo familiare, a rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al rientro in società. Il Direttore dell’Istituto può, secondo le specifiche indicazioni del gruppo di osservazione, autorizzare oltre che colloqui aggiuntivi, la visita da parte delle persone ammesse ai colloqui con il permesso di trascorrere parte della giornata insieme a loro, in appositi locali o all’aperto, e di consumare il pasto in compagnia.

L’istituto del "colloquio" visivo è immutato nella sua disciplina, ma variano i presupposti per la concessione: per l’art. 71 dell’abrogato regolamento di esecuzione, tale istituto era previsto in un’ottica strettamente premiale e concesso, su iniziativa del Direttore, quale ricompensa per i detenuti che si erano distinti per l’impegno dimostrato nella partecipazione alle attività trattamentale; di contro, l’art. 61 [12] del Reg. Es. 230/2000 attribuisce un ruolo centrale o primario al gruppo trattamentale che deve qualificare e valutare situazioni familiari e relazionali particolari. Altro strumento efficace per il mantenimento delle relazioni familiari ed affettive è il colloquio telefonico, anch'esso novellato dalla legge del 1975. L'Ordinamento penitenziario stabilisce, al comma 5 dell'art. 18, che "può essere autorizzata nei rapporti con la famiglia, e in casi particolari con terzi, corrispondenza telefonica con le modalità e le cautele previste dal regolamento", rimandando all'art. 36 del Regolamento d'esecuzione per la definizione delle relative modalità. L'utilizzabilità del telefono da parte dei detenuti e degli internati costituisce un'assoluta novità della legge penitenziaria del 1975. Attesa l'indubbia diffusione della linea telefonica, questo strumento è di fondamentale importanza per il mantenimento dei rapporti con la famiglia e, nel caso di detenuti ed internati stranieri, tale modalità è l'unica forma di contatto e di mantenimento delle relazioni affettive con i familiari all'estero. Altro strumento efficace per il mantenimento dei rapporti con la famiglia è, indubbiamente, quello dei permessi ex art. 30 O.p., prima, ed ex art. 30 ter O.p. ora, che davano e, tuttora, danno la possibilità al detenuto di riconsolidare o stabilire contatti e legami, soprattutto affettivi e consentono anche una forma di riavvicinamento e riadattamento, anche nell'ottica di un rientro nel consorzio familiare, allorquando vi sarà la scarcerazione. Prima che la Riforma penitenziaria del 1975 prendesse le mosse, la possibilità che venisse concesso ad un detenuto il permesso di poter trascorrere un breve periodo con la sua famiglia non era assolutamente ipotizzabile. L'impostazione normativa penitenziaria e la stessa concezione della pena non permettevano alcuna apertura verso il mondo esterno, non solo per ragioni di pubblica sicurezza o per l'eventuale rischio di evasioni, ma proprio per la concezione di sostanziale chiusura, in cui doveva realizzarsi la dimensione psicologica del confinamento e del distacco dal mondo "esterno", che era attribuita alla detenzione. I primi coraggiosi esperimenti di permessi concessi a detenuti, per gravi ragioni inerenti la famiglia, risalgono agli anni '60 quando, per iniziativa della stessa Amministrazione penitenziaria, prese forma la prassi di concedere il permesso ai detenuti che dovessero recarsi a visitare un familiare in grave pericolo di vita. Nel corso dei lavori preparatori alla riforma penitenziaria del 1975, emersero due problematiche ed istanze: da una parte, la necessità di dare disciplina normativa alla prassi amministrativa in base alla quale venivano concessi brevi permessi di uscita dall'istituto penitenziario per gravi (ma non necessariamente negative) esigenze familiari e, dall'altra, l'opportunità di attenuare l'isolamento affettivo derivante dalla detenzione attraverso la concessione di brevi periodi di libertà volti a favorire il mantenimento delle relazioni familiari e sociali ed attenuare gli effetti della privazione sessuale [13].

La legge penitenziaria del 1975 non accettò questa seconda istanza riformatrice ed eliminò, nella stesura del testo definitivo, la previsione relativa alla possibilità di concedere permessi speciali, della durata massima di cinque giorni, anche al fine di mantenere le relazioni umane, che era stata già inserita nel corso dei lavori parlamentari [14]. Fino all'introduzione dell'istituto dei permessi premio avvenuta con la legge Gozzini del 1986, la Magistratura di Sorveglianza continuò ad applicare l'art. 30 O.p. ad una serie considerevole di casi, intendendo la disposizione come riferita ad "eventi familiari", cioè fatti storici specifici ed individuati inerenti la vita familiare dotati di un carattere di eccezionale "gravita", con la precisazione che il termine "gravità" non dovesse riferirsi solo ad eventi luttuosi o drammatici, ma essere, piuttosto, inteso in riferimento a qualsiasi avvenimento particolarmente significativo nella vita di una persona (per es. eventi quali la Prima comunione o la Cresima di un figlio [15]) e, quindi, anche ad eventi di valore positivo eccezionalmente importanti nella vita del richiedente. Per arrivare a tale segno di apertura si dovette aspettare l'approvazione della legge Gozzini che, con il nuovo art. 30-ter O.p., istituì i cosiddetti "permessi premio", concessi ai detenuti meritevoli al fine di consentire loro di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro. Ulteriori strumenti previsti dall'Ordinamento penitenziario a garanzia dell'affettività e del favor familiae sono la possibilità per il soggetto recluso di contrarre matrimonio in istituto penitenziario, ex art. 44 O.p. (con l'accortezza che, nei registri di Stato civile, non vi sia annotazione dell'istituto) e la previsione, ex art. 30 del Reg. 230/2000, dell'assegnazione del recluso a istituti nella regione di residenza [16] per l'inizio dell'esecuzione della pena o, ove ciò non sia possibile, in località prossima. Quest’ultima disposizione frequentemente, a motivo del sovraffollamento penitenziario, talora disattesa.

La tutela della vita familiare durante l’esecuzione della pena introduce una serie di delicate problematiche riguardo al difficile equilibrio tra l'esigenza punitiva dello Stato e la garanzia dei diritti fondamentali: una delle problematiche maggiormente discusse è la possibilità di fecondazione assistita per il soggetto ristretto in situazione di detenzione. Questo delicatissimo problema è stato affrontato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 26 del 11 febbraio 1990, che ha determinato un importantissimo momento di svolta nella delimitazione del modello di tutela dei diritti dei detenuti, avendo la Corte statuito che: “l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è la finalità non possono mai consistere in trattamenti penitenziari che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovino nella restrizione della loro libertà”. Tra le situazioni giuridiche soggettive che fanno capo ai detenuti non sono tutelabili, secondo quanto stabilito dalla Corte, solo quelle riconosciute dalle norme penitenziarie, ma anche quelle riconoscibili ad un soggetto libero, ispirandosi comunque sempre al principio della proporzione tra esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria e interesse della persona singola.

E’ evidente che l’espiazione di pena in carcere comporta, tra gli altri, la compressione delle ragioni della genitorialità, maternità e paternità, sia di quella già in essere, che di quella eventuale e futura ma, trattandosi di una situazione giuridica soggettiva sicuramente meritevole di tutela secondo il principio enunciato dalla Corte Costituzionale, la Giurisprudenza ha precisato che “non esiste un divieto assoluto di tutela di tale esigenza affettiva ed umana”, ma che i detenuti debbono trovarsi nelle condizioni di poter usufruire degli istituti previsti dalla normativa penitenziaria a garanzia di tale tutela, quali ,ad esempio, il permesso ex art. 30 ter O.p..In diverse sentenze in merito (Cass. Sez. I, n. 48165/2008; Ord. Trib. Sorv. Milano n. 6610/2010) si è ribadito che non poteva farsi ricorso in tali casi al permesso ex art. 30 O.p., non trattandosi di esigenze eccezionali di carattere umanitario o eventualmente trattamentali.

La tutela della genitorialità delle persone detenute ha posto, inoltre, all’attenzione dell’interprete il delicato problema concernente l’applicabilità anche alle persone detenute della disciplina prevista dalla Legge n. 40 /2004 in materia di procreazione medicalmente assistita. Con nota Circolare n. 260689 del 10 febbraio 2006, il Dipartimomento dell'Amministrazione penitenziaria, Direzione Generale Detenuti e Trattamento, Ufficio III°, ha significato che il ricorso alla procreazione assistita per soggetti detenuti va, comunque, consentita nei casi di sterilità o infertilità inspiegate come da legge de qua, e che lo stato di detenzione, prescisso da tali situazione, non rappresenta, in sè, una condicio sine qua non per accedere a tale procedura, quasi fosse essa stessa una condizione o causa succedanea alle patologie legittimanti la fecondazione. La Suprema Corte, con la sentenza n. 7791 del 30/01/2008, ha previsto la tutelabilità, per le persone detenute, di quelle situazioni che, in quanto incidenti sul diritto alla salute, facciano riferimento anche alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, in quanto “il sacrificio imposto alla persona ristretta non deve mai eccedere il minimo necessario ai fini di sicurezza, e, posta la rilevanza primaria dei diritti umani connessi all' anzidetta funzione riproduttiva, la riconosciuta tutelabilità deve trovare ragionevole e positiva espansione, in un equo contemperamento delle esigenze in gioco”. Pertanto, il diritto alla paternità (o maternità), in caso di malattie impeditive della procreazione, deve essere garantito (mediante accesso alle pratiche di procreazione assistita) ai detenuti, così come lo è per i cittadini liberi, purché sussistano le condizioni previste dalla legge in materia (Cass. Sez. I, sent. n. 46728/2011). Sulla base dei principi sopra enunciati, successivamente, la Corte, con la decisione n. 11259/2009, ha previsto che:"Il detenuto in regime di cui all'art. 41 bis O.P. può essere autorizzato al prelievo di liquido seminale al fine di consentire alla moglie, sussistendo le condizioni di legge, di accedere alla procreazione medicalmente assistita: infatti, il diritto alla paternità rappresenta una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela, anche in regime penitenziario speciale”. Di contro, qualificare e valutare se vi sia una tutela della sessualità del ristretto in ambito penitenziario è lavoro arduo e complesso.

Anche la dimensione sessuale, di cui ricercare la qualificazione giuridica e l'eventuale tutela e disciplina, è distinta; la sessualità, ad esempio, inerisce l’ ambito di una relazione matrimoniale, tutelata normativamente, ma è anche quella connessa all’esigenza fisiologica (e legata alla salute) e di sviluppo della propria personalità di un soggetto single che, per. es. può passare attraverso la fruizione di un giornale pornografico.

Molte sono le norme costituzionali che tutelerebbero la estrinsecazione sessuale dei ristretto, come significato, altresì, nella recente ordinanza di rimessone alla Corte costituzionale del Tribunale di Sorveglianza di Firenze del n. 1476/2012 (in merito al controllo a vista imposto nel caso di colloqui ex art 18 O.p..L'art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, l' art. 3, comma 1 e 2, Cost. significa pari dignità sociale e eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e la rimozione degli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana, l'art. 27 Cost. non consente che la pena possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e statuisce che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, l’art. 31 Cost., al comma 1, dispone che la Repubblica agevoli la formazione della famiglia nonché, nel comma 2, protegge la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, l'art. 32 Cost. tutela il diritto alla salute dei cittadini. Ebbene, la scelta di negare una dimensione sessuale del ristretto in ambito penitenziario - secondo l’ordinanza de qualederebbe, in primis, uno pieno vissuto in ambito relazionale e comporterebbe una limitazione della piena realizzazione della personalità del soggetto, consistendo, altresì, in un trattamento disumano. Atteso anche che la sessualità, come acclarato, è un ciclo biologico la cui interruzione ha risvolti psicofisici dannosi, tale "negazione" contrasterebbe, in primis, con i principi di tutela della salute, costituzionalmente garantiti. Una corrente dottrinale [17], in vero datata, reputa che una maggiore cura per l’aspetto sessuale della vita del ristretto (nell’ambito matrimoniale o di un rapporto di convivenza) sarebbe riconducibile all'obiettivo di "mantenere, migliorare o ristabilire i rapporti con la famiglia "(art. 28 O.p) e alla luce della tutela che del matrimonio viene operata sia dall'art. 29 Cost., che dallo stesso 44 O.p. [18].

Elemento ostativo ad una interpretazione fattuale dell'art. 18 O.p. in senso favorevole ad una dimensione sessuale di tale momento è, in primis, la prescrizione del controllo visivo del personale (Corso); in senso contrario, altra dottrina (Bernardi) ritiene inopportuna la risoluzione dei rapporti sessuali per il "rischio di gravi disparità di trattamento" e auspica una precisa regolamentazione legislativa" [19]. L'unico strumento normativo positivo [20] che non ha tale precipua vocazione ma che, sic stantibus rebus, può essere utilizzato al fine di poter garantire una dimensione sessuale, nel solo alveo di un rapporto matrimoniale o di convivenza, è quello del permesso premio: ex art. 30 ter O.P. che recita: "ai condannati che hanno tenuto regolare condotta ai sensi del successivo comma 8 e che non risultano socialmente pericolosi, il Magistrato di Sorveglianza, sentito il Direttore dell’istituto, può concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro”. Peraltro, ineludibile, e attualmente insuperabile, è problema dell'inesistenza di ambienti edificandi ad hoc (come previsto dalla proposta Margara e da tutte le proposte di legge in materia) che pure riporterebbe la sessualità in una dimensione di libertà e tra le coordinate spaziali e socio familiari della propria vita ordinaria. Lo strumento previsto dall' 30 ter O.p., unico attualmente declinabile ai fini di un'affettiva più completa, inoltre, non riguarderebbe tutti i detenuti, perché concedibile (in particolari condizioni di premialità) solo a ristretti condannati; ex ante, nel nostro regime attuale sono inammissibili i permessi-premio per tutti i detenuti giudicabili (oggi sono il 41,8% del totale) e per una percentuale molto elevata dei detenuti definitivi, percentuale in decisivo aumento per le limitazioni delle concessioni da parte degli stessi Magistrati di Sorveglianza, nonché per effetto della legge 5/12/2005, n. 251, c.d. ex - Cirielli, che riduce sensibilmente i benefici penitenziari per i recidivi [21]. La quota restante dei detenuti, astrattamente ammissibile, ne fruisce in misura senz’altro minoritaria [22].

Il detenuto, a seguito dello stato di detenzione, viene ad essere "simbolicamente castrato dal suo celibato involontario" sicché, ut supra meglio esposto, egli cerca di sostituire questo spazio vuoto nella affettività, avvalendosi, il più delle volte di materiale pornografico che diventa il mezzo di sostituzione temporanea del rapporto sessuale. L'art. 18, 6 comma, O.p. dispone, invero che "i detenuti e gli internati sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno e ad avvalersi di altri mezzi di informazione", ricomprendendo, prima facie, tutti i periodici e libri in libera vendita. Vexata quaestio é il possesso di pubblicazioni a carattere pornografico da parte dei detenuti; questo problema è stato posto all’attenzione della Magistratura di ogni ordine e grado, trattandosi di fattispecie che pone in rilievo diritti che formano oggetto di protezione costituzionale in via immediata, come il diritto all’informazione tutelato ex art.
21 Cost., in rapporto ai limiti del "buon costume" [23] e alle limitazioni intrinseche della vita detentiva.

La Magistratura di Sorveglianza aveva più volte negato ai detenuti di poter possedere riviste pornografiche sul presupposto che le stesse sono vietate ai minori, ne è vietata l’esposizione e l’esonero di responsabilità per la loro divulgazione riguarda solo gli edicolanti e i librai, non anche l’Amministrazione penitenziaria. Di converso, i detenuti reclamavano il diritto a possedere tali riviste in quanto proprio in virtù del citato art. 18, 6 comma O.p.; alla luce di tale norma, sussisterebbe il diritto del detenuto a ricevere stampa la cui vendita sia autorizzata per i cittadini in stato di libertà, ricompresa la stampa pornografica.

Segnatamente, si ricorda che, già prima della riforma penitenziaria del 1975, era scomparsa ogni forma di censura sulla stampa, con grande respiro di apertura [24], ponendo limitazioni solo per "esigenze di ordine e di spazio” [25] o relative alla regolamentazione delle modalità di ricezione dei beni dall'esterno. La Corte Costituzionale, con Sent. n. 26 del 1999, investita della questione, pur se anche se indirettamente (il giudizio di legittimità costituzionale le mosse da una fattispecie analoga il vaglio della Corte riguardava l’art. 69 O.p. e la tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della Amministrazione penitenziaria) ha stabilito che, comunque, "devono essere salvaguardati quei diritti non temporaneamente compressi per effetto della pena". Tale principio ha aperto le porte alla possibilità del detenuto di ricevere e, quindi, trattenere questa tipologia di riviste, sebbene le stesse non siano ancora considerate oggetto di indispensabile utilizzo e, pertanto, ricomprendibili nell’elenco dei beni acquistabili all’esterno per il tramite di imprese convenzionate con la struttura penitenziaria. E’ quanto di recente stabilito dalla Suprema Corte con la sent. n. 45410/2011, secondo cui la rivista pornografica che il detenuto chiede di acquistare “non costituisce oggetto di indispensabile utilizzo e conseguentemente il suo mancato inserimento nell’elenco dei beni e dei generi peri quali è intervenuta la convenzione tra la ditta appaltatrice e la direzione dell’istituto penitenziario, non costituisce violazione di un diritto del detenuto”.
In senso contrario, il Giudice nomofilattico ribadisce la legittimità del possesso di tali riviste precisando che il detenuto “ben potrà farsi inviare la rivista..omissis…acquistandola direttamente dalla casa editrice ovvero facendosela spedire per posta dai familiari o da altri soggetti che l’acquisteranno per lui dall’esterno”.

E' pregnante il recente ordine di servizio della Direzione della Casa Circondariale di Teramo, nella persona del Dott. Stefano Liberatore, che ha autorizzato i detenuti "a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all'esterno, facendo altresì riferimento al fatto che il fenomeno sessuale deve essere considerato dato fondamentale della persona umana, come ulteriormente riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, la quale ritiene che il comportamento sessuale (in cui può facilmente ricondursi la fruizione di specifico materiale, quali appunto dvd e riviste), debba essere riconosciuto quale "aspetto intimo della vita privata". A sostegno del predetto ordine di servizio si significa che "nello spirito del favor per il 'rapporto del detenuto con la propria psiche e il proprio corpo al fine del recupero della persona, elevati ad elementi del trattamento dall'art. 15 O.p." [26].
Tale "diritto" del ristretto, in ossequio all'art. 21, comma 6 Cost. e 27 comma 3 Cost., viene, peraltro, contemperato e bilanciato con esigenze di ordine e sicurezza, con il riferimento alle “…omissis… opportunità strettamente connesse al decoro che deve essere mantenuto in tutte le zone dell'istituito, a tutela di terzi non consenzienti (operato penitenziari, visitato ex art 67 O.p., assistenti volontari, altri frequentatori esterni, detenuti) senza la loro volontà".

§ 1.1 Affettività e sessualità del detenuto nell'ottica del diritto de iure condendo

Valutati i diritti, le facoltà e i limiti, de iure condito, dell'affettività e della sessualità per persone private della libertà personale, si è proceduto col monitorare, presso lo stesso Parlamento italiano, tutte le proposte di legge in tal senso, ben otto; la n. 1503 del 13 giugno 1996 (XIII° Legislatura) a firma dell'On.
le Pietro Folena, quale primo firmatario, il progetto di legge n. 3331 del 1997 (XIII° Legislatura), a firma dell'On. Giuliano Pisapia, quale unico firmatario, la proposta di legge a firma del Sen. Manconi n. 2422 del 9 maggio 1997 (XIII° Legislatura), il progetto di legge n. 3020 del 12 luglio 2002 (XIV° Legislatura), a firma dell'On. Marco Boato, quale primo firmatario, il progetto di legge n. 63 del 26 aprile 2006 (XV° Legislatura), primo firmatario Sen. Malabarba, la proposta di legge n. 3810 del 21 ottobre 2010 dell’On.le Schirru Amalia, prima firmataria, il disegno di legge n. 3420 del 24 luglio 2012 (XIV° Legislatura) a firma dei Senatori Della Seta e Ferrante.

Tutte le proposte di legge prevedono un ventaglio di strumenti, spesso molto simili, volti a meglio implementare l'affettività in ambito penitenziario ed novellare la legge del 1975, con previsioni finalizzate a rendere possibile rapporti, affettivi ma anche sessuali, del ristretto con il proprio partner o coniuge. Vi sono due proposte di legge, proposta di legge" Boato" e "della Seta", uniche, che propugnano la novella dell'art. 28 della legge n. 354 del 26 luglio del 1975, con l’innesto del diritto all'affettività. Pregnante e icastico è che tutti questi progetti di legge, presentati e calendarizzati per la discussione, non abbiano mai avuto seguito nell'iter di discussione degli stessi. Casualità, priorità altre o scelta politica velata? Diverso è stato l'iter della Proposta del nuovo Regolamento di Esecuzione penitenziaria ad opera dell'allora Capo del Dipartimento dottor Alessandro Margara e dell'allora sottosegretario Franco Corleone. Tal progetto di nuovo Regolamento, all’art. 61, comma 2, lettera c), disponeva la possibilità da parte della Direzione dell' Istituto di pena di autorizzare i condannati e gli internati a trascorrere un periodo di tempo, di massimo a ventiquattro ore continuative, con le persone autorizzate in apposite unità abitative, da realizzare all’interno degli istituti e sotto il controllo del personale della Polizia penitenziaria. Ebbene, tale progetto fu, al contrario, al centro di un pingue dibattito istituzionale e massmediatico, ma fu modificato a seguito del parere n. 61 del 2000 del Consiglio di Stato, in sede consultiva. Se ne esamina ex plurismis, la prima in ordine cronologico. La prima proposta di legge in materia di affettività e di sessualità per le persone private della libertà personale a modifica della legge n. 354 del 26 luglio 1954 è stata presentata dall'On. le Pietro Folena, quale primo firmatario, e dieci parlamentari [27] coofirmatari.

Tale progetto di legge, con iter ordinario, è stato presentato in data 13 giugno 1996 ed assegnato alla seduta parlamentare del 30 ottobre 2006 per la discussione; invero, l'esame della proposta di legge non è mai iniziato. Nell'incipit del progetto di legge n. 1503 del 1996, si significa che "il carcere va umanizzato per corrispondere ad una tradizione che intende la pena quale fattore anche riabilitativo " e che "un'area spesso trascurata nella normale gestione del trattamento è costituita dalla fruibilità delle normali relazioni affettive. Si assiste spesso ad una visione riduttiva che trascura l’impatto che una normale, corretta e sana vita affettiva può ingenerare anche al fine di un recupero sostanziale delle normali relazioni con il contesto familiare e sociale".

Tale proposta di legge, peraltro suggerita e avallata da esperti e professionisti nel settore penitenziario, si legge ancora nel preambolo, costituirebbe un’indubbia e qualificante apertura della politica penitenziaria e che fuorviante sarebbe se l’iniziativa fosse interpretata come una mera apertura circa il mero scambio sessuale del ristretto con il partner, poiché le modifiche e le innovazioni proposte si ascrivono ad una riforma più lata di umanizzazione del pianeta carcerario [28]. L'art. 1° della predetta proposta, ad integrazione dell'articolo 5 della legge 26 luglio 1975, n. 354, così recita: "Negli edifici penitenziari devono essere realizzati locali idonei a consentire al detenuto di intrattenere relazioni strettamente personali ed affettive". L'art. 2° del progetto di legge de quo propone, invece, l'introduzione un articolo 28 bis (Visite al detenuto) — che così disponga: "Al fine di consolidare i rapporti affettivi con la famiglia, oltre ai colloqui previsti dall’articolo 18 del codice penale e dall’articolo 35 del regolamento approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 aprile 1976, n. 431, il detenuto ha diritto a godere di una visita al mese, della durata non inferiore alle quattro ore consecutive, con il proprio coniuge o convivente, nei locali adatti e senza alcun controllo visivo". L'art. 3 della proposta prospetta l'innesto di un articolo "28 ter (Calendario delle visite). 1. I detenuti hanno altresì diritto a trascorrere la terza domenica di ogni mese, a partire dalle ore 14,00, con la famiglia nelle aree verdi esistenti presso le case di reclusione, sotto il controllo visivo del personale addetto a tale vigilanza", contemplando un calendario con turnazione nell'ipotesi di motivi di sicurezza o per elevato numero di detenuti. Il quarto articolo proposto, ad integrazione delle l’articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (introdotto dall’articolo 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663) consente dei permessi "familiari" con l'inserimento dell' art. 30-quater. – (Permessi per visite ai familiari o conviventi). — 1. Al detenuto in espiazione di pena che abbia manifestato una particolare intensità di rapporti con la famiglia, ed in particolare con il coniuge, con il convivente o con i familiari, il Giudice di Sorveglianza può concedere un permesso della durata non superiore ai quindici giorni per ogni semestre di carcerazione". Infine, la “proposta Folena" contempla per i coniugi o conviventi, che siano entrambi detenuti, un diritto ad ulteriore fruizione di colloquio mensile per ulteriori quattro ore al mese e, nel caso di detenuto o internato straniero (ammesso al colloquio telefonico) che la conversazione telefonica andrebbe implementata di ulteriori 6 minuti per ogni colloquio ordinario non fruito.

Tale proposta di legge è di importanza pregnante poiché è la prima in ordine cronologico presentata in materia di affettività e sessualità dei detenuti ma, come sopra esposto, non è mai stata discussa, pure essendone stata calendarizzata la discussione per il 30 ottobre 2006. Tale proposta presenta un ventaglio di strumenti giuridici per implementare, in modo efficace, l’espansione dell’affettività per i soggetti ristretti: l'introduzione di un colloquio mensile "nelle aree verdi", un ulteriore colloquio di quattro ore per i detenuti coniugi o conviventi (con parificazione totale dei rapporti more uxorio ai rapporti matrimoniali) nonché l'implementazione delle conversazioni telefoniche, nel caso di mancata fruizione di colloqui ordinari (importante per i detenuti ed internati stranieri).
L’On Pietro Folena dichiara: “La proposta nasceva dalla convinzione, a mio avviso, più che mai attuale, che la negazione istituzionale della sfera della sessualità e dell'affettività' sia sempre più inaccettabile e determini solitudine, depressione, grave afflizione, rabbia e violenza e una sinergia: anzi, abbiamo dato voce a tanti operatori del settore che da anni riflettevano sulla questione. In quest'opera raccogliemmo anche la voce del Comitato Carceri della commissione giustizia della Camera dei Deputati, che nella precedente legislatura aveva fatto un importante lavoro, ma anche in sinergia con gli operatori penitenziari, molti direttori, associazioni impegnate concretamente e giuristi. La proposta prese le mosse dall’idea dei locali adatti ad incontri intimi e riservati. Ma il tema non era solo quello della "meccanica" sessuale” aggiunge l’On. Le Folena” ma di luoghi adatti alla "tenerezza", per usare il termine di Papa Francesco: e cioè a una dimensione affettiva, sessuale e non, non sottoposta ad un regime di vigilanza spersonalizzante. Vi furono le scontate polemiche di stampa sul diritto alla sessualità dei contenuti. Ma non si sollevò un'ostilità aperta. Vi fu invece nelle forze politiche un'ostilità' non dichiarata, un silenzio, un boicottaggio più profondo. Era una legge che applicava il dettato costituzionale sul recupero dei detenuti e i principi della Gozzini. Che rimetteva in discussione il carattere solo punitivo, autoritario e violento del sistema carcerario.

E’ importate rimarcare come il riconoscimento alla estrinsecazione della dimensione "sessuale" venga considerato non quale "diritto" assoluto, intangibile ed illimitato, ma quale modalità di una vita affettiva riconosciuta nell'ambito del matrimonio o di un rapporto di convivenza more uxorio. Icastica è anche la previsione dei permessi per visite familiari o conviventi, di massimo quindi giorni per ogni semestre di carcerazione, che il Giudice di Sorveglianza può concedere al solo "detenuto in espiazione di pena". La proposta di articolo "30 quater" non esplicita un buon esito di percorso trattamentale quale precondizione ma, intrinsecamente, qualifica tale permesso come una concessione (può ) della Magistratura di Sorveglianza per i detenuti definitivi e non come un diritto soggettivo di tutti i ristretti. Dalla seconda metà degli anni '90, il tema dell'affettività e della sessualità per i detenuti ebbe vasta eco anche ad impulso dei vertici dell'Amministrazione penitenziaria. Con nota circolare prot. n. 139795/4 -2-1-Coll del 6 maggio 1997, l'allora Capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, dott. Michele Coiro richiese ai Direttori degli Istituti penitenziari un monitoraggio dei locali e egli ambienti idonei da dedicare alle cosiddette "a) visite riservate" e, precisamente: "se vi siano locali adatti a consentire le predette visite riservate, indicandone, seppure succintamente, l'ubicazione, l'ampiezza e le modalità di accesso da parte dei familiari ovvero, in caso contrario se, con interventi di ristrutturazione e adeguamento, siano recuperabili a quel fine altri locali con l'accortezza di aggiungere, in questo caso, ai dati sopra indicati anche un sommario progetto di fattibilità; b) quali eventuali soluzioni alternative intramurali possono essere oggetto di attenzione da parte del Legislatore sul tema del'affettività in carcere come le S.S.L.L., sono a conoscenza, non si limita soltanto alla sfera sessuale. Al riguardo, appare utile sottolineare i riflessi favorevoli su l'ordine, la disciplina e la sicurezza intramurali che possano conseguire da tale politica penitenziaria trattandosi di scelte che affrontando bisogno primari della persona ne agevolano l'inserimento un contesto sociale, il carcere, esposto a forti tensioni emotive". Detta richiesta formale, prima in tal senso, veniva operata dal DAP, sulla scorta dei un progetto di legge n. 3331 del 13 giugno 1996, il cui primo firmatario era l'On. le Pisapia, sopra meglio esposto e citato.

In vero, pochi furono i Direttori che diedero seguito alla richiesta. Nel corso della XIII°, legislatura il tema dell'affettività in carcere e della sessualità, ebbe una profonda accelerata nel dibattito degli addetti ai lavori (cfr. proposte Folena e Pisapia) e tra i mass media, anche in virtù dell'impulso dell'allora Capo del Dipartimento, dottor Alessandro Margara; questi propose un nuovo Regolamento di Esecuzione penitenziaria, redatto in collaborazione con l'allora Sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone. Tal progetto di nuovo Regolamento, all’art. 61, comma 2, lettera c), disponeva la possibilità da parte della Direzione dell' istituto di pena di “autorizzare i condannati e gli internati a trascorrere un periodo di tempo fino a ventiquattro ore continuative con le persone indicate alla lettera b) in apposite unità abitative, da realizzare all’interno degli istituti; il personale della Polizia penitenziaria effettua la Sorveglianza esterna di tali unità abitative, con la possibilità di effettuare controlli o interventi all’interno se si verificano situazioni che lo richiedono”. Il comma 3 dello stesso art 61 prevedeva che :“le autorizzazioni di cui alla lettera c) del comma 2 possono essere concesse se la pena detentiva ha durata maggiore di sei mesi e non possono superare complessivamente il numero di dodici l’anno”. Segnatamente, questa proposta di Regolamento di esecuzione penitenziaria segnava una svolta copernicana nella concezione dei rapporti affettivi con la famiglia [29]; in occasione nell’audizione alla Camera dei deputati dell’11 marzo 1999, lo stesso Margara dichiarò che il tema dell’affettività nell'ambito della famiglia ben poteva e dove assurgere ad "uno degli elementi del trattamento previsto dall’articolo 28 della legge penitenziaria...omissis... vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà".

E, ancora, aggiungeva, veniva prevista la possibilità che i rapporti con la famiglia fossero mantenuti in forma diversa dai colloqui ordinari; tra le modalità diverse proposte, “una di esse è la visita, vale a dire un colloquio in ambiente senza separazioni, con possibilità di spostamento, come oggi avviene in molte aree verdi presenti in numerosi istituti italiani; un altro aspetto è rappresentato da una sorta di permesso interno, rilasciato dal Direttore [30], che consente di fruire di incontri con i propri familiari in ambienti separati dai colloqui”.Tale progetto di riforma del Regolamento di esecuzione penitenziaria, prevedeva la visita in ambienti senza separazioni, con possibilità di consumazione di un pasto in compagnia dei congiunti e di spostamento in aree verdi. Un aspetto inedito ed innovativo era rappresentato da una sorta di "permesso interno" che consentisse al ristretto di incontrare i propri familiari in ambienti diversi dalle sale-colloquio tradizionali (a seguito dell'individuazione o la creazione di ambienti, interni all'Istituto penitenziario) denominati " unità abitative familiari", nelle quali il detenuto poteva essere autorizzato a rimanere per un massimo di ventiquattro ore con la moglie ed i figli, ricreando un momento di vita ed unità familiare; in tale ambito era naturalmente compreso anche l'aspetto della sessualità coniugale.

Ben si comprende la portata dirompente di tale proposta il cui obiettivo era quello di tutelare, in primis, l'affettività lato sensu, prevedendo ambienti più vivibili (come le più amene aree verdi), ove era possibile consumare pasti insieme e trascorrere tempo ai propri familiari, e, in secundis, il "diritto" alla sessualità delle persone ristrette in strutture carcerarie, non inteso come diritto illimitato di esplicazione della propria personalità, ma declinato quale promanazione del rapporto affettiva con il proprio "coniuge", al fine di consolidare il rapporto, anche fisico e sessuale, di coniugio [31]. Tale progetto fu riconosciuto legittimo dall’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, ma non superò il vaglio del Consiglio di Stato (in sede consultiva) che ne diede valutazione negativa con parere n. 61 del 2000 a seguito del quale dalla bozza di regolamento furono stralciate talune proposte di disposizioni.

Le obiezioni del Consiglio di Stato si basavano sotto due ordini di questioni, non tanto di merito, quanto, prima facie formali e procedurali: si rilevava, infatti, che "le scelte proposte nel nuovo regolamento non potessero essere legittimamente effettuate in sede regolamentare attuativa o esecutiva, in quanto "postulano piuttosto l'intervento del Legislatore, al quale solo spetta il potere di adeguare sul punto una normativa penitenziaria che sembra diversamente orientata" [32] rimarcando il “forte divario fra il modello trattamentale teorico”(prefigurato nel nuovo regolamento proposto) e l’inadeguatezza del “carcere reale”. L'intervento, volto a dare la soluzione al problema di una vita affettiva in carcere (senza preclusione della sfera sessuale) era apparso non meramente esecutivo della norma primaria e, per certi versi, in contrasto con la stessa; la sentenza de qua, nell'esprimersi sullo schema di regolamento aveva rilevato, appunto, che le proposte novatrici non potessero essere effettuate legittimamente in sede di regolamento attuativo o, comunque, in sede esecutiva poiché "postulano piuttosto il responsabile intervento del Legislatore, al quale solo spetta il potere di adeguare sul punto una normativa penitenziaria che sembra diversamente orientata". Si ritenne opportuno rinviare l'introduzione di norme e disposizioni esplicative del diritto all'affettività a scelte legislative e non al nuovo Regolamento Esecuzione della Legge del 1975: “nel silenzio della legge”, si disse, “il diritto all'affettività non è scelta che possa essere legittimamente effettuata in sede regolamentare, attuativa o esecutiva”. [33]

§ 1.2 Intervista al dott. Mauro Palma, ex Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura.

D. Nella Sua esperienza di ex Presidente del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, può descrivere alcuni esempi di esplicazione del diritto all'affettività e, distintamente, alla sessualità che maggiormente l'hanno colpita?
R. La questione che mi ha più favorevolmente colpito in molti paesi dove negli Istituti penitenziari sono previste visite di tipo affettivo e familiare, senza alcune supervisione, è la semplicità con cui la questione era stata affrontata e la normalità del loro svolgersi.
Mi riferisco a situazioni dove sono stati approntati alcuni “appartamentini” dove i detenuti possono incontrare il proprio partner e anche i figli per una giornata e mezza o anche per un weekend, conducendo una vita normale all’interno, garantendo la pulizia dei locali e il loro mantenimento e sottoponendosi volontariamente ai dovuti controlli prima e dopo tale soggiorno. Dove tutto è più naturale, diventa naturale l’atteggiamento professionale anche degli operatori che, in tali Paesi sono dei sostenitori del sistema perché questo permette la diminuzione di tensione nella quotidianità, il mantenimento dei legami affettivi e fornisce anche un ulteriore strumento per incentivare al buon ordine in Istituto.

D. Può descriversi l'esplicazione di tali diritti in alcune realtà visionate negli Stati membri del Consiglio?
R. Gli esempi migliori li ho visti in Danimarca, dove la vita detentiva è centrata sulla responsabilizzazione del detenuto e sulla necessità che egli sia artefice del proprio percorso di rieducazione sociale, sotto la guida degli operatori. Il detenuto gestisce la gran parte della propria organizzazione quotidiana, dal provvedere al proprio cibo, sulla base di una somma di denaro a lui fornita da parte del carcere che gli permette di fare acquisti all’interno, alla costruzione di un insieme di crediti che gli permetta poi di lavorare all’interno o all’esterno del carcere sulla base di un percorso da lui progressivamente costruito, fino alle gestione delle varie aree, inclusa quella dedicata agli incontri con il proprio partner. Esempi anche positivi li ho anche trovati in Spagna, dove tali colloqui sono la normalità mentre in alcuni dei moduli in cui è suddiviso ogni Istituto si va sperimentando una forma di organizzazione analoga a quella sopra descritta per la Danimarca. E ancora nei Paesi nordici. Impostazione al contrario che lascia perplessi è quella in cui la possibilità d’incontri senza supervisione si riduce a mere stanze dove trascorrere liberamente un paio di ore con il partner: esperienza, questa, che ha una funzione molto limitata, anche se importante per l’equilibrio psico-fisico del detenuto, e che spesso rischia di avvenire in condizioni poco rispettose della persona che dall’esterno va a visitare il proprio partner. Non a caso in situazioni di questo tipo alcuni si rifiutano di avere tali incontri. Si tratta comunque di una minoranza di casi.

D. A Suo parere, il diritto all'affettività e il diritto alla sessualità per le persone private dalla libertà personale sono, ad oggi, da considerarsi dei "diritti inviolabili"? Quali norme potrebbero essere invocate per rendere questi 'diritti' agiti e attivabili presso la Corte di Giustizia europea?
R. Nel considerare i diritti fondamentali, dobbiamo tenere sempre presente l’articolo 3 che vieta trattamenti inumani o degradanti e, quindi, trattamenti che possano deteriorare lo stato fisico e psichico della persona in modo irreversibile.
Per esempio, una persona che non ha mai la possibilità (per anni) di vedere oltre pochissimi metri di spazio visivo vede lesa la sua capacità visiva e questo può anche risultare, insieme ad altri fattori, un trattamento in violazione dell’articolo 3 (anche se la Corte è stata sempre molto attenta a non considerarlo come fattore unico, ma come componente di altri fattori). Detto questo, va osservato che non si può sostenere che l’assenza di visite di tipo coniugale sia “di per sé” una violazione di un diritto fondamentale. Piuttosto, è possibile considerare il tema sotto una altro profilo ed è quello del diritto del coniuge/partner in relazione all’articolo 12 (diritto al matrimonio e diritto a formare una famiglia) della Convenzione europea per i diritti umani, letto insieme all’articolo 3 e all’articolo 8 (diritto alla vita affettiva). Per il matrimonio e la formazione della famiglia si tratta di diritti interrelati e mentre la legge nazionale può imporre restrizioni legali ad alcuni diritti, essa non può tuttavia restringerli a livello tale da far perdere la loro essenza. Così la Corte nel caso Hamer v/ Regno Unito (un caso relativo all’inseminazione artificiale) ha spostato la tradizionale attenzione sul diritto del detenuto all’affettività e ha centrato l’attenzione sul diritto del coniuge che è titolare del secondo aspetto dei diritti enunciati nell’articolo 12, quello a costruire una famiglia; diritto di cui il coniuge è titolare e tale da non poter essere compresso. Questa via può aprire verso interpretazioni future sul diritto del coniuge ad avere incontri anche di natura sessuale con il proprio partner.

D. Atteso che in Italia non vi è una diversità normativa, penitenziaria della "diversa sessualità" o dell'omosessualità, può indicarmi alcune realtà da Lei visitate in cui l'omosessualità viene considerata e/o tutelata con accortezze detentive o trattamentali particolari, sia in positivo che in negativo?
R. Nei Paesi di area nord-europea l’incontro con il partner anche dello stesso sesso è previsto e possibile. Anche se molto spesso non praticato dai detenuti per intuibili motivi di “stigma” all’interno dell’istituzione in cui vivono. Di fatto è un problema che non trova vere pratiche nel contesto detentivo.

D. Può descrivermi alcune realtà in cui la transessualità viene considerata e/o tutelata con accortezze detentive o trattamentali particolari?
R. La transessualità, almeno nella mia esperienza, è un tema molto difficile e che finisce per essere ovunque affrontato con sezioni ad hoc in alcuni Istituti. Queste sezioni rischiano di essere dei luoghi di scarsa comunicazione sociale e soprattutto dei luoghi dove le persone – che sono effettivamente “vulnerabili” nel contesto detentivo – vedono tramutare la propria vulnerabilità in condizioni di semi-isolamento. Spesso si tratta di mondi chiusi che, anche nei molti casi dove la situazione è gestita con il dovuto rispetto, hanno scarso dialogo con il complessivo mondo detentivo e spesso anche con la socialità esterna. Le accortezze migliori si hanno nei casi in cui viene offerto un supporto psicosociologico adeguato (anche considerando che spesso questo ambiente ha zone di sovrapposizione con quello dell’esperienza di sopraffazione e sfruttamento) e in cui vengono previste parti delle attività in comune con altre aree detentive, seppure sotto un adeguato controllo.

D. Come mai, secondo Lei, dalla proposta di legge Margara in poi sino all'ultima, dell'On. le Della Seta, i progetti di legge circa il diritto alla sessualità (rectius, colloqui senza controlli visivi) in carcere non hanno registrato interesse positivo degli addetti ai lavori e dell'opinione pubblica?
R. I limiti nel caso italiano e di un’altra minoranza di Paesi ha tre aspetti. Il primo riguarda la complessiva cultura, esterna al carcere, che vede la sessualità come un premio e non come una normale funzione umana. Il secondo nel sempre presente desiderio di imporre qualche restrizione in più alla privazione della libertà, non assumendo pienamente il principio che la pena è la privazione della libertà, mentre si pensa che la privazione della libertà è il presupposto per ulteriori afflizioni. Questo è un nodo culturale irrisolto nella mentalità di molti, fuori e dentro il carcere. Il terzo aspetto è nell’errata visione della professionalità di chi opera nel carcere, soprattutto nell’ambito della sicurezza perché spesso viene presentata tale previsione come una diminuzione del loro ruolo professionale. Ricordo, infatti, le proteste della Polizia penitenziaria all’epoca della proposta avanzata da Margara: al contrario, laddove le visite senza controllo sono attuate con normalità, ho visto il pieno consenso degli operatori penitenziari – quelli dell’area della sicurezza inclusi – che vedevano in tale possibilità un miglioramento del clima complessivo di vita all’interno del carcere e uno strumento para-disciplinare utile al mantenimento dell’ordine complessivo. In Italia inoltre una sessuofobia diffusa ha aggiunto, e continua ad aggiungere, ulteriori freni a tale proposta.

D. Qual è la prospettiva e l'opinione sulla tutela di tali "diritti" che Lei ha e quale l'ottica del Comitato contro le Torture?
R. Credo che tale “necessità” e tale “interesse legittimo” di ogni detenuto stia evolvendo in termini di venire nel medio diritto configurato come diritto. Credo però che il diritto segua sempre le pratiche – le buone pratiche – attuate. Il fatto che tali visite avvengano nella maggioranze dei Paesi del Consiglio d’Europa senza che sorgano problemi, ma che, al contrario, si rivelino utili alle gestione del carcere oltre che alla rieducazione del detenuto al rispetto della propria e dell’altrui persona, indichi il percorso da seguire. Ampliare le esperienze per poi un giorno vedere tutto ciò normato come diritto.

§2. Le affettività ristrette. Aspetti psicologici e profili operativi

§ 2.1 S-prigionare gli affetti  - Il sesso recluso: i desideri tra le sbarre.

Il proposito di esplorare la dimensione affettiva ed i suoi correlati sessuali e relazionali, di analizzarne gli aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali, nonché di approfondire lo studio delle principali implicazioni di ordine fisico e psichico che la mancanza di rapporti sessuali in ambito carcerario genera sul corpo recluso, solleva problematiche profonde ed attuali, rimaste allo stato ancora vive ed irrisolte: si può dunque amare all’interno di un carcere?
Dell’argomento se ne discute in Italia dagli anni Trenta, ma né le leggi né i regolamenti penitenziari hanno individuato soluzioni percorribili. All’interno degli Istituti, infatti, l’affettività rimane confinata in 72 ore di colloqui all’anno (si tratta dell’unico contatto diretto del detenuto con i propri affetti, l’unico ponte con quella parte di sé significativa, dove umanità e dignità dovrebbero poter continuare a sopravvivere), cui si aggiungono dieci minuti a settimana di telefonate.
La normativa penitenziaria, dunque, pur riconoscendo il valore dei rapporti affettivi, in realtà non riesce a garantire a pieno quel complesso di relazioni, spazi ed opportunità per l’esercizio del diritto all’affettività: aspetti questi ritenuti fondamentali per motivare, consapevolizzare e sostenere il detenuto.

E, interrompere o comunque limitare il flusso dei rapporti umani significa separare l’individuo “dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto [34]”.
I rapporti con la famiglia costituiscono invece, un elemento centrale del trattamento rieducativo; la famiglia costituisce difatti, un'importante risorsa: sia nell'immediato, con l'assistenza affettiva e materiale al soggetto recluso; sia nel prosieguo della detenzione, durante la quale rappresenta sicuramente il punto focale di contatto con la società esterna; sia soprattutto nella fase precedente alla liberazione, in quanto elemento da cui ripartire per un futuro reinserimento.
Ma, se l’affettività e la sessualità, nella vita “normale” di una persona libera, possono essere scelte, agite e vissute, sia pure con sfumature diverse ma in un contesto di libero arbitrio, la situazione cambia radicalmente nell’esperienza delle persone private della libertà personale.

§ 2.2 La sessualità negata:conseguenze psico-fisiche della privazione sessuale.

Il sesso in carcere è un argomento ignoto e volutamente inesplorato: “la privazione sessuale non ha neanche bisogno di essere nominata, immaginata nei codici, descritta nei regolamenti, per essere imposta come costitutiva della prigionia; essa appartiene alla necessaria afflizione, di più, essa è il cuore dell’afflizione [35]”.

La sessualità costituisce l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti a non essere normativizzato, quasi che l’afflizione della privazione sessuale deve necessariamente accompagnare lo stato di detenzione.
In realtà, nella castità forzata vi è una violenza istituzionale che nessuna legge ha formalmente autorizzato.

Il problema della sessualità in carcere merita, invece, attenzione perché vi confluiscono e l’animano gli istinti, le sensazioni, le emozioni, i sentimenti intimamente radicati in ogni uomo.
La sessualità è un ciclo organico, un impulso fisiologicamente insopprimibile, un bisogno di vita.

È elemento costitutivo della struttura esistenziale dell’uomo, è espressione personale, è dualità, comunicazione; rappresenta una dimensione naturale, di scambio: negarla equivale a negare la persona. E, è risaputo, nel deserto della comunicazione emotiva nascono distorsioni, aggressività, dolore, abiezioni, solitudini, patologie (della rinuncia o della degenerazione).

Le pulsioni primarie, legate alla libido, costituiscono momenti fondamentali della realtà biopsichica di ognuno: la loro negazione o frustrazione può condurre a forme di sessualità deviata, ad alterazioni anche patologiche.
La sessualità inibita, avulsa da componenti affettive interne, può persino arrivare ad erotizzare l’intera vita del detenuto, diventando una vera e propria ossessione, esasperata da fantasie che alla lunga possono divenire quasi maniacali.
Il recluso, già impoverito dallo stato di detenzione si ritrova quindi “simbolicamente castrato dal suo celibato involontario”, da una castità coatta che lo porta a percepirsi come un essere asessuato; per reagire all’astinenza forzata finisce così per ritagliarsi un proprio mondo sessuale: il sesso immaginato e negato, ha come uniche alternative il sesso solitario o un’omosessualità indotta dalle circostanze e per questo connotata da innaturalità, oltreché da degrado ed avvilimento personale.
La pratica dell’autoerotismo, in cui l’immaginazione cerca di sostituire lo spazio vuoto dell’affettività, è pressoché automatica (soprattutto dopo che il trascorrere del tempo cancella le memorie sensoriali del proprio vissuto erotico): ma da iniziale terapia psicofisica, con l’andare del tempo si trasforma in nevrosi.

L’omosessualità invece, anch’essa in larga parte diffusa, più che una scelta consapevole appare come un effetto dell’adattamento al contesto carcerario: il detenuto sottratto allo scambio affettivo eterosessuale, organizza le proprie strategie di sopravvivenza – non sempre coscienti – secondo i codici ambientali, fornendo le risposte adattive più adeguate al contesto. Questo pregiudica, destrutturandola, l’identità individuale e sociale del soggetto [36].
Nulla come l’immaginario e le pratiche sessuali sviluppatesi in carcere hanno il potere di disorganizzare la personalità dei soggetti ristretti [37].

Più che di omosessualità, come scelta privilegiata e definitiva, è comunque più opportuno parlare di pratiche omosessuali compensatorie [38]: non si tratta di un cambiamento dell’identità sessuale, bensì di un adattamento forzato alla compressione dell’istinto sessuale.
Si verifica così il fenomeno della cosiddetta “omosessualità temporanea o indotta”. Tali esperienze non hanno poi in genere alcuna conseguenza sul comportamento sessuale una volta finita la pena: per lo più i detenuti tornano senza alcun problema a rapporti esclusivamente eterosessuali.
La sessualità ha una forza immane: prima o poi si libera mutando vesti, abitudini, naturalità.
Nei primi giorni, nei primi mesi di carcere, comunque, il sesso non esiste. Esiste infatti, una priorità di inquietudini e di sensazioni da gestire e metabolizzare: le procedure di ammissione, i primi colloqui con l’avvocato, la preoccupazione per la propria situazione burocratico- giudiziaria sono fattori che richiedono l’impiego della propria energia sessuale in direzioni diverse dall’“eros”; vi è poi il pensare alla famiglia, quando questa è presente, gestendo il senso di colpa che ne deriva o, in caso contrario, vi è l’abituare la propria persona alla inevitabile solitudine che la situazione detentiva implicherà.

Questa fase di adattamento, complessa ed al tempo stesso delicata, impegna quindi il detenuto per un periodo considerevole dall’ingresso in carcere, per cui si può parlare di “asessualità iniziale”.
Dopo qualche tempo l’individuo gradualmente prende coscienza di essere privato anche del sesso e dell’amore, oltre a tutto il resto [39].

La natura con la sua intrinseca, inarrestabile potenza, dopo essere stata imprigionata, umiliata, ridotta a monologhi solitari incomincia, dunque, a muovere i suoi passi lavorando contro ogni volontà, disintegrando e neutralizzando le diverse barriere ed ambientando la sessualità sul terreno che è costretta a vivere.
Negli ambienti femminili le conseguenze derivanti dalla privazione delle relazioni affettive sono ugualmente gravi ma presentano caratteristiche diverse.
Le donne, per loro natura e per condizionamenti culturali, non hanno la stessa ansia o tensione degli uomini per la privazione del sesso, essendo per lo più orientate a percepire il sesso in funzione dell'amore, e non viceversa.
La sessualità è vissuta dal mondo femminile più come esigenza di rapporti affettivi e sentimentali, che come bisogno di rapporti fisici.
Negli istituti femminili i rapporti omosessuali sono spesso vissuti come relazioni pseudo familiari: molte detenute vivono in coppia con scoperti legami affettivi, esercitando veri e propri ruoli familiari, prendendosi cura della cella come se fosse il loro habitat domestico, abbandonandosi a scene di gelosia.

L’affettività, come esiste «fuori» esiste anche in carcere, e nonostante abbia delle notevoli limitazioni, per ovvi motivi, ha comunque le sue espressioni che, se capite e valorizzate, e magari non represse o criticate possono persino, diventare una risorsa.
Sarebbe necessario un carcere capace di restituire al detenuto le relazioni e gli spazi affettivi che lo motivano, lo responsabilizzano e lo sostengono in un percorso di reinserimento. Percorso che non può che fondarsi sul riconoscimento della dignità della persona e della inalienabilità dei suoi diritti, posto che il carcere non deve essere afflizione aggiuntiva alla perdita della libertà.
Anche questo è un segnale importante nella prospettiva di un carcere più civile ed umano.
Il detenuto viene invece, rinchiuso, viene rinchiuso il suo corpo, ma anche la sua stessa volontà, i suoi stessi desideri.
In prigione il corpo è vissuto come l'ultima reclusione.
Ma, in carcere si va perché si è puniti e non per essere puniti.
Sessualità in carcere e “celle dell’amore”: la necessità di uno spazio fisico, ma soprattutto mentale.
La pena è la sottrazione della libertà, è patimento che basta.
“Qualunque afflizione in più toglie agli uomini reclusi la dignità, la speranza, la stessa umanità, dunque, non castiga il delitto da essi commesso a favore di chi lo ha subito, ma è un delitto contro di essi che non avvantaggia nessuno [40]”.
Ai detenuti non si può negare il diritto di amare e di essere amati. Il nucleo affettivo del reo va posto al centro dell’esecuzione penale, in quanto rappresenta una vera e propria risorsa.
Il muro, la porta di una prigione non possono cancellare o soffocare necessità, sentimenti, istinti profondamente radicati in ogni uomo.
E la questione non è soltanto ideale, ma pratica, poiché la “limitazione” dell'affettività aggiunge al carcere una dimensione patologica di rinunce e perversioni, inquietudini, tensioni, angosce, violenze, malattie psichiche e fisiche che non scompaiono solo facendo finta di non conoscerle.

Sebbene il carcere ha sempre posto resistenza a chi ha voluto trasformarlo, il carcere dovrebbe mutare e ristrutturarsi.
Eppure, chi sa di carcere sa che la pena che in esso si sconta, pena che in esso si soffre, per usare un linguaggio di maggior senso comune, non è mai solo pena privativa della libertà.
Il carcere ordina la vita quotidiana di coloro che vi sono ospitati secondo le necessità del suo governo prima che dei loro bisogni.
“È in sé nemico dell’individualità, della soggettività di chi viene rinchiuso, della differenza che fa di ogni essere umano ciò che è in rapporto alla sua storia e a quella altrui [41] ”.
La coercizione, quindi, non è solo nel muro di cinta, ma nelle prescrizioni che scandiscono il tempo delle persone detenute. Prescrizioni scritte e non scritte, necessità affermate normativamente o semplicemente consolidatesi nell’ordinamento materiale che regge l’istituzione.
Si suole affermare, con evidente enfasi, che il detenuto serba intatta la titolarità e la facoltà di esercitare tutti quei diritti che non siano concretamente in contrasto con la privazione della libertà.
Affermazione idealisticamente esaltante, ma sostanzialmente non corrispondente alla reale condizione di chi, per il fatto stesso di essere stato privato della libertà personale, diviene oggetto di governo altrui e si trova conseguentemente nella condizione di dover dipendere, per il soddisfacimento di ogni più elementare esigenza, dall’iniziativa o, quanto meno, dal consenso di chi è preposto alla custodia [42].

Appare così evidente come l’individuazione di specifici diritti del detenuto e la predisposizione di adeguati strumenti di tutela (come quelli relativi alla tutela dei rapporti familiari e sociali) costituiscono aspetto essenziale di una corretta e moderna gestione penitenziaria.
L’affettività, poi, incontra i limiti propri della restrizione. La perdita della libertà personale, nei fatti e non per volontà di legge, ne riduce significativamente l’agibilità in concreto [43].
Una sorta di prezzo, si sostiene, che nei fatti si finisce per pagare se si vuole effettivamente privare taluno della libertà personale. In questo senso si parla di diritti condizionati, condizionati appunto da quanto sul piano dell’effettività materiale consegue alla perdita della libertà personale.
Parlare oltretutto di affetti in carcere, e ancor di più di sesso in carcere, è questione che suscita imbarazzi, critiche, polemiche, facili ironie [44].
La questione poi, pone senz’altro di fronte ad un problema etico: è giusto concedere momenti di piacere a chi, con le sue azioni, ha causato dolore ad altri? A questa domanda sarebbe sin troppo semplice rispondere in modo istintivo, ognuno con la propria sensibilità e le proprie emozioni. Sarebbe semplice, ma al contempo sbagliato ed inutile, perché un tale atteggiamento non suggerirebbe alcuna soluzione adeguata; anche se bisogna pur ammettere quanto sia difficile trattenere a volte la propria indignazione di fronte a certi delitti: non è quindi del tutto incomprensibile l’atteggiamento di chiusura e di estrema rigidità dell’opinione pubblica. Certo, rapporti familiari distrutti, privazione di ogni momento di tenerezza e di affettività con il coniuge recluso, l’allontanamento dai figli o dalle famiglie per il protrarsi di detenzioni talvolta lunghissime, possono addirittura apparire una giusta punizione per chi ha infranto la legge, soprattutto in questi tempi in cui una situazione di generale incertezza sembra dare più forza a coloro che pretendono pene più severe e meno tolleranza. In realtà questa mentalità dimentica il tenore dell’art. 27, comma 3 della Costituzione, in cui si sancisce che lo Stato e la comunità civile hanno il dovere di proporre percorsi, alternative ed opportunità trattamentali socialmente inclusive che possano efficacemente aiutare il detenuto a modificare i propri atteggiamenti relazionali rendendoli psicologicamente e funzionalmente più adeguati e che possano innescare un processo di reale rivisitazione critica in ordine ai crimini commessi, favorendo un adeguato inserimento affettivo e sociale a pena espiata.
La tematica costituisce, per di più, argomento rispetto al quale è difficile declamare certezze (essendo il tutto da una parte di sicura problematicità e dall’altra di difficile eventuale risolvibilità), ma è tuttavia possibile incrinare quelle convinzioni che ingessano i processi di trasformazione e paralizzano le riforme.
Non esistono comunque, allo stato attuale, risposte concrete ed efficaci in sede operativa, ma solo tentativi di approccio per tentare di portare a risoluzione il problema.
E’ evidente, tuttavia, che coltivare l’affettività (e dunque anche la sessualità [45]), è quanto di più problematico ci sia all’interno del muro di cinta: carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili, perché se c’è qualcosa che nega la confidenza, la libertà di espressione dei sentimenti, questo è proprio il carcere.
Il ruolo della famiglia nell’assistenza al detenuto incontra, poi, un limite oggettivo nella stessa natura del regime carcerario, che evidentemente non consente quella facilità e frequenza di contatti umani che richiede un rapporto di assistenza. Anzi, il trattamento rieducativo, del quale un elemento qualificante è costituito proprio dai contatti del detenuto col mondo esterno e, particolarmente, con la famiglia (art. 15 O.P.), si presenta in una posizione antagonistica alla tendenza strutturale della istituzione carceraria, che (più di ogni altra istituzione totale) tende a determinare un adeguamento impersonale del singolo detenuto alle prevalenti esigenze di ordine e di sicurezza.
A ciò si aggiunga la situazione reale delle carceri nel nostro Paese, caratterizzata dal cronico problema dell’edilizia carceraria, dal sovraffollamento, nonché dalla carenza di personale penitenziario.
La moderna criminologia ha però dimostrato come incontri frequenti e intimi con le persone con le quali vi è un legame affettivo abbiano un ruolo insostituibile nel difficile percorso di recupero del reo: da qui l'esigenza di avvicinare, per quanto possibile, il recluso al mondo esterno ed, in particolare, a quello dei suoi affetti. Avere la possibilità di “costruire e ricostruire(si)” sin da dentro, una vita dignitosa fatta di lavoro, di crescita personale e di ravvedimento, sorretta da solidi legami affettivi e familiari, permetterebbe di creare una “rete” di sostegno affinché il detenuto, una volta pagato il suo debito con la giustizia, uscendo non trovi il vuoto attorno a sé.
Poi, più nello specifico, c’è il problema del sesso.
Troppi sono gli ostacoli che si frappongono ad una serena discussione del problema: non si tratta delle sole difficoltà organizzative o procedurali legate alla predisposizione di appositi spazi per gli incontri intimi del detenuto con i propri cari; l’ostacolo più grande è soprattutto di tipo morale: l’idea che la sessualità, invece che rappresentare una dimensione naturale, necessaria ed ineliminabile della persona, sia all’opposto una concessione straordinaria, un cedimento pericoloso e peccaminoso fatto al vizio, che porta irrimediabilmente ad uno svuotamento della pena.
Il carcere svela questi sentimenti.
Il problema quindi è, in primo luogo, culturale: gli affetti per essere rispettati necessitano di spazi adeguati, di uno spazio fisico, certo, ma soprattutto mentale.
Nell’opinione pubblica stenta a radicarsi l’idea che per i detenuti anche il carcere più moderno, fornito di tutti i comfort (doccia, televisione, giornali) rappresenti, comunque, una sofferenza indicibile.
Stenta a radicarsi l’idea che il carcere sia unicamente il muro di cinta, la privazione della libertà, e che per rendere più efficace la pena non sia necessario aggiungere altra afflittività a questa condizione umana.
Bisognerebbe, quindi, comprendere che, conservare e rispettare tutti i diritti del cittadinodetenuto (e tra questi quello fondamentale all’affettività) non è né una concessione né una stravaganza, ma un dovere dell’Amministrazione. Nella prassi, invece, spesso ciò è un’eccezione.
Eppure, il carcere che rispetta i diritti è l’unico terreno possibile per far camminare la rieducazione.
La società si lamenta del trattamento riservato ai detenuti, ma sbaglia obiettivo. E finisce per confondere diritti con privilegi.
Invece, nei paesi, ad esempio, in cui il “sesso in carcere” è una realtà già consolidata, è diffusa nell’opinione pubblica la consapevolezza della positiva influenza che i rapporti affettivi hanno sul detenuto e, di riflesso, sull’intera società.
A tal proposito, diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative volte a garantire l’esercizio — in ambito carcerario - del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei.
In particolare, in Canton Ticino, ad esempio, l’affettività può esprimersi attraverso una serie articolata di colloqui ed incontri intimi per i detenuti.
Si va, dal colloquio gastronomico che, al fine di recuperare sensazioni di quotidianità rigeneranti, consente alla persona detenuta di consumare il pasto di mezzogiorno con le sue visite (ossia in compagnia di familiari o amici), al colloquio Pollicino, con cui ci si propone di mantenere i rapporti tra la persona privata della libertà personale ed i propri figli.
Si ha, poi, il congedo interno con cui il detenuto ha la possibilità di trascorrere momenti d’intimità con i propri familiari o amici per sei ore consecutive in una casetta situata nella zona agricola del carcere: una zona immersa nel verde, non lontana dall’Istituto e protetta da una recinzione, al di fuori del perimetro di alta sicurezza.
“La Silva”, così è chiamata questa casa degli affetti, veniva prima utilizzata dal corpo di Polizia Penitenziaria per le proprie riunioni, ora, è diventata una prospettiva per tutti i detenuti.
Si tratta di un piccolo appartamento dotato di cucina con camino, camera da letto, due bagni con doccia: un ambiente assolutamente familiare.
Uno spazio che consente non solo incontri intimi, ma anche la possibilità di cucinare e consumare insieme un pasto.
La “disposizione interna in merito alle condizioni ed alle modalità per il congedo interno” disciplina dettagliatamente ogni aspetto.
In particolare, è previsto che: può richiedere tale congedo il detenuto privato della libertà personale da almeno 24 mesi, che non abbia beneficiato di congedi negli ultimi due mesi, che abbia tenuto negli ultimi tre mesi una condotta esemplare ed abbia lavorato con impegno.
Possono accedere alla Silva al massimo tre adulti, oltre ai bambini, purché siano familiari o persone ammesse al colloquio ordinario.
I visitatori ed i detenuti vengono accompagnati alla “Silva” separatamente.
I familiari, all’entrata, firmano un documento in cui si dichiarano d’accordo nel trascorrere le ore previste con il detenuto, alle condizioni stabilite dal regolamento, esonerando la Direzione da ogni responsabilità.
Una volta insieme all’interno della struttura, la porta d’entrata viene chiusa a chiave dall’agente in ronda esterna. È garantita la più totale intimità: l’agente, infatti, deve mantenersi ad una distanza di almeno 15 metri, senza possibilità di vedere all’interno.
Al detenuto ed ai suoi ospiti è tassativamente vietato manipolare le inferriate di sicurezza; in caso contrario, il colloquio viene immediatamente interrotto ed avviata l’inchiesta per tentata evasione.
All’interno della casetta si trova un telefono, con cui, in caso di necessità, si potrà prendere contatto con il personale di vigilanza.
Il personale, inoltre, effettua saltuari controlli telefonici: nel caso nessuno risponda, viene eseguita un’ispezione senza ulteriori avvertimenti.
Alle persone che usufruiscono del congedo è richiesto il riordino della casetta una volta terminato l’incontro.
Il Canton Ticino, ha così trovato una sua soluzione al delicato problema dell’affettività e ciò probabilmente grazie al fatto che si opera in una realtà di piccoli numeri.
Come non riconoscere che in Italia l’incapacità di muoversi su questo fronte dipende anche dal grave problema del sovraffollamento.
Negli ultimi dieci anni si è registrato un solo caso di fuga durante un congedo interno.
Ed ancora, ad esempio, in Spagna, per consentire ai detenuti di mantenere un legame con i propri affetti, nel ’91 sono state introdotte, visite riservate – c.d. “Vis a Vis”- da parte di familiari ed amici. Non si tratta di un premio, ma di un diritto per tutti i reclusi, anche per chi si trova in regime “chiuso” o in custodia cautelare: non sono quindi richiesti requisiti di ammissione, salvo eventuali esclusioni, in caso di sanzioni molto gravi, per ordine del Direttore del carcere.
La legge autorizza due visite al mese, in genere di due ore ciascuna. Gli incontri, si svolgono, senza sorveglianza, in apposite stanze dotate di tavoli, sedie, letto matrimoniale e bagno.
È previsto un “Vis a Vis familiare” con parenti ed amici ed un “Vis a Vis intimo” con il coniuge o il partner. Gli incontri intimi sono possibili anche tra persone dello stesso sesso.
Riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività rappresenterebbe al contrario, in Italia, un passaggio culturale non scevro di difficoltà, indigesto [46].
Invece, significherebbe restituire ai detenuti un’opportunità, non solo sessuale, ma anche e soprattutto affettiva e di dignità: ciò servirebbe a garantire quei legami, quella solidarietà, a difendere quel bisogno che i detenuti hanno di abbracciare una moglie, una madre, un figlio.
Ma poiché si tende sempre ad evitare o a marchiare in modo negativo le cose che danno fastidio o che comunque scandalizzano, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività” in carcere, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”.
Ciò che però ai detenuti manca è molto meno dal lato pratico: serve la possibilità di non recidere i legami, di non distruggere il proprio mondo relazionale ed affettivo, serve la speranza di non rimanere soli.
A tal proposito, però, bisogna tuttavia considerare i dubbi e lo scetticismo degli stessi soggetti interessati, nonostante vivano con sofferenza il problema della privazione sessuale.
E’evidente che molti non vorrebbero assolutamente isolarsi con la propria moglie o compagna in uno spazio che sempre carcere è, sapendo che fuori c’è qualcuno che “aspetta che si finisca”. La coppia si ritroverebbe ad essere condizionata nella sua stessa libertà di espressione.
Ancora più imbarazzante, per gli uomini, è pensare che tutti sanno qual è lo scopo per cui le loro donne entrano quel giorno.
La freddezza del luogo e delle modalità con cui si svolgerebbe il tutto, l’impossibilità di un dialogo autentico, renderebbero l’incontro umiliante, l’atto puramente meccanico perché non considerato più come un elemento della ampia relazione affettiva bensì come un fatto dovuto, privo di spontaneità.
L’incontro sarebbe limitato e limitante; rischierebbe di inaridire i rapporti.
Vanno poi considerate le perplessità degli operatori penitenziari ed in particolare della Polizia Penitenziaria.
Sul piano dell’operatività quotidiana è unanime il riconoscimento della effettiva sensibilità degli operatori per la relazione detenuto-famiglia; si rileva, tuttavia, come nella realtà penitenziaria spesso questa relazione non trovi però, l’ambiente più adeguato per esplicarsi, a causa delle carenze strutturali e di risorse umane.
Gli operatori riconoscono a se stessi l’investitura ad essere garanti e testimoni dei diritti dei detenuti, tra cui quello in discussione.
Il personale, da “custode di uomini” è diventato anche “custode dei diritti” delle persone detenute.
A livello operativo, poi, si riscontra la professionalità degli operatori nello svolgere tutte le attività regolamentate, quali le perquisizioni in occasione dei colloqui, ad esempio, o l’accoglienza dei familiari (ed in particolare dei minori), con umanità, attenzione e sensibilità.
Tuttavia, risulta comprensibile che, gran parte del personale di Polizia Penitenziaria non condivida il riconoscimento di un diritto alla sessualità da esplicarsi in ambito penitenziario a causa del rischio di svilimento delle funzioni cui normalmente è adibita.
Non è difatti possibile, allo stato attuale, sottrarre l’eventuale incontro agli ineliminabili controlli della Polizia Penitenziaria: il personale stesso verrebbe così adibito anche a custodia e controllo degli amori tra le sbarre, andando a svolgere compiti non propri.
Da un punto di vista utilitaristico, però, il riconoscimento di un “diritto all’affettività” avrebbe senza dubbio un ritorno in termini di vivibilità e di gestione penitenziaria.
Questa convinzione è stata di recente ribadita dall’Amministrazione Penitenziaria, in una circolare Dap del 24 aprile 2010, la n. 0377644, avente ad oggetto “Nuovi interventi per ridurre il disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per prevenire
fenomeni auto aggressivi”.
Secondo quanto previsto in circolare, andrebbe profuso il massimo impegno nell’adozione, anche in via sperimentale, di tutte le possibili misure, organizzative ed operative, atte a valorizzare, nei limiti della normativa vigente, gli spazi ed i momenti di affettività.
Occorrerebbe farsi carico di un nuovo modello trattamentale fondato sul mantenimento delle relazioni affettive, la cui mancata coltivazione, è risaputo, rappresenta la principale causa del disagio individuale e grave motivo di rischio suicidario.
L’esperienza della detenzione finisce, altrimenti, per compromettere anche l’unità dei nuclei familiari, come attestano le numerose procedure di separazione tra coniugi iniziate durante lo stato di detenzione e l’ancor più consistente numero di relazioni affettive che si interrompono.
Per tali ragioni, a detta dell’Amministrazione, sarebbe auspicabile ed opportuno elaborare progetti che, tenendo conto delle caratteristiche logistico-ambientali delle strutture e delle peculiarità della popolazione detenuta, facciano perno sulla valorizzazione dei momenti di affettività per rafforzare i percorsi trattamentali.
Ed il sesso, quale stimolo potente ed incoercibile di vita, convenientemente valorizzato, potrebbe servire, a fini penitenziari e sociali, quale efficace mezzo di rieducazione e riadattamento alla vita sociale.
Una avveduta disciplina (affatto sentimentale, o pietistica) mentre eviterebbe i danni, i pericoli e le degenerazioni dell'onanismo, della omosessualità indotta e dei numerosi corollari psicopatici annessi, potrebbe servire a tener saldi o a ravvivare i vincoli del detenuto con i soggetti che per lui rappresentano un punto di riferimento affettivo e di sostegno.
Oltre al valore penitenziario di trattamento più evoluto, in via preventiva non disprezzabile, contribuirebbe alla gestione dell’Istituto, attenuando le cause note o remote, di alcune manifestazioni violente di vita carceraria.
Il tema, comunque, in un contesto chiuso e totalizzante come quello carcerario, in primo luogo presuppone, da parte degli addetti ai lavori, una rilevante presa di coscienza delle difficoltà e dei limiti posti dal contesto stesso: limiti di natura pragmatico-organizzativa, vincoli ed incertezze di carattere legislativo e giuridico, oltre ad implicazioni psicologiche, emotive e relazionali.
Dunque, accanto alle idee, magari pregevoli e condivisibili in linea di principio, vi è la difficoltà di creare spazi ulteriori, per colloqui più intimi, in luoghi dove, è evidente che lo spazio manca anche per il semplice vivere quotidiano.
Nell’attuale quadro di emergenza economica e sociale, poi, risulterebbero difficilmente reperibili risorse da destinare alla realizzazione di spazi ad hoc all’interno degli Istituti penitenziari (si poteva, difatti, pensare alla possibilità di realizzare dei prefabbricati, da ubicare lungo il muro di cinta).
Ma volendo dare un “senso etico” anche all’architettura carceraria e, volendo “ripensare” e rivedere l’edilizia penitenziaria, al fine di assicurare sul piano logistico e strutturale la disponibilità di luoghi e spazi adeguati che possano consentire alle persone ristrette di coltivare in modo autentico e pieno le relazioni affettive con i propri cari, si potrebbero, concretamente, prendere in considerazione, per tali incontri, gli spazi ed i locali (ove esistenti) già presenti in Istituto, dotandoli del necessario mobilio (arredarle, dunque, con tavoli, sedie e divani letto) e relativo corredo.
Sarebbe, poi, opportuno riprodurre ambienti di vita familiare e prevedere, per tali visite, tempi ragionevoli sì da evitare riproposizioni automatiche di incontri finalizzati alla pura sessualità, i quali sarebbero ovviamente poco affettivi e prevalentemente consumatori.
Naturalmente non possono sottacersi i non trascurabili problemi che tali incontri, svincolati da ogni contestuale controllo, potrebbero generare sul piano del mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno dell’istituto [47].
Per alcuni, la previsione della possibilità per il detenuto di ricostruire, sia pure temporaneamente, all’interno dell’esperienza detentiva, un contesto di normalità affettiva e familiare [48], consistente non certo nella riduttiva e sterile previsione di momenti di sessualità, sarebbe ritenuta di notevole spessore umano ed espressiva di alto grado di civiltà: il tutto richiederebbe, però, una più attenta preparazione ed elevazione della cultura del contesto entro cui le citate innovazioni normative dovrebbero trovare applicazione.
Per altri, invece, l'idea dell’amore “a gettone”, di “celle dell'amore” o di piccoli appartamenti ove rinchiudere il detenuto per un tempo prestabilito con i propri familiari, non consentirebbero certo l'apertura di questo al mondo che c’è fuori, semmai rischierebbero, si ritiene, di provocare un’ulteriore chiusura.

Ed è per tutte le considerazioni svolte e le perplessità descritte, che la maggior parte degli esperti in materia penitenziaria continua a sostenere che non si possa portare la sessualità all’interno di un luogo come il carcere ma si debbano piuttosto portare tutti i detenuti al di fuori di esso, attraverso le tante opportunità che consentono di scontare la pena all’esterno; basterebbe ampliarne l’applicazione: se così si ritenesse di agire (incrementando, ad esempio, l’esecuzione penale presso il domicilio), la popolazione detenuta si ridurrebbe notevolmente e, mantenendo, con i dovuti controlli, il detenuto sul territorio, si faciliterebbe il suo reinserimento sociale, annullando anche gli effetti negativi del carcere.
Il carcere andrebbe, poi, considerato come “ultima ratio”, privilegiando l’applicazione di “pene socialmente utili”. Si dovrebbe, cioè, ridurre la risposta del carcere a quelle situazioni in cui appare veramente indispensabile. Con questo non bisogna certo dimenticare l’altra umanità, quella danneggiata, quella delle vittime. Ciò darebbe avvio al processo di “demolizione” dell’alto muro di cinta che separa il carcere dal mondo civile.
Sono, dunque, enormi le difficoltà in cui ci si imbatte nel tentativo di portare la sessualità in carcere; probabilmente sarebbe più semplice e proficuo aumentare le possibilità di incontro tra i detenuti ed i loro familiari “al di fuori”, se veramente si vuole pensare al loro reinserimento ed alla loro riabilitazione.

Apparirebbe quindi, auspicabile che al soggetto venisse concessa la possibilità di uscire più spesso dall'Istituto per consentirgli di perseguire, rafforzare, tutelare e sviluppare interessi personali, familiari, culturali e sociali.
Ciò consentirebbe di ridare il senso del tempo, creando dei punti di riferimento, mobilitando potenzialità che si credono ormai atrofizzate, motivando il detenuto al rientro in società e accelerando così i processi di recupero.
Occorrerebbe dunque, rivedere ed ampliare il beneficio dell’istituto di cui all'art. 30 ter O.P., cercando di dare risposta a ciò che i diretti interessati chiedono: non un incontro « a tempo », ma un incontro « totale », esistenziale, oltre che sessuale.
Così, si aiuterebbe il detenuto a recuperare il senso della dignità perduta, a ritrovare un equilibrio, a ristabilire rapporti di vita, a ricostruire una famiglia.
E, rispettare la dignità degli altri significa, al tempo stesso, valorizzare anche la propria.
I permessi “dell’amore” probabilmente rappresentano la prima, civile risposta a questo pianeta di sofferenze e privazioni.
I permessi premio costituiscono difatti, un “altro modo” per garantire l’affettività, probabilmente un modo molto più dignitoso se si vuole, che non consumare le ore d’intimità all’interno di un carcere [49].

Sarebbe auspicabile che si riducesse, naturalmente con le dovute cautele ed i necessari accorgimenti per i singoli specifici casi, la distanza tra l’inizio dell’esecuzione della pena e la concessione dei primi permessi, con lo scopo di ristabilire quanto prima i contatti del detenuto con i propri cari (spesso, infatti, tali permessi intervengono troppo tardivamente per poter effettivamente recuperare rapporti ormai compromessi).
Probabilmente, comunque, se venissero concretamente applicate tutte le ipotesi previste dall’ordinamento penitenziario e da tutte le leggi che nel tempo lo hanno modificato ed integrato, ci si accorgerebbe che non si avrebbe alcun bisogno di nuove leggi.
La soluzione va dunque, cercata in una politica di esecuzione delle pene che privilegi sin dall’inizio della condanna l’uscita dal carcere, l’incontro coi propri cari, evitando dunque il distacco, la separazione, causa di problemi esistenziali, relazionali ed interpersonali.
“Quanto valgono le ore d’amore vissute tutte di seguito senza sbarre, senza agenti di polizia penitenziaria, senza rumore di porte che si chiudono, di cancelli che sbattono, con il sole e la luna tutti interi e non a strisce e l’erba, e la gente, e lo spazio senza confini? [50]”.
Se è pur vero che, numerose sono le problematiche per rendere possibili, in luoghi più appartati, incontri affettivi per affrontare con maggiore intimità delicati problemi familiari e cercare di tener vivi ruoli educativi e coniugali, che mancano le strutture, che manca una matura coscienza collettiva ed un’adeguata preparazione, anche mentale, del personale, etc., tutto sarebbe, comunque, fattibile qualora intervenisse una norma cui doversi adeguare.
A tal proposito, numerose son state le proposte di legge volte ad introdurre, mediante riforma dell’ordinamento penitenziario, la possibilità per il soggetto detenuto di mantenere, consolidare e coltivare i propri rapporti affettivi all’interno dell’istituzione carceraria (dalla proposta legislativa d’iniziativa del deputato Folena a quella del deputato Pisapia).
Umanizzare l’intero pianeta carcerario, valorizzare i legami, assicurare la solidarietà, sostenere il bisogno di stringere una compagna, una madre, un figlio senza che questo possa essere negato o raggelato dalle fredde regole vigenti in Istituto, consentendo, almeno una volta al mese, incontri della durata non inferiore alle quattro ore, con il coniuge o il convivente, in locali idonei e senza il controllo visivo del personale, ed incontri mensili di mezza giornata con le famiglie, in apposite aree, o concedendo un permesso, della durata non superiore ai 15 gg per ogni semestre di carcerazione, da trascorrere con il coniuge/convivente o con un familiare, o concedendo per ciascun colloquio non effettuato, un colloquio telefonico aggiuntivo: questi i contenuti e gli obiettivi delle proposte.
Nonostante tali proposte legislative non abbiano avuto un seguito (dette iniziative destarono scalpore, animarono dibattiti, ma non sortirono l’emanazione di alcuna norma attuativa), gli va riconosciuto il merito di aver comunque sollevato la problematica della sessualità in carcere, inducendo gli operatori del penitenziario a momenti di riflessione e facendo emergere la tematica in tutta la sua complessità.
A tali proposte fece seguito il progetto di riforma del regolamento di esecuzione penitenziaria, con la sua innovativa impostazione di pensiero e di prospettiva volta ad introdurre modifiche migliorative a tutti quegli aspetti del regime penitenziario che apparivano sorretti da “nuovi livelli di sensibilizzazione”.
Nello schema originario venne prevista una particolare forma di permesso interno (riconducibile all’Istituto della visita ex art. 61 Reg. Es.) che avrebbe consentito a detenuti ed internati di trascorrere con i propri familiari un periodo di tempo fino a 24 ore continuative in unità abitative (mini appartamenti) appositamente predisposte all’interno dell’Istituto, limitando il controllo del personale di Polizia Penitenziaria alla sorveglianza esterna dei locali, con la possibilità di effettuare controlli all’interno solo in presenza di situazioni d’emergenza.
Il progetto venne, però, riformulato, dopo il parere negativo della sez. consultiva del Consiglio di Stato n. 61 del 2000, con lo stralcio delle misure più innovative in materia di affettività dal testo definitivo approvato nel giugno del 2000 ed attualmente vigente.
In particolare, il parere negativo n. 61/2000 del Consiglio di Stato venne articolato con due obiezioni specifiche: da una parte, il “forte divario fra il modello trattamentale teorico” prefigurato nel nuovo regolamento penitenziario e l’inadeguatezza del “carcere reale”e dall’altra la necessità di rinviare l’introduzione di norme a favore del diritto all’affettività a scelte legislative, data l’impossibilità di introdurre con norma regolamentare incontri di detenuti ed internati con i propri congiunti svincolati dal controllo visivo del personale, essendo ciò stabilito, sia pure in generale, da disposizione di rango primario.
Nel corso dell'adunanza del 17 aprile 2000, il Consiglio, infatti, rilevò come le scelte proposte nel nuovo regolamento non potessero essere legittimamente effettuate in sede regolamentare attuativa o esecutiva, in quanto postulavano piuttosto l'intervento del legislatore, “al quale solo spetta il potere di adeguare sul punto una normativa penitenziaria diversamente orientata".
A riaccendere i riflettori sul carcere, sulla vita, sui diritti delle persone detenute e sulla complessità di tutti i temi che vi sono dietro sono, poi, intervenute le proposte di legge Boato (2002) e quelle presentate su iniziativa dell’On. Bernardini (n. 1310 del 2008) e dei senatori Della Seta e Ferrante (n. 3420 del 2012) [51].
Nella situazione attuale delle nostre carceri, caratterizzata da condizioni al limite della vivibilità, da un cronico sovraffollamento e da una variegata composizione sociale, parlare di affetti dei detenuti potrebbe sembrare fuori luogo, un lusso che non ci si potrebbe permettere.
Invece, “pensare e realizzare” un carcere in cui si riconoscono maggiori spazi di vivibilità, creerebbe un carcere migliore, più gestibile; trasformarlo in un luogo che funzioni, significherebbe dare senso e qualità alla pena da espiare: non un luogo dove si finisce, ma da dove si può ricominciare. Per far questo il carcere deve innanzitutto essere credibile: deve costruire opportunità. Più i diritti e la dignità umana vengono rispettati, più il carcere si apre e muove coraggiose iniziative. Iniziative che andrebbero inquadrate in un contesto più generale di valorizzazione effettiva dei principi costituzionali in materia penitenziaria, nel segno di una rinnovata coscienza istituzionale la cui maturazione richiederebbe un serrato dialogo tra coloro che operano sul piano giuridico normativo e coloro che concretamente sono inseriti nella dimensione carceraria.
Dato il sensibile scarto tra il piano dell’enunciazione normativa di determinati diritti dei detenuti ed il piano della loro effettiva fruibilità in termini di esercizio e di possibilità di tutela, ci si chiede quanti e quali dei meccanismi e delle prassi istituzionali allo stato praticate sono modificabili, in modo da rendere più umano il carcere.
Per fare questo occorre scomporlo nelle parti più intime, raccoglierne le grida e le invocazioni, ed infine proporre le modifiche già oggi possibili.
Le carceri sono artefatti umani intenzionali e, come tali, possono essere dagli umani modificati, smontati e ricostruiti diversamente: la possibilità di fare, disfare e rifare risiede in “NOI”.

§3. “Identità di genere: omosessualità e transessualità nella detenzione”.

§ 3.1 Dalla condizione di uomo nella società alla condizione di omosessuale in carcere. Dalla pornografia all’omosessualità: alcuni casi pratici.

In Italia, parlare di omosessualità in carcere è divenuta ormai un’argomentazione poco sporadica in quanto i dati statistici dimostrano che gran parte dei reclusi risultano essere orientati sessualmente al genere diverso, situazione che comporta problematiche di rilevante importanza.
Una delle più gravi difficoltà, infatti, contro cui urta il detenuto in un Istituto penitenziario è proprio quella del grave disagio nei rapporti interpersonali per cui, l’omosessualità, più che una scelta consapevole, appare come un effetto dell’adattamento al contesto carcerario. Sottratto allo scambio affettivo eterosessuale, il detenuto organizza le proprie strategie di sopravvivenza “insegnandosi” i codici ambientali e fornendo, di volta in volta, le risposte adattive più adeguate al contesto ed alla propria superstite personalità. [52] In questo modo è compromessa la struttura dell’identità individuale e sociale del soggetto: si crea una scissione della personalità, ovvero desideri omosessuali nei quali il proprio corpo è contemporaneamente soggetto ed oggetto del proprio piacere.
La perdita della propria personalità e l’astinenza sessuale, conseguenze dello stato detentivo, sono realtà quotidiane che producono vari tipi di comportamento reattivo di cui, appunto, quello omosessuale ne è solo un esempio.
Il carcere, infatti, nella mentalità comune dei ristretti, è un luogo in cui mostrarsi uomini, è a volte una forma di difesa, un modo per sentirsi più forti, in cui avere ancora potere, un luogo in cui resistono pezzi del passato: l’idea della famiglia intoccabile, delle donne con poca autonomia personale, degli uomini tutti d’un pezzo. Considerazione, questa, che crea forme di emarginazione nei confronti di quei soggetti che non rientrano nei luoghi comuni.
La privazione delle relazioni eterosessuali ostacola, pertanto, il processo di definizione della propria identità: il detenuto, privato della sua polarità femminile, è costretto a cercare la propria identità solo dentro sè stesso; l’identità è solo quella porzione della sua personalità che è riconosciuta ed apprezzata dagli uomini.
In carcere, quindi, si subisce un processo di adattamento all’ambiente. Si viene, così, a creare un “doppio legame” [53] permanente: da un lato l’“ingiunzione “ di consumare l’eterosessualità (es. il massiccio bombardamento di TV, giornali e riviste, anche pornografiche che propongono sesso e donna-merce come valori primari della quotidianità) e, dall’altro, il divieto o l’impossibilità di farlo in alcun modo.
In tal modo, per reagire allo stato di repressione, di continenza coatta, la maggior parte dei detenuti si ritaglia un proprio mondo sessuale tappezzando la propria cella con giornali pornografici (che risultano essere i giornali più acquistati e richiesti in carcere) cercando di coinvolgere i compagni con narrazioni fantastiche riferite all’attività sessuale precedente alla carcerazione.
Tra le pareti della detenzione, il recluso è costretto a crearsi un’amante immaginaria per raggiungere la donna reale che vive fuori dal carcere.
L’utilizzo della pornografia da parte dei detenuti diviene un elemento di sostituzione temporanea al rapporto eterosessuale di coppia. Il materiale pornografico, nel contesto carcerario, può finire per assumere valenze ossessive. E’ il caso, ad esempio, di un detenuto che teneva con sé da cinque anni una rivista pornografica raffigurante le performances erotiche di una donna alla quale si era particolarmente affezionato e ne era sessualmente stimolato, a tal punto da stabilire con lei un “rapporto” tale per cui se ne considerava innamorato e perfino geloso (infatti non prestava mai a nessuno quel suo “porno” del cuore).
Un militante delle Brigate Rosse appena entrato in carcere, nel 1980, criticò duramente altri compagni per l’uso di riviste pornografiche e perché essi avevano decorato le pareti delle celle con grandi poster di nudi femminili. I più “anziani” sorrisero di quell’ingenuità e rimandarono la discussione di lì a qualche anno, quando il “novizio” avesse accumulato un po’ di esperienza [54]
Tuttavia, la ricerca della pornografia dura poco tempo mentre, fisiologicamente e fisicamente, si sente la necessità della carne. Fino a questo momento il detenuto, con la sessualità normale, è sempre riuscito a sentire “naturale schifo” per i discorsi dei detenuti più anziani di anni di carcere, basati sui contatti fra uomo e uomo o sull’eccitazione che può suscitare la nudità di un uomo ma, successivamente, un uomo che prima non si degnava nemmeno di uno sguardo, diviene meta fissa ed obiettivo privilegiato dello sguardo del detenuto perché il ricordo della donna sarà andato sempre affievolendosi nel tempo in immagini quasi irreali.
L’omosessualità, quindi, è uno dei principali mezzi attraverso i quali il detenuto, temendo di diventare impotente e spinto da un’ansia sempre più crescente, tenta di verificare la sua virilità. Tuttavia non tutti i detenuti sono omosessuali e non tutti lo diventano rimanendo in carcere e, a questo proposito, si deve considerare come veniva vissuta dal soggetto la propria sessualità prima della detenzione.
La maggior parte dei soggetti che entrano in carcere, fino a quel momento, hanno avuto una vita sessuale “normale” ovvero ha potuto scegliere il proprio/la propria partner con la massima libertà. Se eterosessuale, non ha mai pensato ad avere un partner dello stesso sesso: pratica verso la quale appunto, ribadiamo, nella vita attiva può aver provato semplice avversione, se non addirittura ripugnanza.
Durante la detenzione essi subiscono una modifica del loro orientamento sessuale [55].
Infatti, la difficoltà di mantenere vivi i rapporti affettivi comporta che questi soggetti, dopo tanti anni di carcere, finiscono per perdere i sentimenti provati per le persone amate. Essi, a causa della promiscuità della vita carceraria di cui diventano spettatori, man mano che si adattano all’ambiente, vedono affievolirsi i loro freni inibitori e crollare i loro principi morali, lasciando che l’istinto incontrollato prevalga fino a giungere alle forme più basse di degradazione. In carcere, infatti, tutto cambia: i detenuti raccontano che, dopo un primo periodo in cui tutto si pensa meno che alla sessualità, comincia a farsi opprimente il desiderio, il bisogno di allentare le tensioni che si sono create nell’apparato fisico/biologico.
Quel detenuto che cerca di avere un rapporto omosessuale con un altro detenuto, in modo sporadico, lo fa con persone i cui lineamenti fisici possono verosimilmente ricordargli quelli femminili, perché è la donna che gli manca e, pertanto, trovandosi tra uomini, tenta di trovare quello che assomigli di più a ciò che non può raggiungere.
Questo perché identifica nell’altro soggetto quasi un surrogato della donna, non di un uomo e può perdere quei freni inibitori e diventare un omosessuale occasionale. Per reagire allo stato di repressione molti detenuti si creano e si ritagliano un proprio mondo sessuale passando, dalle prime forme di autoerotismo al successivo desiderio del rapporto omosessuale che può, talvolta, diventare anche un mezzo di sfruttamento, generando, così, casi estremi di prostituzione in cambio di pacchetti di sigarette o dosi di eroina.

Vale a dire che non è raro, infatti, che le persone si lascino tentare dalle “occasioni che man mano si presentano loro”, ad esempio il soggiorno nella propria cella di un soggetto che ha bisogno di denaro per potersi comprare la droga (o altri oggetti personali cui è abituato e che gli vengono negati in carcere) e, per averli, è disposto a prostituirsi.
Il carcere diviene, quindi, il regno naturale per il flirt omosessuale, dell’adescamento, del corteggiamento, del ritualismo amoroso, della prostituzione con drammi di gelosia e di rivalità. La testimonianza di un detenuto riferisce quanto segue: “ero considerato fuori dal carcere uno dei più quotati dongiovanni. Ebbene, sono diventato omosessuale…la vita solitaria diventa un tormento perchè si ha bisogno di toccare e si comincia a rubare, con occhiate furtive, le nudità dei compagni di cella mentre si spogliano o si vestono…allora inizia il corteggiamento, il gesto o la parola affettuosa...”

Il carcere, tuttavia, può anche diventare, per un omosessuale, silente sofferenza per un amore non corrisposto come nel caso di un detenuto che scrive “ il guaio è che ci si innamora…per di più capita all’improvviso e quasi sempre, verso persone nei confronti delle quali non si avrebbe alcuna speranza, nemmeno in condizioni diverse. Mi sono innamorato di un mio compagno di stanza…mi sono costruito da solo l’inferno e poi mi ci sono chiuso dentro. Lui è tenerissimo, ma inguaribilmente etero…per lungo tempo ho cercato di interpretare dei suoi gesti nei miei riguardi come segni di una sua corrispondenza sentimentale ma, purtroppo erano solo fantasie perché io, per lui ero solo un amico a cui raccontava tutto di se stesso… [56]”. Altre volte, invece, si diventa oggetto di desiderio sessuale e di tensione amorosa nei confronti dell’altro compagno, che si sente “minacciato” per il solo fatto che l’interesse proviene dall’essere umano di sesso maschile [57].
Pur essendoci detenuti che approfittano della larga disponibilità di popolazione maschile, talvolta facendolo con violenza o ricattando, la maggior parte dei soggetti dichiaratamente omosessuali fa le sue scelte, non concedendosi a tutti, sicuramente applica dei dovuti controlli ed attenzioni, mirati soprattutto ad evitare il rischio di malattie (AIDS; sifilide o altre patologie veneree).

Questo tipo di detenuti, inoltre, va con gli uomini perché gli interessa il rapporto con una persona del suo stesso sesso, indipendentemente dal suo aspetto fisico e dalla maggiore disponibilità rispetto all’esterno.
Un rilievo importante riguarda i detenuti più giovani e quelli psicologicamente più deboli, o più “freschi di galera”, che incorrono in questi episodi di omosessualità. Queste persone nascondono, infatti, il bisogno di tenerezza, di sostegno, di calore, di consolazione come quello che solo una madre o una compagna possono offrire per superare alcuni terribili momenti di solitudine e di scoraggiamento. A questo proposito si può ricordare il racconto di un ex-detenuto omosessuale dichiarato, che riferiva come in carcere lo cercassero spesso gli “sbarbati” [58], non tanto per fare del sesso con lui, quanto per avere una persona vicina che non li prendesse in giro se piangevano, se erano tristi e delusi o ammalati e che era pronto ad abbracciarli o ad accarezzarli, a farli sentire meno soli nei momenti più critici della loro permanenza in carcere, senza che questo potesse avere ripercussioni negative sulla loro futura vita detentiva Alcune testimonianze di detenuti accentuano l’attenzione su come sia terribile il fatto che il carcere annulli ogni forma di affetto nell’animo delle persone detenute ma anche dei propri familiari. Dopo tanti anni di carcere, dichiarano “ perdi i sentimenti che provavi per le persone che hai amato, per i familiari e per gli amici e poi con il passare del tempo, degli anni, non riesci più nemmeno a costruire o mantenere un rapporto con persone nuove”.

Vi è, inoltre, una precisazione molto interessante relativa ad un fattore che inibisce la pratica omosessuale. E’ il caso dell’austerità vissuta come “valore” soprattutto dai cosiddetti “uomini d’onore” appartenenti ad organizzazioni storiche dell’extralegalità nel Sud Italia: per essi il controllo ed il dominio di sé stessi e delle proprie tendenze alla “dissolutezza” sono indice dell’idoneità ad esercitare dominio anche sugli altri.
Un’importante considerazione è da farsi in merito all’esercizio di pratiche sessuali usate come espressione di potere: spesso, infatti, soprattutto nei confronti degli uomini più giovani o nuovi al contesto penitenziario, vengono posti in essere comportamenti che obbligano questi soggetti a subire attenzioni sessuali non desiderate. Fattore, questo, molto negativo perché annulla la volontà del giovane detenuto, che, appena giunto nel nuovo contesto reclusivo, si trova spaesato ed accetta di buon grado le attenzioni di chi gli si dimostra amico; quando poi questi riguardi si trasformano in qualcosa di più intimo, il nuovo giunto non riesce a sottrarsi a tale comportamento per il rispetto che prova verso l’altro detenuto e per la paura di perdere il favore e la protezione di questo.

Quasi tutti i nuovi detenuti si trovano sottoposti a tali attenzioni: solamente alcuni riescono a sfuggirne, quasi sempre ribellandosi violentemente ma, tale rifiuto, corrisponde ad un’automatica esclusione dal contesto subculturale che, dal quel momento in poi, avvertirà il giovane detenuto come un nemico, da allontanare e biasimare alla luce della mancanza di rispetto riservata ad un esponente del gruppo.

§ 3.2 Affettività e sessualità - I tre livelli generali di adeguamento sessuale nella detenzione.

Il tema della sessualità caratterizza la vita quotidiana del carcere, rappresentando uno degli aspetti più problematici della reclusione, durante la quale si possono sviluppare le “anormalità” sessuali e la conseguente sofferenza nell’individuo. Secondo una ricerca di Clemmer [59] (1940), condotta nell’ambito penitenziario, le singole personalità sono rese instabili dagli stimoli provenienti dal livello sessuale della cultura, ma ognuno, nell’ambiente carcerario, è influenzato, in gradi diversi, dal peso che esso ha.
Il desiderio sessuale e la malinconia per la mancanza di una compagnia femminile è, per gran parte dei detenuti, l’elemento più doloroso della detenzione in quanto essi avvertono non solo un forte desiderio per il rapporto sessuale ma anche per la voce, il contatto, il riso, le lacrime di una donna, insomma per la donna in se stessa. Lo studioso, pertanto, sostiene, che il contesto penitenziario può essere promotore di comportamenti sessuali anormali.
Vengono così individuati tre livelli generali di adeguamento sessuale:

  • normale, a cui appartengono i detenuti che hanno avuto uno sviluppo ordinato della loro vita amorosa (partendo dall’infanzia, dall’amore per se stessi, passando attraverso la fase autoerotica dell’adolescenza fino a giungere all’amore adulto per una donna). Su questa “normalità si trovano ad incidere, in carcere, due fattori: la durata della condanna e la presenza di un “oggetto d’amore”, una compagna, all’esterno. Tale categoria di soggetti è assillata dalla sfera della sessualità e, perciò, vive un’infelicità intensa e, pur volendo tenersi lontani dalle depravazioni degli altri, non vi riescono in quanto è influenzata dal contesto e, pertanto, finisce con il comportarsi in modo anormale, masturbandosi occasionalmente e rivolgendo sempre le fantasie al mondo femminile;
  • quasi-normale, i cui appartenenti sono di solito gli uomini più anziani o quelli più giovani di età, per lo più recidivi. Essi non hanno relazioni significative con persone esterne al carcere e reagiscono allo stato di continenza coatta creandosi nuovi mondi virtuali nei quali vivere e ritrovarsi, per cui la loro attenzione è totalmente rivolta alla comunità carceraria. In questi soggetti appare dominante un profondo senso di insoddisfazione e fallimento, generato dalla loro stessa condotta, che risulta, anche ai loro occhi, riprovevole. I quasi-normali hanno comportamenti sessuali ma con attività surrogatoria, pertanto, il rapporto omosessuale sarà vissuto da questi soggetti come un palliativo in quanto le fantasie che li accompagnano sono sempre rivolte al contatto tra le donne ma la loro inclinazione eterosessuale non può essere soddisfatta in carcere.

Tuttavia, in essi il ricordo della donna si affievolisce con il procedere della detenzione e, per tale motivo, essi ricorrono alle pratiche omosessuali, finalizzate solo alla provocazione del piacere fisico non invece come desiderio di un rapporto con un altro uomo; - anormale, cui vi appartengono quei detenuti che si sono abituati alla pratica omosessuale, fine a se stessa, vissuta quindi con consapevolezza e la cui maggior parte ha appreso questo comportamento sessuale attraverso i contatti con la cultura carceraria che, in questi individui, risulta essere largamente assimilata, a causa della promiscuità, del linguaggio scurrile ed osceno, delle narrazioni spesso fantastiche tra detenuti, riferite alla vita sessuale “predetentiva”, ai freni inibitori. I principi morali possono allentarsi e lasciare il posto ad un istinto incontrollato.

§ 3.3 L’omosessualità nelle donne.

Nelle sezioni femminili, le conseguenze derivanti dalla privazioni delle relazioni presentano caratteristiche diverse.
In effetti le donne, per loro natura e per condizionamenti culturali, non hanno la stessa ansia o tensione degli uomini per la privazione del sesso, essendo per lo più orientate verso manifestazioni di affetto, a vedere il sesso in funzione dell’amore e non viceversa e, dunque, sebbene vi siano rapporti lesbici, essi sono meno appariscenti di quelli messi in atto dagli uomini, sono meno violenti e soprattutto tesi a formare delle relazioni pseudo familiari, che non creano motivi di disordine. [60]
Il fatto che minori siano i problemi di disordine, tuttavia, non significa che le donne detenute non soffrano della mancanza d’amore. Gli atteggiamenti omosessuali femminili, in genere, non costituiscono motivo di “evidente” disordine organizzativo, sostanziandosi per lo più in una relazione che ha, infatti, componenti quasi sempre affettive ed intime.
La donna sente il bisogno di amare, di appartenere a qualcuno e reagisce a questo bisogno individuando e gestendo piccoli spazi di intimità e, pertanto, i rapporti omosessuali sono spesso vissuti, negli istituti femminili, come relazioni pseudofamiliari):
molte detenute vivono in coppia con scoperti legami affettivi, esercitando veri e propri ruoli familiari, prendendosi cura della cella come se fosse il loro habitat domestico, abbandonandosi a scene di gelosia abbastanza significative. La relazione tra le stesse ha, infatti, componenti interpersonali, quasi sempre affettive, intime, frutto di un rapporto sentimentale fatto di carezze e baci, forse anche a recupero ideale di una maternità impossibile. Ed è per tale motivo che, talvolta, i rapporti omosessuali vengono mascherati con atteggiamenti materni delle anziane nei confronti delle più giovani.

Nel contesto carcerario, le donne ed il loro corpo vivono i tempi della vita molto più direttamente e duramente rispetto agli uomini sviluppando diverse patologie che stravolgono anche i tempi del corpo che, inevitabilmente, somatizza il loro malessere (problemi connessi al ciclo, problemi respiratori, problemi di obesità, di esaurimento nervoso con conseguente dimagrimento). Così, nel carcere femminile l’omosessualità, volto a sostituire il desiderio eterosessuale, si manifesta con aspetti più provocatori ed esibizionistici perché diretta simbolicamente anche contro l’istituzione, non creando, tuttavia, in genere motivi di disordine ma, piuttosto, con azioni subdole.

§ 3.4 La transessualità - Società e carcere.

Il dilagarsi del fenomeno transessuale nella nostra società è ormai un fattore inconfutabile. Il termine “transessuale” implica la condizione di una persona la cui identità sessuale fisica non corrisponde alla condizione psicologica dell’identità di genere maschile o femminile (cd. disturbo dell’identità di genere) e che spesso persegue l’obiettivo di un cambiamento del proprio corpo attraverso interventi chirurgici [61]. Spesso il termine viene confuso ed assimilato, all’interno di una stessa definizione, a quello di travestitismo ma, in realtà, per travestitismo si intende l’uso di abbigliamento tipico del sesso opposto senza aver apportato alcun cambia mento al proprio fisico. Per i travestiti il conflitto è con la società e con la legge; i travestiti non rifiutano il loro sesso biologico, indossano abiti del sesso opposto al solo scopo di procurasi eccitazione sessuale e tale modalità ha carattere feticistico. Nel caso del transessualismo il conflitto è interno ed è causa di grandi sofferenze: i transessuali, invece, si travestono perché sentono di appartenere al sesso opposto [62]. Tale differenza è importante quando si parlerà della presenza nei reparti detentivi di queste due categorie di soggetti (paragrafo 6). I soggetti transessuali vivono prevalentemente di notte e la loro vita risulta legata spesso al giro della prostituzione e della droga motivo per il quale essi sono emarginati dalla società che, nello stesso tempo, li rifiuta e li usa. Questo stato di cose genera la figura del transessuale tossicodipendente e spacciatore, che, per la sua condizione di emarginato e per le sua varie frustrazioni, ricerca nella droga quello che il rapporto sessuale non riesce a dargli: l’approccio con la droga viene vissuto come completamento e ricerca di sicurezza in una vita fatta di precarietà, di effimeri piaceri, di rapporti incerti e di carenza di legami affettivi.

Tale atteggiamento conduce il soggetto alla devianza ed alla conseguente carcerazione. I reati compiuti da questi detenuti, infatti, sono soprattutto legati alla tossicodipendenza e allo sfruttamento della prostituzione, contesti in cui le persone transessuali spesso si ritrovano a causa delle ingenti spese necessarie per cambiare il sesso, considerato anche che la condizione di transessuali non consente loro di trovare facilmente un lavoro e in ogni caso non ci sono lavori che garantiscano una retribuzione sufficiente a completare tutto il percorso.

Si tratta soprattutto di persone straniere e, spesso di persone in attesa di espulsione che sanno perfettamente che, alla fine della loro pena, riceveranno il provvedimento di espulsione dal territorio italiano.
Inoltre, tutte le problematiche più gravi (politiche, economiche e sociali), legate all’esperienza della transessualità in Italia, emergono prepotentemente proprio in un’istituzione totale come il carcere, che diventa luogo di trasposizione delle problematiche connesse alla “soggettività fisica”. Una persona reclusa non lascia fuori solo la libertà: un transessuale è costretto a lasciare fuori anche i propri bisogni di riconoscimento e di accettazione sociale circa la sua identità.
Come viene vissuta l’esperienza della detenzione da chi viene già sistematicamente posto ai margini della società nella vita di tutti i giorni? La permanenza di questi soggetti in carcere è caratterizzata, infatti, da un profondo disagio per la ridotta possibilità che essi hanno di partecipare alle attività risocializzanti. I transessuali, infatti, appartengono ad una “categoria” a cui è riservato un trattamento del tutto peculiare, che di fatto risulta essere più limitato rispetto a quello di ogni altro detenuto. La loro condizione in carcere è problematica e difficile non solo per la particolarità dell’esperienza vissuta ma anche e soprattutto per le loro caratteristiche psicologiche e fisiche: un transessuale non può essere detenuto, per motivi contingenti, in reparti maschili. La vita detentiva, senza considerare la “sessualità sentita” dei detenuti, non aiuta a comprendere la storia di un corpo modificato o in via di trasformazione.
Imparare la “mascolinità o la femminilità” in quel contesto significa imparare rapporti di dominio o di subordinazione quasi come se fossero naturali.

Alcune patologie psichiche

I detenuti in oggetto, nel momento dell’ingresso in carcere, sono sottoposti a visita medica di primo ingresso, al colloquio psicologico ed alla visita psichiatrica, ciò al fine di poter disporre di una valutazione clinica della persona, che tenga conto delle caratteristiche fenotipiche, etniche, culturali, religiose e sociali che possono influenzare il desiderio e le aspettative consce e inconsce, nonché l’atteggiamento nei confronti dei soggetti con i quali si può venire a contatto.
E’preoccupazione primaria dell’istituzione prevenire dal punto di vista epidemiologico, pericolosissimi variazioni di impulsività emotiva con passaggi all’atto in relazione ai campioni della popolazione detenuta.
In quest’ultimo caso è proprio l’anomalia del desiderio sessuale che causa notevole difficoltà e disagi interpersonali.
La condizione detentiva pone di per sé un limite alla relazione con il partner e scarsamente motiva a ricercare stimoli in una condizione di frustrazione. Si è dunque poco partecipativi nonchè riluttanti. Mentre la condizione di promiscuità delle celle nelle ordinarie sezioni, implica inevitabilmente condizionamenti e pressioni (per conforto fisico o ricerca di intimità) da parte di occasionali compagni di cella.
Tutti i fenomeni che si sviluppano in carcere portano il ristretto ad adattarsi per sopravvivere e ciò implica l’utilizzo dei mezzi che non per forza sono funzionali al benessere psico-fisico del soggetto. La pratica dell’omosessualità, seppure occasionale, suscita un sentimento di colpa nel recluso [63], in quanto essa spesso è negata, molto raramente ammessa, anche in colloqui con lo psichiatra o lo psicologo. Spesso solo il medico generico può coglierne l’eco. E’, infatti, per lo più in occasione di turbe locali e reiterate che il medico viene messo al corrente dal detenuto, con mezze parole o allusioni [64]. Ecco, allora la comparsa del disagio psichico (ansia, depressione, somatizzazione, ecc.). La detenzione causa disagio clinicamente significativo in un individuo e, in particolare se si è alla prima esperienza detentiva, può far emergere una vasta gamma di quadri psicopatologici. I sintomi psichiatrici più frequenti nei soggetti omosessuali sono rappresentati da:

  • sintomi depressivi;
  • tendenza all’isolamento;
  • intensi sentimenti di colpa e di vergogna con malfunzionamento nella socializzazione e difficoltà di adattamento al contesto.

La depersonalizzazione dell’individuo, pertanto, è caratterizzata da diverse fasi:

  • Fase 0: Ansia con possibili spunti fobici ed espressioni somatiche.
  • Fase 1: Ansiosa: sensazioni angosciose a tonalità fobiche, insonnia, inappetenza, incapacità di gestire l’emotività fino a gesti autolesivi.
  • Fase 2 Depressiva: distacco, indifferenza, ritiro in sé stessi, ideazione suicidarla.

Nei casi in esame, inizialmente avvengono vere e proprie reazioni di panico in cui il soggetto reagisce con violenza quando si sente adescato sessualmente (panico omosessuale) o minacciato, ricattato, reso passivo (panico pseudo-omosessuale) da parte di persone dello stesso sesso. Se consideriamo che l’amore è composto da affettività e sessualità, in carcere ciò che è possibile è il fatto di recuperare lo spazio dell’affettività con lo spazio dell’immaginazione che però, nel tempo, diviene patologico.
La rinuncia alla sessualità rimane una realtà, con i suoi effetti degenerativi che iniziano con inquietudine e frustrazione, passano per la deviazione, con il rischio assai probabile di cristallizzarsi nella violenza, o nella malattia fisica o psichica. Dovendosi manifestare in una realtà ristrettissima, la sessualità inevitabilmente diviene autoerotismo oppure omosessualità, con le conseguenze patologiche ad essa connesse (gelosie ed altro). Questo cambiamento indotto nell’identità di genere ed anche nella scelta del proprio ruolo sessuale può provocare delle dissociazioni a livello psichico, che possono essere alla base di un successivo disturbo psico-patologico o psichiatrico. Infatti, si possono andare ad incrinare precedenti fragilità, rinfocolare traumi, esaltare sensi di autocolpevolizzazione, perdere completamente la stima di sé, elementi che portano il soggetto a meditare la volontà di autosoppressione.
Nelle note suicidarie di un ergastolano di Porto Azzurro, che morì sul colpo dopo essersi lasciato cadere a testa in giù dal terzo piano della sezione “Ergastolo Nuovo”, nel 1976, c’era scritto che lui non poteva più sopportare la “vergogna” di essere diventato omosessuale a forza di masturbare il proprio corpo maschile. Era rimasto intrappolato, oltre, che in trent’anni di carcere, nella cultura che assegna all’omosessualità uno spregevole e disonorante distintivo, un infamante marchio di indegnità. [65]
All’atto dell’ingresso anche i soggetti transessuali sono sottoposti a visita medica di primo ingresso, colloquio psicologico e visita psichiatrica la cui valutazione psichiatrica avviene alla stessa stregua di quella effettuata per i soggetti omosessuali, effettuata in modo accurato e approfondito, al fine di estrapolare, intercettare eventuali situazioni psichiatriche preesistenti che possono aggravarsi con la condizione detentiva predisponente al rischio di incontro tra partners non consenzienti.
I soggetti transessuali, ancor più di giovane età, necessitano di essere particolarmente attenzionati [66] da tutte le figure istituzionali, proprio perché sono richiedenti, interferenti, diffidenti, con una larvata pervasiva scontentezza che li induce ad eccessivi coinvolgimenti emotivi e altrettanti pesanti ricadute sul fronte della disistima e del disprezzo.
Nei soggetti transessuali sono più frequenti reiterati episodi di autolesionismo, atteggiamenti impulsivi con azioni auto ed eteroaggressive, fantasie di feticismo e travestitismo, spesso strumentali e progettuali.
Queste fantasie, questi impulsi sessuali e i comportamenti incongrui causano notevole disagio nel reparto con grave compromissione delle relazioni sociali, lavorative e trattamentali.

Problematiche di ubicazione: le sezioni protette, i rapporti con la popolazione detenuta e l’ “isolamento”.

I detenuti che all’ingresso in un istituto di pena dichiarano di avere un disturbo dell’identità di genere [67] (omosessuale-transessuale etc) vengono ubicati presso la sezione protetti, così chiamato per la particolare attenzione posta ai soggetti portatori di questo disturbo [68].

Il fatto di proteggerli è legata sia alla fragilità personologica di base sia all’impatto con altri ospiti reclusi impregnati di una subcultura che predispone a rischi di incomprensioni interpersonali con possibili passaggi all’atto. Non manca nella letteratura il riferimento a fenomeni auto ed eteroaggressivi dovuto al contesto detentivo, quando non siano stati intercettati in tempo utile e che sono segnali di potenziale conflittualità.
Un aspetto importante è proprio quello delle persone omosessuali e transessuali detenute negli Istituti Penitenziari. La statistica penitenziaria rileva la presenza di oltre cento persone tra omosessuali dichiarati e transessuali, accolti nei vari Istituti Penitenziari del Paese, molti dei quali non sono dotati di reparti dedicati a queste persone gran parte delle quali sono inserite nelle sezioni maschili, poiché non viene loro riconosciuto il loro stato.[69] A causa del sovraffollamento degli Istituti penitenziari italiani, talvolta accade che, nelle sezioni protetti, sono ubicati tutti insieme anche con gli autori di reati sessuali, collaboratori di giustizia, ex agenti dell’ordine, detenuti con problemi di incolumità e individui con disfunzioni del desiderio sessuale.
Tuttavia, il modello organizzativo generalmente riscontrabile nella maggior parte degli istituti penitenziari, che ospitano transessuali, prevede la creazione di un’ala appositamente dedicata [70], solitamente posta all’interno del reparto maschile, dove le ore d’aria sono concesse in momenti differenti rispetto agli orari degli altri detenuti, per un tempo in molti casi nettamente inferiore.
Non è raro trovare anche omosessuali nel reparto speciale per “trans”, ciò accade perché molti di loro preferiscono dichiararsi transessuali e farsi collocare nel settore apposito piuttosto che affrontare la difficile realtà ultra-maschilista dell’ambiente detentivo. Altre volte, se al momento del suo ingresso in carcere, un omosessuale si dichiara tale, viene messo in isolamento o insieme alle persone transessuali per cui, spesso, preferisce negare la propria identità.
Infatti, quando il transessuale entra in carcere viene identificato da un documento che lo classifica come maschio, un’identità che egli non riconosce ma che è costretto, per forza di legge, a portare con sé e, pertanto, viene assegnato al reparto maschile, non a quello femminile.

Sconsigliabile, sotto tutti gli aspetti, risulta l’allocazione dei maschi omosessuali o travestiti nelle sezioni ordinarie in quanto, questi ultimi specialmente, manifestando atteggiamenti provocatori, potrebbero, con il loro comportamento, essere causa destabilizzante per la struttura penitenziaria. Soprattutto perché, nelle sezioni ordinarie, essi sono causa di malumori e di tensioni, creando disordini: i detenuti travestiti si prostituiscono ricevendo, in cambio delle loro prestazioni, generi vittuari ed oggetti di valore, con le conseguenze che si possono immaginare. Inoltre, i travestiti, anche quando sono in abiti maschili, conservano in carcere, come altrove, un aspetto particolare, che li contraddistingue allo sguardo di tutti, suscitando desiderio o repulsione ma producendo sempre reazioni emotive [71].

Esistono, poi, contrasti tra detenuti “protettori” che gestiscono a livello economico l’attività di questi soggetti, rivalità spesso sfociate in episodi di violenza ed aggressività per mantenere il predominio del mercato.
La ricerca della giusta allocazione dei detenuti in esame pone il problema della discriminazione all’interno degli istituti per cui, tra i detenuti, possono verificarsi episodi di violenza, cui l’unico rimedio al momento è la separazione.
Per questo l’Amministrazione penitenziaria cerca di prevenire tali problemi, prima ancora che si presentino, ubicando, ad esempio, in celle isolate i trans, che potrebbero creare uno stato di confusione tra i detenuti e, prevedendo, pertanto, la collocazione, per motivi cautelari, di questi detenuti [72], con la costituzione di apposite sezioni detentive.
Nello specifico, l’attenzione dovrà essere orientata alla tutela dell’incolumità della persona: in tal caso la Circolare Dap del 02.05.2001 prevede, anche per questo genere di detenuti, l’inserimento in “sezione protetta” ovvero, ove ciò non fosse possibile, in situazione di “isolamento”, a causa della difficoltà di rapporti con la restante popolazione detenuta per motivi connessi alle caratteristiche soggettive dei ristretti. Nell’Istituto penitenziario, infatti, il transessuale non trova spazi idonei per la fruizione delle attività trattamentali, previste per la popolazione detenuta, né ha la possibilità di essere allocato, per le ovvie ragioni indicate, nelle sezioni ordinarie maschili e, pertanto, viene ubicato in un reparto un po’ “isolato” dalle altre sezioni, al cui interno non vi sono le attività o le “attenzioni” riservate al resto dei detenuti.

La necessità di segregare le persone transessuali è ufficialmente giustificata dal forte rischio di stupri da parte dei detenuti uomini; negare, tuttavia, qualsiasi contatto con gli altri detenuti trasforma la loro detenzione in una sorta di perenne stato di “semiisolamento” ed inoltre il principio di “non promiscuità” impone spesso forti limitazioni per i trans nella fruizione degli altri spazi pubblici, come la biblioteca.
L’istituzione delle sezioni protette, prevista, quindi, anche per questi soggetti comporta che, per tale motivo, essi abbiano il divieto d’incontro con la restante popolazione detenuta, naturalmente previa valutazione, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, delle specifiche condizioni personali.

L’isolamento e l’ostracismo contribuiscono alla scarsa stima di sé e possono portare al rifiuto e all’abbandono di attività ludiche-riabilitative e formative. Tale anomalie, spesso pervasive, non sono scevre dal condizionamento indotto da lunghi anni di cure ormonali che condizionano l’aspetto e il passaggio alla vita sociale in ruoli opposti.
La possibilità di rimanere in una cella singola non è sempre salutata come la migliore delle condizioni, perché, a volte, la solitudine può rappresentare, per la propria solidità psicologica, un pericolo maggiore della convivenza forzata con altri.

§ 3.5 Rapporti con il personale di Polizia Penitenziaria: la formazione del personale come necessità di miglioramento, l’importanza della conoscenza del fenomeno, degli strumenti e dei modelli gestionali e trattamentali.

La formazione degli operatori penitenziari deve essere un elemento indispensabile del programma trattamentale. Non si può, infatti, programmare un valido percorso trattamentale per i detenuti se gli operatori addetti non conoscono a fondo la problematica di cui si occupano, considerando che, nel caso specifico, viene ad essere coinvolta la sensibilità ed emotività personale.
I rapporti tra questo tipo di popolazione detenuta e gli operatori penitenziari possono essere spesso difficili: il co 4 art.1 O.P. dispone che “I detenuti ed internati sono chiamati o indicati con il loro nome.”; in una logica sostanziale e giuridica, per le persone transessuali ci si dovrebbe rivolgere al maschile perché tale è l’appartenenza di genere di questi soggetti secondo l’anagrafe, il che rappresenta un’ulteriore pesante discriminazione, considerato che questi soggetti vivono la loro individualità sentendosi donne, pur nella diversità di appartenenza di sesso.

Spesso questo comporta momenti di contrasti e conseguenti episodi critici; sarebbe necessaria una rimodulazione di atteggiamenti e comportamenti penalizzanti il buon esito del trattamento. Necessiterebbero, quindi, corsi di formazione specifica per sensibilizzare gli operatori su questo tema, in particolare la necessità di corsi di formazione interprofessionale relativi al disturbo dell’identità di genere nonché almeno l’acquisizione delle elementari nozioni specifiche nel settore medico specialistico (psichiatrico). Il tutto per consentire agli operatori di acquisire le conoscenze necessarie alla gestione della particolare tipologia di detenuti ed a superare le difficoltà di approccio con essi nelle interazioni individuali.
Tali corsi contribuiscono a sviluppare nel personale di P.P. una maggiore consapevolezza e professionalità indirizzata ad una maggiore pazienza e minore rigidità.
E’ necessaria anche una formazione diversificata: per gli operatori che prestano servizio nei reparti trans, si può provvedere ad aggiornamento nonché ad approfondimento delle tematiche connesse mentre, per coloro che non hanno esperienza di settore, possono essere attuati dei corsi istruttivi di base.
Il personale deve conoscere il fenomeno ed acquisire gli strumenti gestionali e trattamentali. L’art.13 co 2 O.P prevede la predisposizione dell’osservazione scientifica [73] del soggetto detenuto “per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale”. In base ai risultati di questa osservazione sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare. [74] Nei casi in esame l’osservazione di cui all’art. 13 O.P. segue un percorso di difficile definizione considerate le caratteristiche personologiche dei soggetti affetti da disturbi dell’identità che, per tal motivo, adoperano un particolare comportamento durante la detenzione.
Il transessuale tende, infatti, per sua natura, ad affermare la personalità femminile e ad esercitare una certa influenza sul detenuto comune, il quale, considerato il contesto, lontano dagli affetti, facilmente può risultare sensibile a determinati approcci. Il detenuto affetto da disturbo dell’identità di genere presenta spesso una personalità complessa con umore mutevole, aggressività, competitività, fragilità. Il soggetto alterna stati di eccessiva tranquillità (per cui si isola dal contesto, appare apatico, dorme molto) a stati di eccitazione che inducono spesso a condotte auto ed etero aggressive, a seguito delle quali occorre attuare provvedimenti contenitivi ovvero disciplinari. Il transessuale, infatti, incorre spesso in infrazioni disciplinari legate alle condotte eteroaggressive, alla violazioni di ordini, all’atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari. Questo tipo di personalità richiede l’adozione di particolari ed opportune cautele.
Tuttavia, non sempre sono i detenuti transessuali i responsabili dei disordini ma anche i detenuti comuni hanno, in merito, un ruolo importante. La detenzione, infatti, può generare confusione e non è raro che anche coloro che non hanno avuto altri interessi che per il sesso femminile vedano nel transessuale una donna vera e ne perdano la testa.

Essi sono abili seduttori e, dalle relazioni tra detenuti comuni e transessuali, non scaturiscono solo gelosie e contrasti ma anche possibilità di intercettare atti osceni, traffici di oggetti, merce di scambio, regali e ricompense per le attenzioni.
Deve essere data la possibilità agli operatori di comprendere l’importanza di organizzare tante attività trattamentali per questi detenuti “isolati”, previa rilevazione dei bisogni e di quanto sia importante tenerli impegnati il più tempo possibile.[75] Nella gestione di questi modelli trattamentali gli operatori penitenziari devono rilevare la preferenza (di questi soggetti detenuti) rispetto ad attività di tipo femminile, con tornaconto (anche minimo) di natura economica e devono, altresì, comprendere l’esigenza di concedere a questi detenuti tutto ciò che fa parte della sfera femminile (acquisti di generi femminili con i limiti della decenza, es. no abiti femminili ma si cosmetici, creme delle particolari marche da loro scelte). In gran parte dei reparti per transessuali, infatti, sono autorizzati gli acquisti di tipo femminile, a riprova del fatto che si tiene conto sia delle caratteristiche di questi soggetti sia delle loro particolari esigenze [76].

La normativa italiana non scinde i detenuti in base alla tipologia di reati commesso ma stabilisce un principio generale di trattamento che risponda “ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto” (art.13 O.P.) e derivi dall’osservazione scientifica di personalità diretta all’ “accertamento dei bisogni di ciascuna soggetto connessi alle eventuali carenze fisio-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione” (art.27 co 1 reg.esec.) [77].
Le particolari caratteristiche personologiche dei detenuti transessuali, infatti, suggeriscono l’opportunità di attuare nei loro confronti particolari cautele ed accorgimenti, anche al fine di prevenire gesti autolesionistici o addirittura autosoppressivi. Per questi motivi ogni nuovo giunto viene segnalato sia alla Polizia Penitenziaria per un’attenta vigilanza sia agli operatori del trattamento per colloqui di sostegno. Lo stesso soggetto, inoltre, viene sottoposto a GST (grande sorveglianza trattamentale).
Nel caso di specie, dopo l’accertamento medico sulla condizione di transessuale del nuovo giunto, è prevista la visita dell’endocrinologo, in seguito alla quale viene eventualmente prescritta la prosecuzione della terapia, consistente nel dosaggio ormonale; solo il transessuale che già in libertà assumeva ormoni femminili prosegue nel trattamento medico in tal senso, previa espressa prescrizione specialistica [78]

Nella fase successiva al primo ingresso, quindi durante la detenzione, il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti (art.1 co.6 O.P.) [79]. Ciò significa che viene suggerito allo staff penitenziario ed al personale, addetto nello specifico settore, di attuare un trattamento individualizzato nei confronti dei reclusi, da intendersi come insieme di opportunità ed attività ricreative e formative, che rispettino la specificità del singolo.

Frequenti devono essere i colloqui con gli operatori penitenziari nonché l’individuazione di un idoneo modello trattamentale, consentendo la partecipazione di questi detenuti ad un considerevole numero di iniziative trattamentali (scuola, teatro, corsi, attività lavorativa). Sarebbe utile creare un “gruppo di sostegno”, condotto da esperti psicologi, finalizzato ad accompagnare i detenuti transessuali in un percorso riabilitativo, di accompagnamento e sostegno all’identità oppure impegnare i detenuti con interessi stimolanti, ad esempio con cineforum, con dibattiti, aiutandoli a riflettere sulla propria condizione, sui trascorsi devianti e sulle prospettive future.

In carcere esiste un grave problema sessuale dei detenuti, in particolare, per coloro che hanno dei disturbi nell’identificazione del genere di appartenenza e, pertanto, importante risulta offrire ai detenuti con questo tipo di disturbo, attraverso la predisposizione di corsi specifici (ad. esempio, corso di parrucchiere), le opportunità finalizzate a definire, in un contesto professionale, la propria identità sociale.
La ghettizzazione in un ambiente chiuso non è certo la migliore soluzione per le persone transessuali. Occorrerebbe aprirsi di più alle associazioni di volontariato ed aiuto, promuovendo attività ricreative e culturali, anche esterne, non molto presenti oggi.
Il nodo che è assolutamente necessario sciogliere, per rendere efficace il trattamento di questi soggetti, è relativo alla necessità di conciliare gli elementi della pena con quelli della “terapia”, o meglio, di compenetrare tra di loro tali elementi, al fine di ottenere un ragionevole controllo della loro tutela psico-fisica.

§ 3.6 Problematiche connesse alla custodia ed alla gestione – Criticità e soluzioni prospettate.

E’ opportuno, a questo punto, tracciare un quadro generale di confronto delle diverse modalità gestionali relative alle tre individualità (omosessuale, transessuale e travestito).
Infatti, le problematiche che si incontrano nella custodia dei transessuali differiscono notevolmente da quelle relative ai soggetti omosessuali o travestiti.
Il transessuale è colui che non solo nell’atteggiamento esteriore ma anche clinicamente, si è sottoposto ad un intervento di rettifica del sesso; è un “diverso” che non ha accettato il ruolo impostogli dalla natura.
Anche il travestito non accetta il proprio sesso naturale e la manifestazione di tale rifiuto è ben evidenziabile sia negli atteggiamenti esteriori (abbigliamento e gestualità) che interiori (rifiuto del ruolo, in attesa di poter cambiare clinicamente sesso, per sentirsi pienamente realizzato).
Gli omosessuali, invece, hanno diverse caratteristiche, nel senso che essi non vengono ben accettati da coloro che hanno cambiato sesso o che avvertono l’esigenza di farlo. Anzi, se si trovano per necessità a convivere assieme, nascono facilmente litigi ed incomprensioni a causa del differente modo di vivere la loro condizione di “diverso”.
Negli omosessuali, infatti, non sono evidenti spesso, quegli atteggiamenti manifesti che caratterizzano la diversità e che secondo il modo di vedere dei transessuali risultano elementi essenziali, imprescindibili per potersi identificare, per distinguersi dagli altri in quanto i transessuali si sentono diversi non solo interiormente ma anche esteriormente ed il loro travestimento o l’assumere sembianze femminili, o la necessità di cambiare sesso, rappresentano gli scopi primari della loro esistenza.
Ed è proprio tale particolare condizione psicologica che dà origine, in carcere, al problema dell’allocazione, della convivenza con gli altri ristretti.
Infatti, alcuni preferiscono sentirsi ghettizzati piuttosto che essere costretti a vivere insieme a persone con le quali non hanno nulla in comune e con le quali non intendono neppure dividere la sofferenza della detenzione. Preferiscono quindi la convivenza, a volte difficile e forzata, con soggetti che anche nell’ambiente esterno avevano le loro stesse problematiche esistenziali. Uniti si sentono più protetti, più tutelati da eventuali atteggiamenti ostili o ricattatori o addirittura violenti da parte degli altri ristretti. E’ per tali motivi che è necessario approntare idonei spazi all’interno degli istituti dove questi soggetti possano essere seguiti in modo attento ed adeguato.
Un detenuto transessuale, in una lettera scrive: “Per un transessuale il carcere appare subito come l’inferno; dentro un carcere esiste un altro carcere; ghetto nel ghetto, per chi è diverso la diversità che ti porti appresso è amplificata. Difficile anche trovarti un posto, non nella sezione maschile, non nella sezione femminile ma nella sezione peggiore, quella degli infami, dei pedofili ovvero, quella appunto dei trans…oggi mi è chiaro. La pena in carcere per un transessuale è la sua diversità, una diversità a cui il carcere non è preparato”.
Si può allora dire che in carcere la posizione dei transessuali si complica esponenzialmente e gli stessi avvertono ulteriormente, in questa “istituzione” la pesantezza della loro condizione, l’inibizione ed una difficoltà a svincolarsi dai “lacci” esistenziali e relazionali.
In questa serie di problematiche, possono essere individuati i maggiori elementi di criticità che emergono durante la gestione dei soggetti in esame e che, in totale, consistono:

  • nella individuazione dell’idonea allocazione dei detenuti omosessuali;
  • nella difficoltà di controllo durante la frequenza della scuola, a causa della promiscuità (es. bagni);
  • nell’allocazione dei transessuali classificati AS3 [80] che sono messi a vita comune in sezione protetta senza però la possibilità di partecipare alle attività trattamentali con i comuni né con gli AS3;
  • nelle relazioni con i detenuti comuni (rapporti disciplinari anche a carico dei comuni; le difficoltà di controllo; i traffici);
  • nei pericoli per l’ordine e la sicurezza e le conseguenti richieste di allontanamento;
  • nei contrasti, gelosie, aggressioni, solitudine, abbandono e nell’etero ed autoaggressività (isteria; scarso autocontrollo; imprevedibilità) [81];
  • nel problema degli stranieri e dei malati [82].

§ 3.7 Uguaglianza e dignità

L’art. 3 della Costituzione fissa il fondamentale principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge [83], prevedendo espressamente che ciò avvenga, tra l’altro, “senza distinzione di sesso”.
Nella più alta definizione del principio di uguaglianza ai sensi dell’articolo 3 Costituzione, rientra l’indispensabile previsione della pari dignità sociale. [84]
Nella detenzione, la particolare situazione di limitazioni e disagi che insorge per i comuni ristretti, accentua maggiormente la percezione negativa del rispetto della dignità nei detenuti con disturbi dell’identità di genere, che già dalla società civile ricevono risposte discriminatorie.
Significative espressione di queste sensazioni sono le parole di Fabio Pellegrino, un detenuto che ha pubblicato un pensiero nella rivista “Il filo di Arianna” e che riassume benissimo l’insieme delle frustrazioni, delle privazioni e dei disagi che accomunano i detenuti del vigente Ordinamento penitenziario : “Il carcere riesce a strapparti persino la dignità, si vive come degli zombie al comando della volontà altrui, che non sono rieducatori come dovrebbero essere, bensì cercano in tutti i modi di sopprimere l’essere che esiste in ogni persona umana, quindi non si può più dire sono in carcere, perché carcere per l’Ordinamento Penitenziario significa ben altro. Si dovrebbe dire sono in un contesto strappa-anima. Io penso che finché il carcere sarà quello che è, mai si riuscirà ad ottenere risultati positivi per le persone che ci si ritrovano. Siamo come animali in cattività [85], rinchiusi lontani dal mondo perché come dei felini siamo pericolosi, e mentre per i felini è l’istinto animalesco che li rende tali, per noi non si capisce bene che cosa è che ci porta a fare certe cose” [86].
Un detenuto transessuale, che era riuscito ad ottenere un uncinetto ed un filo per svolgere dei lavoretti, scrive: “Ho iniziato così a fabbricare dei piccoli oggetti nella mia cella. Ogni oggetto che facevo era un passo verso la mia dignità. Lavoravo sempre di più e capivo che dovevo dimostrare di saper lavorare per essere considerata come un essere umano…”.

§ 3.8 La tutela della salute: le cure ormonali e la L. 164/82

La salute psichica è di per sé un problema dentro il carcere, per un transessuale può essere un problema ancora più serio. Il mancato riconoscimento della propria identità può portare a situazioni di vivibilità molto pesanti (autolesionismo o tentativi di suicidio, aggressività). Per essi, la tutela della salute investe l’intera delicata sfera psico-fisica.
Infatti, il diritto alla salute per il detenuto transessuale si esplica maggiormente nella possibilità di continuare, durante la detenzione, le cure ormonali iniziate in libertà.
Questo in quanto il Dap ha ritenuto che, l’interruzione improvvisa della terapia per i disturbi di genere, non espressamente contemplata nel LEA (livelli essenziali di assistenza), può comportare gravi danni alla salute psico-fisica della persona, oltre ad essere foriera di disturbi del comportamento della stessa, che potrebbero comportare conseguenze per l’ordine e la sicurezza dell’istituto. Questa risposta del Dap è stata consequenziale ad una richiesta di un magistrato di sorveglianza, che doveva decidere in merito ad un reclamo, proposto nel 2010, da un detenuto transessuale, reclamo relativo alla mancata somministrazione a spese dell’Amministrazione delle cure ormonali di cui lo stesso necessitava [87].
La previsione della somministrazione gratuita del trattamento ormonale da parte dell’Amministrazione Penitenziaria è connessa all’esigenza di assicurare l’integrità psico-fisica del soggetto che del diritto alla salute è una specificazione, purché le cure siano già state intraprese prima della detenzione. Spesso, infatti, succede che i transessuali all'esterno abbiano già iniziato un loro percorso di trasformazione del corpo, assumendo ormoni prescritti da medici endocrinologi all'interno dei reparti specialistici ospedalieri cui si rivolgono. All'ingresso in carcere questo percorso viene sospeso, almeno momentaneamente e ripreso, in seguito, sotto la guida di altro personale medico.
Viene inoltre interrotto anche il percorso psicoterapeutico, assolutamente indispensabile in questo passaggio.
Per i detenuti transessuali il diritto costituzionale in oggetto (art.32) ha trovato una soluzione normativa con la legge n. 164/82. Prima dell’emanazione della legge n. 164 (prima del 1982, in Europa, solo ex Germania occidentale e Svezia avevano leggi in materia di transessualismo) l’ordinamento giuridico italiano negava la possibilità di effettuare interventi chirurgici volti a modificare i caratteri sessuali. La scienza assegna così all’intervento chirurgico natura terapeutica. Tuttavia, in connessione alla portata innovativa di questo riconoscimento del diritto alla salute del soggetto transessuale c’è un aspetto degno di considerazione, quello, appunto, relativo al fatto che, per alcuni quadri patologici e le corrispettive terapie, le strutture penitenziarie non sono attrezzate e, questo, genera criticità di notevole rilevanza, con potenziali gravi ripercussioni sull’interessato.
In merito a questo pare interessante il caso di un detenuto transessuale che, in una lettera [88] indirizzata al Magistrato di sorveglianza, reclamava il suo diritto alla cura prescritta dall’endocrinologo. Lo stesso scriveva la lettera in forma di protesta contro il sistema sanitario locale che non riesce a far fronte alla sua personale situazione clinica, l’inadeguatezza della terapia e dell’intervento medico, non rendendosi conto dei danni fisici e psicologici a cui egli stava andando incontro [89]. Infatti, gli effetti della sospensione forzata del trattamento ormonale, attuata in molti istituti penitenziari, risultano essere devastanti in quanto vanno ad incidere non solo fisicamente ma anche psicologicamente con gravi conseguenze.

§ 3.9 La gestione dei detenuti transessuali ristretti presso il G8 di Rebibbia

L'istituto di Rebibbia Nuovo Complesso dispone di un reparto dedicato ai detenuti transessuali, il reparto G8 [90],che ospita detenuti con posizione giuridica definitiva, con fine pena lunga (con condanna minima di 5 anni) ritenuti “precauzionali” a ragione delle loro peculiarità sul piano personologico, tipiche del disturbo dell’identità di genere.
I detenuti in argomento, invece, sono di diverse posizioni giuridiche (definitivi, giudicabili o ricorrenti ed appellanti) ed il cui termine pena è previsto tra il 2011 ed il 2014, con qualche eccezione che va ben oltre tali date.
La loro gestione è quella propria di una sezione circondariale, con medesime regole e medesimi orari e, per la fruizione dell’aria è previsto un piccolo cortile passeggi.
I transessuali ivi presenti sono anagraficamente registrati quali uomini e non sono mai stati sottoposti ad intervento chirurgico per il cambiamento del genere e, pertanto, si tratta di soggetti più precisamente definiti transgender (termine che sta ad indicare un soggetto “non transitato” nell’altro sesso). Per un certo periodo di tempo i detenuti transessuali erano pochi, due o tre al massimo, tra l’altro molto pericolosi, tanto da richiedere particolare sorveglianza da parte di personale dotato di capacità ed esperienza.
Con il tempo, però, il numero di essi è aumentato, circa venti ubicati in stanze multiple da 4 posti ciascuna. Le caratteristiche richieste ai detenuti da destinare a questo reparto, filtrati direttamente dalle sezioni circondariali dell’Istituto (ovvero assegnati dal DAP o dal Prap) sono: buona condotta, affidabilità e validi propositi di reinserimento.

Attualmente, due sono i detenuti transessuali che lavorano con mansioni di scopino e portavitto all’interno della sezione di appartenenza; frequenti sono gli interventi trattamentali supportati dalla collaborazione con l’esterno.
Relativamente alla gestione del reparto, quando sorgono incomprensioni più o meno gravi e vengono posti divieti d’incontro, in caso di isolamento disciplinare o sanitario, si fa ricorso alle due stanze singole disponibili al secondo piano del G8. Collocazione che diventa temporanea in quanto il transessuale è ubicato in una sezione adibita ai detenuti comuni con i quali, nonostante i notevoli sforzi, non è esclusa la possibilità di contatti (specie quando vengono lasciati aperti i blindati). Infatti, in caso di isolamento giudiziario, per cui l’assenza di contatti anche verbali deve essere garantita, il transessuale viene spostato ad altro reparto (cd. G 12 terra B) che dispone solo di stanze di isolamento.
Anni fa si era tentato un esperimento, quello di collocare due transessuali, i più tranquilli ed affidabili, in una camera all’interno della sezione comune del G8, esperimento fallito in quanto da tale collocazione ne è derivato una serie di relazioni incontrollabili tra detenuti, malumori, gelosie e contrasti. Un altro esperimento è stato quello di consentire ai detenuti transessuali di fruire delle ore d’aria con i detenuti comuni, nel “passeggio”grande, per due volte a settimana ma, anche in questo caso sono nate relazioni sentimentali con conseguenti gelosie e contrasti. L’eccessiva possibilità di contatto tra loro è stata, dunque, fonte di contrasti. Si raccontano episodi di reciproche aggressioni fisiche, antipatie e competizione, al punto tale che, dopo un periodo in cui era stato loro concesso di circolare all’interno della sezione, con l’apertura delle celle, si è ritenuto necessario ritornare agli orari normali.

Da un’indagine svolta presso il reparto G8 risulta che l’età media di questi detenuti è 35 anni, la maggior parte di nazionalità straniera, proveniente dal sud America e con titolo di studio scuola media o secondaria, pochi di scuola elementare.
Ovviamente si tratta di soggetti uomini MTF (male to female) che, quindi, non hanno subito l’intervento chirurgico, quindi non transitati, che tuttavia si sentono donne a tutti gli effetti [91] (in un certo senso “esigono” che si usi il sostantivo femminile nei loro confronti), pur essendo uomini fisicamente e anagraficamente, sono donne nella loro esperienza psicologica, mostrano sia nel loro modo di presentarsi che nei comportamenti abituali, forme espressive, moti dell’animo ed interessi tipici della donna. Ugualmente per il tono della voce, spesso, in modo più vistoso, per la cura del corpo e dell’abbigliamento.

Questi soggetti, caratterialmente, hanno una miscela di tratti maschili e femminili: in sostanza, manifestano aggressività (propria dell’indole maschile) e la sensibilità e tenerezza che contraddistingue la figura femminile.
L’assegnazione al reparto maschile dei transessuali, infatti, viene spesso percepita da questi come un non riconoscimento della loro identità di genere e del loro orientamento sessuale. Un esempio esplicativo in tal senso può essere connesso con l’abbigliamento in quanto molti di essi sono di origine straniera e non hanno nessuno che possa portare loro i vestiti. Di questo problema si fanno carico organizzazioni come la Caritas, che però forniscono loro esclusivamente abiti maschili, che sistematicamente vengono rifiutati in quanto non riconosciuti come indumenti appartenenti al loro fisico. Ciò in quanto questi soggetti hanno attivato un meccanismo di adattamento del proprio fisico alla percezione che hanno di sé.
Il mancato riconoscimento della propria identità può portare a situazioni molto pesanti che sfociano spesso in episodi di disordini o autolesionismo.

Elementi comuni più interessanti che risultano dall’indagine sono relativi al rapporto con la famiglia di origine, il rapporto con un eventuale partner, la prospettiva lavorativa futura. Tra i reati in espiazione si contemplano prevalentemente quelli di omicidio, rapina, traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, resistenza al pubblico ufficiale. Nonostante l’origine straniera di provenienza, essi si adattano bene all’uso della lingua italiana probabilmente perché la prostituzione e la loro permanenza in Italia, sono motivi di questa forma di adattamento linguistico.

Emerge che in tutti esiste una coscienza cruda e pesante sulle reali opportunità che vengono loro offerte per tirare avanti con dignità attraverso il lavoro ed un auspicio ad essere accettate all’esterno una volta terminato questo loro percorso di restrizione.
Risultano, invece, assenti i contatti epistolari con altri detenuti mentre molto fitta è la corrispondenza con amici, conseguenza, ovviamente, della ripetuta monotonia che li pervade e che scandisce le loro giornate.
La detenzione per essi è vissuta, fin dai primi giorni, in modo molto negativo, con forme di depressione legate al “timore di invecchiare e morire qua dentro” e, anche successivamente, manifestano grandi difficoltà di adattamento a causa della loro condizione di “diversità” e della loro allocazione che li costringe alla differenziazione di trattamento. Gli stessi che, per questo stato di semi-isolamento, non si sentono rispettati nella loro privacy in quanto visti come soggetti “anomali” ed oggetto di curiosità. Un detenuto transessuale riferisce che “trova disumano restare chiuso/a in una cella per tutta la giornata in quanto questo stato di cose affligge maggiormente questo loro essere diversi”; un altro riferisce, a tal proposito “siamo chiuse come gli animali”. Essi lamentano l’impossibilità di fruire dell’apertura delle camere detentive, come gli altri detenuti “uomini”. Sulla base di queste affermazioni, lanciano un appello che li possa aiutare a vivere serenamente e dignitosamente la detenzione: sarebbe opportuna la previsione di strutture destinate solo ai reparti trans [92], dove non ci si senta isolati dagli altri detenuti, dove ci si possa spostare tranquillamente e fruire delle attività trattamentali senza limitazioni di categoria. Affermano, tuttavia, che esistono ottimi rapporti sia con i detenuti della sezione che con il personale di P.P [93]. Essi si sentono rispettati nel diritto alla salute relativamente al trattamento ormonale; parlano del futuro, del cambiamento di vita, del loro desiderio di reintegrazione e di essere accettati per quello che sono, di poter lavorare e ritornare alla propria famiglia.

Nei grafici che seguono sono riportati i seguenti elementi di indagine:
Nazionalità (grafico1): riguarda la provenienza dei detenuti del reparto in oggetto.
Essi risultano essere nella maggiore percentuale di nazionalità sudamericana.
Religione (grafico 2): uno solo tra i detenuti sentiti risulta professare religione diversa da quella cattolica.
Rapporti con la famiglia di origine: prevalentemente buoni (grafico3).
Rapporti con il personale di Polizia Penitenziaria: (grafico 4) i detenuti dichiarano di avere buoni rapporti e ritengono che il personale di P.P. sia molto professionale ed umano.
Come si svolge la giornata in carcere: (grafico 5) prevale la noia e la continua monotonia; una piccolissima “fetta” dice di trascorrere la giornata bene oppure dormendo e studiando.
Stati d’animo: (grafico 6) è particolare notare come emergano alcuni stati d’animo comuni a tutti; il dato più rilevante è la sofferenza di solitudine, accompagnata dalla monotonia, dalla noia, dalla vergogna, dal senso di colpa, dalla tristezza, dal “sentirsi giudicato”.
Campo del vissuto: (grafico7) rilevano la disperazione e l’abbandono.

§ 3.10 Gli interventi a sostegno e il ruolo del Comandante di Reparto negli Istituti con sezioni “precauzionali”.

Cosa è necessario fare singolarmente (da parte di ogni operatore penitenziario) e cosa l’Amministrazione Penitenziaria può fare per rendere meno disagiata e discriminata la detenzione di coloro che si trovano nelle “sezioni precauzionali”? [94] Laddove risultano scarsi o addirittura assenti le azioni in merito, sarebbe necessario attuare delle previsioni in maniera più accentuata, innanzitutto attraverso interventi che favoriscano l’integrazione nella vita all’interno dell’istituto penitenziario e lo sviluppo delle potenzialità creative dei transessuali o omosessuali (corso di teatro, corso di attività artigianali, corsi di pittura) nonché prevedere corsi di italiano per stranieri (considerato, per i primi, il numero consistente di detenuti provenienti dal Sud America) finalizzati all’integrazione ed al superamento della barriera linguistica. E’ necessario, inoltre, che i detenuti vengano supportati da un group counseling [95] di aiuto per il raggiungimento della consapevolezza della propria condizione psicologica e l’individuazione di obiettivi realisticamente realizzabili a breve termine nel carcere ed a lungo termine nella società allargata.
Dal punto di vista sanitario non deve mai mancare la consulenza endocrinologica nel percorso di adeguamento tra l’identità psichica e l’identità fisica nonché l’informazione e le consulenze sulla sieropositività e sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili.

La particolare catalogazione di detenuti, poi, pone tutta una serie di problematiche che il Comandante di Reparto dovrà risolvere, per contemperare le esigenze di sicurezza con quelle trattamentali e precauzionali.
Innanzitutto, a tal fine è necessario, attraverso diversi briefing, informare il personale di P.P. in merito a quanto sia delicata la gestione di questi detenuti e che eventuali errori potrebbero creare gravi problemi per la sicurezza e l’incolumità degli stessi. Per raggiungere tale scopo, quindi, il Comandante dovrà selezionare il personale da impiegare nella sezione di interesse, facendo ricadere la scelta sul personale che avrà fatto dei corsi di formazione specifici, riguardanti la gestione di tali detenuti e che abbia già esperienza in “sezioni protette/precauzionali” oppure scegliere, tra il personale, quello che ritiene più idoneo per doti e attitudini professionali e umane. Nello stesso tempo è, altresì, necessario far acquisire al personale in servizio presso questi reparti la consapevolezza dei rischi in caso di atteggiamenti troppo rigidi o troppo severi o peggio offensivi (autolesionismo-tentativi di suicidio) considerando che si tratta di soggetti molto fragili. L’attenzione del funzionario deve essere indirizzata anche alle continue udienze con i detenuti in esame, al fine di rilevare eventuali problematiche di contrasti o di disagio o, peggio, di incolumità personale, il tutto rapportato su un registro che possa fungere da promemoria per l’attivazione dell’intervento. Quanto sopra, al fine di garantire la tutela dei diritti fondamentali di soggetti che ancora oggi avvertono nell’ambiente detentivo il senso di abbandono e di discriminazione.

 

NOTE

  • nota 1 estratto da www.giustizia.it Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio per la gestione e il sistema informativo automatizzato - Sezione statistica.
  • nota 2 Tale norma va letta in corrispondenza con l'art. 31 Cost. in virtù della quale "La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la  formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie  numerose".
  • nota 3 nel quadro normativo in materia è centrale, nel sistema della legge penitenziaria, la norma posta dall’articolo 28 legge 26 luglio 1975, n. 354  (cosiddetta legge penitenziaria), a mente del quale «particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei reclusi con le famiglie». È questa una statuizione che, sul piano trattamentale, assolve ad una pluralità di funzioni. Essa è certamente finalizzata a preservare un complesso di «fattori protettivi» in grado di svolgere un’azione di contenimento rispetto a condotte recidivanti. È infatti un dato di comune esperienza che all’atto del ritorno del detenuto nel contesto sociale di riferimento, la presenza di legami di natura familiare ed affettiva possa fungere da efficace controspinta rispetto a situazioni potenzialmente criminogene. Ma al tempo stesso il mantenimento delle relazioni familiari costituisce un fondamentale «valore sociale», che in quanto tale corrisponde ad un vero e proprio diritto della persona e dei suoi congiunti, che l’Ordinamento intende preservare, in quanto tale, dai possibili «effetti collaterali» della detenzione".
  • nota 4 art. 28 ordinamento penitenziario
  • nota 5 CORSO, in Grevi 1981,179; Fassone,215; 215.
  • nota 6 Vi è stata iniziale incertezza della dottrina nell'inquadramento della posizione giuridica del detenuto e dell' internato rispetto ai colloqui, sino all'intervento della cassazione a sezioni unite 2002 .La maggior parre degli autori poneva l'accento sul mancato utilizzo del termine "diritto" da parte della legge del '75 e del regolamento 230/200 e sulla necessità del provvedimento autorizzatorio, concludendo che per l'esigenza di uno specifico potere dispositivo dell'amministrazione e la "conseguente degradazione del diritto ad interesse legittimo" (BERNARDI,NESPOLI). Diversa opinione è stata invece espressa da chi, pur non confutando la "timidezza e l'ambiguità" del dettato legislativo , riconosce ai detenuti un vero e proprio diritto soggettivo ai colloqui, sia perché tale lettura tutela meglio i diritti di libertà individuale, sia perché, l'autorizzazione è un provvedimento amministrativo che deve essere adottato da un'autorità a ciò preposta e, se così fosse, la norma rimetterebbe al Direttore dell'istituto di autorizzare quanto ivi disposto (Stortoni) , cfr nota 3 dell'art. 18 di Ordinamento penitenziario commentato,GIOSTRA – DELLA CASA.
  • nota 7 cfr. La disciplina giuridica degli istituti preposti al mantenimento dei rapporti familiari, estratto da www.altrodirititto.unifi.it.
  • nota 8 Cfr. Colloqui visivi e telefonici: non solo un diritto del detenuto ma anche componente del trattamento di Massimo DE PASCALIS in Diritto penale e processo n. 31/1995, pag 384 e segg..
  • nota 9 Nell’ambito di tale discrezionalità dall’art. 18, comma 5, O.P. emerge comunque un favor familiae (in tal senso, Circolare D.A.P. n. 3478 del 1998), che trova ulteriore conferma nella disciplina dettata dall’art. 39, comma 2, Reg. esec. In particolare le due norme distinguono la corrispondenza telefonica diretta ai familiari e ai conviventi da quella diretta ai terzi; solo per questi ultimi è richiesta la sussistenza di ragionevoli e verificati motivi ai fini dell’autorizzazione.
  • nota 10 cfr. Circolare D.A.P. n 3478/5928 dell'8.7.1998. La dottrina, richiamata dalla stessa circolare, (1) opera tuttavia una distinzione teorica tra i due termini, intendendo con il termine "congiunti" le persone legate da un rapporto di parentela o di affinità, e con il termine "familiari", i congiunti conviventi. Questi ultimi vengono inoltre assimilati alla diversa espressione "prossimi congiunti", contenuta nell'art. 307 del codice penale, richiamata in tal senso dalla circolare dell'Ufficio Studi del D.A.P. n. 2656/5109 del 15 gennaio 1980.
  • nota 11 si richiama la definizione penale dell'art. 307 cp
  • nota 12 Cfr Circolare n. 3520/5970 del 2000 con la quale l’Amministrazione penitenziaria ha precisato l’ambito di applicazione dell’art. 61 reg. esec.. In relazione alla necessità di “affrontare la crisi conseguente all’allontanamento dal nucleo familiare”, sono richiesti accertamenti sulla realtà familiare e sul sopravvenire di una situazione di crisi causata dall’allontanamento del soggetto. I colloqui aggiuntivi con i minori devono rendere possibile un rapporto valido, così qualificato tenendo conto delle molteplici circostanze. Infine, in merito al terzo motivo che consente l’applicazione dell’art. 61 Reg. esec. (preparare la famiglia, l’ambiente di vita e il soggetto al rientro nel contesto sociale), i colloqui aggiuntivi e le particolari modalità di visita potranno essere concessi nel tempo prossimo alla scarcerazione per fine pena o per ammissione a misure alternative.
  • nota 3 G. DI GENNARO, M. BONOMO, R. BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1976, p. 142.
  • nota 4 G. LA GRECA, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 256.
  • nota 15 Magistratura di Sorveglianza di Campobasso, 23 settembre 1978, in "Rivista Penale", 1979, p. 89 e in Giurisprudenza di Merito", 1979, p. 979, citato in CANEPA, M., MERLO, S., Manuale di diritto penitenziario, 1996, p. 146.
  • nota 16 l’art. 14 quater, co 5, O.p. statuisce il principio che i trasferimenti devono determinare il minimo pregiudizio possibile per la famiglia, anche quando si tratti di soggetti sottoposti al regime di Sorveglianza particolare ex art. 14 bis O.p..
  • nota 17 P. CORSO, I rapporti con la famiglia e con l'ambiente esterno; colloqui e corrispondenza, Corso -Grevi,pag.183 .184.
  • nota 18 ardito è il cenno della medesima dottrina, in senso favorevole alla sessualità del detenuto con il coniuge, motivandolo con un riferimento all'art. 5 O.p., comma 2° laddove prevede che:"gli edifici penitenziari devono essere dotati, oltre che di locali per le esigenze individuali...".
  • nota 19 Cfr. Ordinamento penitenziario commentato, cit. art. 18 e anche DELLA CASA , Ordinamento penitenziario in Enc. D. Ann, II, t. II, 806.
  • nota 20 In tali termini C. 9 aprile 21009, Guagliardo, C. pen. 93, 1549, che ha negato al condanna un incontro in condizione di detenzione con la moglie, in alternativa ai permessi premio ).
  • nota 21 per i permessi premio l’art. 30quater Ord. Penit. richiede periodi di pena, presofferta prima della concessione, sempre più elevati man mano che la pena e la necessità (per il protrarsi della astinenza forzata) aumentano. La quota restante dei detenuti, astrattamente ammissibile, ne fruisce in misura senz’altro minoritaria.
  • nota 22 L'istituto si caratterizza per la sua azione positiva: in primo luogo esso esplica una funzione incentivante attraverso il meccanismo della premialità, che stimola nel condannato un atteggiamento psicologico di maggior favore all'osservanza delle norme che regolano la vita d'istituto; in secondo luogo, il permesso svolge una funzione specialpreventiva, in quanto contribuisce al mantenimento degli interessi affettivi, culturali e lavorativi del detenuto e svolge una funzione integratrice del reinserimento sociale, permettendo al soggetto di saggiare il suo comportamento in libertà, mettendolo nella condizione di affrontare le proprie responsabilità con la possibilità di abbandonare o di ribadire le proprie vecchie scelte, in A. MARGARA, La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere, una scommessa contro il carcere, in "Questioni di giustizia", 1986, p. 530.
  • nota 23 SACCOMANI, in Giustizia penale 10, II, 353, osserva come il riferimento normativo sia rivolto alla liceità della circolazione e delle pubblicazioni e non alla loro commercializzazione, con conseguente possibilità di ingresso in carcere anche delle pubblicazioni distribuite gratuitamente; la lettura sarebbe un "diritto del ristretto".
  • nota 24 cfr. Corso, cit, e nota circolare min. n. 1862/3419 del 14 febbraio 1970.
  • nota 25 Cfr. DE GENNARO, BREDA, LA GRECA, cit..
  • nota 26 Ordine di servizio n. 160 del 28 novembre 2011 della Casa circondariale di Teramo, nella persona del dott. Stefano LIBERATORE.
  • nota 27 On. Anna Maria Serafini, On. Francesco Bonito, On. Luigi Olivieri, On. Fabrizio Cesetti, On.Luigi Saraceni, On. Marcella Lucidi, On. Vincenzo Siniscalchi, On. Francesco Carboni, On.Angelo Altea, On. Ennio Carrelli.
  • nota 28 “Si tratta di garantire quei legami, quella solidarietà , quel bisogno di stringere un figlio o di abbracciare una madre senza che questo possa essere negato o raggelato dalle fredde regole vigenti negli istituti. Dal provvedimento emergono le richieste di aumento delle ore di colloquio con conviventi e coniugi, di allargamento del sistema dei permessi, dell’applicazione dell’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario per la tutela e la cura dei figli.” (testo finale dell'incipit della proposta di legge 1503/1996).
  • nota 29 “Lo schema originario di regolamento prevedeva una particolare forma di permesso, riconducibile all'istituto della visita, previsto dall'art. 61, che avrebbe consentito ai detenuti ed agli internati di trascorrere con i propri familiari, un periodo di tempo fino a 24 ore continuative in unità abitative appositamente predisposte all'interno dell'Istituto, limitando il controllo del personale di polizia penitenziaria alla Sorveglianza esterna dei locali, con la possibilità di effettuare controlli all'interno solo in presenza di situazioni d'emergenza. Si trattava di una novità molto rilevante perché costituiva un importante affermazione del diritto di ogni detenuto di mantenere relazioni naturali fondamentali per la realizzazione del proprio diritto di vita. (29) La proposta rappresentava infatti una possibile soluzione di apertura riguardo al delicato problema della sessualità in carcere" in Le relazioni familiari nella normativa penitenziaria da www.altrodiritto.it
  • nota 30 all’articolo 58, prevedeva la possibilità per il Direttore di istituto di autorizzare incontri tra i detenuti ed i propri familiari in apposite «unità abitative», ovviamente al di fuori del controllo visivo del personale penitenziario.
  • nota 31 Come ha osservato, peraltro, Corleone nel suo libro dedicato agli anni di governo, il diritto all'affettività sia stato banalmente unificato, in maniera semplificata e approssimativa, con il diritto alla sessualità: “è una scelta, che il nuovo regolamento  riconosceva come tale, ma non è necessariamente un obbligo alla sessualità”; v. F. CORLEONE, La giustizia come metafora, Menabò, 2001.
  • nota 32 Parere del Consiglio di Stato n. 61 del 17 aprile 2000.
  • nota 33 P. CANEVELLI, Il commento al Nuovo regolamento recante norme sull'Ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, in "Diritto Penale e Processo", n. 10/2000, p. 1321.;
  • nota 34 F. Ceraudo, La sessualità in carcere: aspetti ambientali, psicologici e comportamentali, in A. Sofri, F. Ceraudo, Ferri Battuti, ArchiMedia, Pisa, 1999.
  • nota 35 A. Sofri, Note sul sesso degli uomini prigionieri, in Ferri battuti, Archimedia, Pisa, 1999, p.81.
  • nota 36 I processi di adattamento e di depersonalizzazione procedono parallelamente ed in modo graduale a favorire la messa in atto di comportamenti sessuali nuovi e regressivi.
  • nota 37 Le energie per resistere a questi processi che alimentano e approfondiscono l’antisocialità, derivano soprattutto dai rapporti che il detenuto riesce a conservare col mondo esterno, dal contesto umano, dal dialogo e dal confronto relazionale.
  • nota 38 Nelle carceri giudiziarie il fenomeno è meno conclamato e piuttosto occasionale; in quelle penali riguarda anche il 30-40% dei detenuti.
  • nota 39 Viene soffocato il contesto relazionale, viene alterato il flusso delle sensazioni abituali, familiari, delle percezioni emozionali e persino sessuali.
  • nota 40 Nicolò Amato, “La formazione sui diritti dell’uomo. La dignità della persona al centro della legalità”, Atti delle iniziative per la celebrazione del 50° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Ministero della Giustizia – D.A.P..
  • nota 41 Stefano Anastasia, op. cit.
  • nota 42 Canepa M. – Merlo S., “Manuale di diritto penitenziario”, ed. Giuffrè, Milano.
  • nota 43 “Quando si parla di diritti dei detenuti e si afferma l’equivalenza di questi a quelli dei cittadini, si trascura spesso di occuparsi dell’effettiva possibilità di esercitarli”. Di Gennaro, Breda, La Greca: “Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione”, Giuffrè, Milano, 1997.
  • nota 44 Talvolta se ne parla con le dovute cautele, aggirandone persino la terminologia diretta, pur di salvare una certa parvenza di discrezione.
  • nota 45 L’affettività è un corollario della dignità, è una dimensione che completa la persona, e la sessualità ne è una componente.
  • nota 46 Apparirebbe opportuno, innanzitutto, sensibilizzare l’opinione pubblica.
  • nota 47 Il rischio è anche quello che la persona in vinculis, usufruendo delle opportunità e dei benefici appositamente previsti per l’esercizio del diritto all’affettività, possa veicolare all’esterno ordini e direttive, diretti a realizzare ulteriori attività criminose.
  • nota 48 Nelle stanze libere si dovrebbe poter mangiare, amare, socializzare.
  • nota 49 A. Marchisella, “L’ora d’amore”: “[...] di conseguenza la coppia verrebbe a trovarsi a casa propria, in un ambiente familiare: si eviterebbe il turbamento ed i fastidi da parte di chi dovrebbe predisporre e di chi dovrebbe predisporsi all'ora d'amore in carcere”.
  • nota 50 Voci di detenuti, in “Ristretti Orizzonti”, periodico d’informazione culturale dal carcere Due Palazzi, Padova.
  • nota 51 Ed ancora, la n. 63, d’iniziativa del senatore Malabarba, presentata il 28 aprile 2006 e la n. 3801, d’iniziativa degli On. Li Schirru e Codurelli, presentata il 21 ottobre 2010.
  • nota 52 IL SESSO DEGLI ANGELI – Nei labirinti della sessualità carceraria, Giorgio Panizzari, 1991
  • nota 53 Quel “doppio legame” che sta alla base dello sviluppo delle cosiddette “personalità
  • nota 54 IL SESSO DEGLI ANGELI – Nei labirinti della sessualità carceraria, Giorgio Panizzari, 1991
  • nota 55 Orientamento sessuale è l’attrazione erotica ed affettiva nei confronti di un’altra persona, del sesso opposto, dello stesso sesso o entrambi; può essere omosessuale, bisessuale o eterosessuale. Se volessimo quindi dare una definizione dell'orientamento sessuale eterosessuale ed omosessuale li descriveremmo così:
    • l'eterosessualità è l'orientamento proprio di una persona che prova sentimenti di amore, desiderio e attrazione sessuale nei confronti di persone di sesso diverso dal proprio;
    • l'omosessualità è l'orientamento proprio di una persona che prova sentimenti di amore, desiderio e attrazione sessuale nei confronti di persone dello stesso sesso.
      Le definizioni dei due orientamenti sessuali sono esattamente identiche; cambia solo l'oggetto del desiderio (www.psicologhiamo.it omosessualità) schizofreniche” (ILSESSO DEGLI ANGELI – Nei labirinti della sessualità carceraria di Giorgio Panizzari, 1991)
  • nota 56 Testo pubblicato su “Baci rubati” dal sito www.ildue.it da Specchio, inserto de "La Stampa" di Valentina Pigmei Torino, 12 febbraio 2005.
  • nota 57 Il sesso degli angeli – Nei labirinti della sessualità carceraria, capitolo “sublimazioni”, Giorgio Panizzari, 1991.
  • nota 58 Sbarbati, termine con cui , nel gergo carcerario, sono chiamate quelle persone, soprattutto giovani, inesperti ed alla loro prima esperienza di carcere che non sanno da che parte iniziare per potersi adattare alla loro nuova condizione di vita.
  • nota 59 The Prison Community, Donald Clemmer, 1958
  • nota 60 Attualità, Psicologia, Sessuologia, Sociologia di Giuliana Proietti Maggio 2006
  • nota 61 Oggi si parla anche di terzo sesso. Il primo Paese al mondo a prevedere il "terzo sesso" è l’Australia.
    Cosa scrivere sui documenti di una transessuale alla voce "sesso"? Sui passaporti la X designerà i transessuali nel modo più semplice, introducendo la possibilità, sui documenti, di segnare un sesso diverso da "male" (maschio) o "female" (femmina). E così i transessuali potranno segnare "X" (nel senso di sesso indeterminato) sul passaporto, ed evitare il rischio di essere arrestati per spionaggio, per avere un viso femminile e i documenti di un uomo (purtroppo accade anche questo, in particolare nei Paesi africani) da SIDNEY AUSTRALIA, articolo di Antonio Rispoli 15/09/2011
  • nota 62 Negli ultimi decenni l’aumentare del numero di persone transessuali che richiedevano l’adeguamento dell’identità fisica a quella psichica tramite interventi chirurgici, ha costretto gli operatori della salute a prendere in considerazione questa realtà ed a riconoscere quello che Harry Benjamin nel 1966 aveva definito il “fenomeno transessuale”, includendolo nel DSM III, DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS, DSM 1980 nella cui versione successiva, del 1987, viene utilizzato il termine transessualismo nell’ambito dei disturbi che insorgono nell’infanzia e nell’adolescenza fino ad arrivare alla versione più recente del 1994 (DSM IV) che sostituisce il termine transessualismo con l’espressione “disturbo dell’identità di genere”(estratto da appunti).
  • nota 63 IL CORPO INCARCERATO di Daniel Gonin, 1994
  • nota 64 IL CORPO INCARCERATO di Daniel Gonin, 1994
  • nota 65 IL SESSO DEGLI ANGELI – Nei labirinti della sessualità carceraria di Giorgio Panizzari
  • nota 66 Nel campo psichiatrico, al momento, si sono stabiliti due sistemi internazionali che definiscono le malattie mentali: 1) il “Manuale di Diagnostica e Statistica delle Malattie Mentali” (DSM), che include il termine “disordine d’identità di genere” per descrivere il disordine mentale delle persone che si sentono fortemente disforiche nel loro genere, e cioè che sono scontente con il sesso biologico loro assegnato alla nascita.;2) il secondo sistema della Organizzazione Mondiale per la Sanità nella “classificazione statistica internazionale delle malattie e dei corrispondenti problemi di salute” (ICD) cataloga la transessualità come un disordine mentale e comportamentale. È importante sottolineare che le persone transgender vengono in questo modo etichettate come persone con un disordine mentale. Dato che il DSM e l’ICD spesso vengono riflessi dalle classificazioni mediche nazionali dei paesi europei, queste classificazioni sono utilizzate spesso per la diagnosi delle persone transgender negli Stati membri del Consiglio d’Europa.
  • nota 67 Il concetto di identità di genere viene utilizzato per descrivere il genere in cui una persona si identifica (cioè se si percepisce uomo o donna, o in  qualcosa di diverso da queste due polarità). Essa è, in sostanza, il “senso di se stesso”, indipendentemente dal ruolo sessuale che presenta agli altri, volontariamente o no. Questa consapevolezza interiore porta a dire “ io sono uomo” o “io sono donna”, tratto permanente, solitamente stabilito nell’ infanzia.
  • nota 68 Capita, tuttavia, che i transessuali vengano anche per lunghi periodi assegnati alle “sezioni transito”, ossia, aree detentive poco ospitali e confortevoli, destinate, di norma, ad ospitare detenuti di passaggio (PSICOLOGIA PENITENZIARIA, Carlo Brunetti – Carmela Sapia, 2007)
  • nota 69 Rapporto sullo stato dei diritti umani negli Istituti Penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per i migranti in Italia” approvato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani negli Istituti penitenziari il 6 marzo 2012
  • nota 70 0 Secondo le ultime rilevazioni del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) negli Istituti Penitenziari italiani ci sono più di cento fra transessuali ed omosessuali dichiarati e che, pertanto, vengono collocati nelle sezioni “protette”, come da Circolare del 02.05.2001. La presenza più  ospicua si registra nell’Istituto di Poggioreale a Napoli.
  • nota 71 IL CORPO INCARCERATO, di Daniel Gonin 1994
  • nota 72 Art. 32 co. 3 Regolamento di Esecuzione “Si cura, inoltre, la collocazione più idonea di quei detenuti ed internati per i quali si possono temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni. Sono anche utilizzate apposite sezioni a tal fine, ma l’assegnazione presso le stesse deve essere  requentemente riesaminata nei confronti delle singole persone per verificare il permanere delle ragioni della separazione delle stesse dalla comunità”.
  • nota 73 Attraverso l’osservazione è dunque possibile modulare la risposta penitenziaria in base alle reali esigenze ed alle risorse della personalità a partire dai programmi di trattamento predisposti.; tale procedura è peraltro indispensabile per consentire l’assegnazione del soggetto all’istituto più idoneo a quello che è il suo programma di trattamento (Da Psicologia Penitenziaria, Carlo Brunetti-Carmelo Sapia, 2007).
  • nota 74 Per poter attuare un trattamento rieducativo nei confronti di singole persone, occorre aver preventivamente indagato sulle condizioni delle persone medesime, sulla loro struttura psico-fisica, sui motivi personali e sociali che hanno condotto alla violazione della norma penale (Da manuale di diritto penitenziario, Canepa – Merlo)
  • nota 75 E’, questo, un bisogno emerso frequentemente anche dalle diverse lezioni che si sono succedute durante il corso e durante le ultime conversazioni, successive alla fine del corso. Impegnare la giornata del detenuto significa diminuire il numero delle tensioni all’interno delle sezioni.
  • nota 76 Un grande passo verso la tutela dei diritti civili dei detenuti transessuali è stato fatto nel marzo 2011 in Gran Bretagna, dove, con le nuove linee guida del Ministero della giustizia, sono state date indicazioni sulla libertà del modo di vestirsi e sul comportamento che devono tenere gli agenti penitenziari:
    permetteranno ai detenuti trans di indossare abiti personali, protesi e reggiseno. L’intento, come si legge nel documento, è quello di permettere, alle persone in transizione, di vivere pienamente la propria personalità, anche se non hanno ancora subito l’operazione chirurgica di cambio sesso o se sono in terapia ormonale. “Tali prodotti – spiega il testo – vanno vietati solo nel momento in cui può essere dimostrata la loro pericolosità e comunque vanno contenuti in modo ragionevole”. Le persone transessuali potranno quindi ordinare a loro spese gli abiti adatti e scegliere come essere chiamate, cioè se come ‘signora’ o ‘signorina’, mentre chi ha già terminato il processo di cambio genere dovrà essere detenuto in carceri confacenti al nuovo sesso.
  • nota 77 Il risultato del tutto è la formazione della cartella personale del soggetto (Circolare DAP N.3271/5721 del 25 settembre 1989) contenente i dati giudiziari, biografici, sanitari nonché le notizie generali e particolari riguardanti il trattamento. Nel caso delle categorie in esame, la conoscenza pregressa del contesto socio-familiare del soggetto è rilevante, considerato che il disturbo della personalità è il risultato di un vissuto disagiato fin dalla prima infanzia o, se successivamente, del contesto socio-culturale. Non potrà risultare indifferente per l’operatività penitenziaria, la conoscenza della fragilità dei soggetti trans, un elemento caratteriale rilevante, essi denotano fragilità del carattere e spiccata tendenza all’isolamento se non hanno la possibilità di avere scambi con persone che abbiano la loro stessa identità.
  • nota 78 La terapia ormonale prevede un trattamento con iniezioni e somministrazione di pillole coadiuvanti e genera un senso di spossatezza, sonnolenza, appetito e a volte nausea (Il sesso degli angeli – Nei labirinti della sessualità carceraria, capitolo”si fa ma non si dice”Giorgio Panizzari 1991)
  • nota 79 Ha inizio una nuova fase in materia di trattamento penitenziario, dove introducendo il concetto di “individualizzazione del trattamento”, si abbandona l’antica logica della depersonalizzazione e si punta, invece, alla valorizzazione degli elementi della personalità del detenuto ai fini del suo recupero sociale (Psicologia penitenziara, Carlo Brunetti-Carmelo Sapia, 2007)
  • nota 80 Circolare DAP n. 20 del 9 gennaio.2007 e Circolare DAP 3619/6069 del 21 aprile 2009.
  • nota 81 E facile intuire le dinamiche di gelosie o di conquista che spesso gravitano all’interno degli ambienti descritti, innescando frequentemente scompiglio o antipatie talvolta apparentemente immotivate che possono sfociare in aggressioni manesche e trascinare sia gli interessati che coloro che li circondano in schieramenti contrapposti e belligeranti. Da Psicologia penitenziaria, Carlo Brunetti e Carmela Sapia, 2007.
  • nota 82 Negli istituti particolarmente grandi ed attrezzati possono esservi ubicati anche detenuti “trans” che sono tossicodipendenti e/o coloro che sono anche sieropositivi per HIV. In tal caso si incrociano e si sovrappongono, in modo confuso, le problematiche attinenti all’area dell’identificazione sessuale con quelle connesse alla gestione intramuraria della tossicodipendenza e della patologia cronica infettiva (Psicologia Penitenziaria, Carlo Brunetti-Carmela Sapia, 2007. Vedi anche Circolare DAP 091893 – 200.
  • nota 83 Il significato attribuito al principio di uguaglianza, dunque, non quello di limite al reinserimento sociale, bensì quello di garante dell’uniformità: ne sono corollario il principio di assoluta imparzialità nei riguardi di tutti i detenuti e quello che si pone a garanzia della parità delle condizioni formali all’interno degli istituti, al fine di evitare il crearsi di qualsiasi situazione di discriminazione e privilegio (Manuale di diritto penitenziario, Canepa Merlo).
  • nota 84 Estratto di una lezione del Dr. Gherardo Colombo.
  • nota 85 Questa percezione collegata all’essere animali viene ribadita dai detenuti del reparto G8 (Capitolo 6.1.3)
  • nota 86 Pellegrino, F. (2001). Il carcere e le sue conseguenze. Il filo di Arianna, 3, 27.
  • nota 87 Sentenza 23774/12 I sezione penale Cassazione, L’ASL, che aveva impugnato un provvedimento del magistrato di sorveglianza, non può rifiutare cura di ormoni femminili al detenuto transessuale.
  • nota 88 M.G.B. Asti, 7 agosto 1996 (Dal libro “ i territori della pena” di Pietro Buffa, capitolo La salute).
  • nota 89 Nel campo del sistema sanitario americano e quello penale viene valicata una frontiera sconosciuta in quanto, per la prima volta, sarà permesso a un detenuto per omicidio la possibilità di ricorrere agli interventi chirurgici per diventare una donna e per di più a spese delle Stato. La sentenza, la prima nel genere dopo che molte pretese analoghe erano state respinte in passato, tutela il diritto per il cittadino alla salute e a ricevere adeguate cure mediche anche in detenzione, anche se farà storcere il naso a molti che non vedono perché sponsorizzare quella che per molti è una scelta, mentre invece si tratta di una necessità.
    Almeno così hanno riconosciuto i giudici nel caso di un uxoricida che già da anni veste da donna e si sottopone alle cure ormonali per il cambio di sesso (vedi foto n.1).
    Un altro caso emergente che fa discutere è quello relativo alla vicenda della transessuale Ophelia De’lonta (detenuta in una prigione della Virginia) e la sua reazione al permesso negato di sottoporsi all’operazione per cambiare sesso (vedi foto n.2).
    Ad Ophelia, infatti, era stato concesso di assumere ormoni femminili, di indossare la divisa delle detenute donne e nel carcere il personale si rivolgeva a lei al femminile, le era stato, tuttavia, negato il trasferimento in un carcere per donne, così come la possibilità di cambiare il sesso chirurgicamente: Ophelia, “donna prigioniera del suo corpo da uomo”, ha tentato allora di operarsi da sola, utilizzando tre rasoi usa e getta. Quando è stata trovata è stato necessario darle ben ventuno punti di sutura per arginare l’emorragia (Www.blitquotidiano.it/cronaca-mondo/trans-castrato-sesso-detenuto-usa-883678).
  • nota 90 Il settore specifico per i detenuti transessuali è stato ricavato nel reparto presso la sezione B - Piano terra.
  • nota 91 “I veri transessuali sentono di appartenere all’altro sesso, desiderano d’essere e di operare come membri del sesso opposto, non di apparire tali soltanto; per essi, i loro organi sessuali sono deformità disgustose che devono essere trasformate dal bisturi del chirurgo” (Benjamin, 1966) da Psicologia penitenziaria, Carlo Brunetti - Carmela Sapia
  • nota 92 In effetti vi era già stato nel 2010 un progetto di un carcere per soli trans (ad Empoli): esso doveva essere un importante passo avanti, in grado di risolvere alcuni dei problemi più immediati della detenzione transessuale, come ne ha già dato prova la sua attuazione nel sistema penitenziario americano. Era l’ambizioso progetto, svolto dall’Amministrazione Penitenziaria e le associazioni trans del territorio, del primo carcere italiano pronto ad accogliere esclusivamente detenuti transessuali trasformando la casa circondariale di Empoli, già carcere esclusivamente femminile, in penitenziario riservato ai oggetti transessuali, nel tentativo di non ghettizzarli e poter rendere concreto, oltre che agevolmente fruibile, il trattamento penitenziario stesso. La struttura, dotata di una sala per dipingere, un’altra per la musica, una biblioteca ed un cortile all’aperto, con strutture e servizi quindi all’avanguardia in grado di tutelare da indebite restrizioni le persone trans detenute, con la previsione addirittura di un’azienda agricola dove produrre vino ed olio presentato. Questo istituto si apprestava quindi a diventare un laboratorio in cui sperimentare un nuovo modello di detenzione nel tentativo di fornire una risposta efficace e concreta ad un problema delicato, più volte affrontato in sede governativa e necessitante di una risoluzione nelle alte sfere.
    Per i detenuti erano pronti programmi educativi di vario livello e diversi piani di reinserimento nel mondo del lavoro; il personale di P.P. era stato preparato al lavoro nella nuova struttura mediante appositi corsi di formazione e tramite un ciclo di incontri con endocrinologi e psicologi della Asl del luogo. Non era stato visto come un ghetto, ma un’opportunità per evitarne l’isolamento nei penitenziari e dare a queste persone le motivazioni per progetti di reinserimento sociale mentre sono in detenzione (Carcere: un altro punto di vista, il carcere per trans gender di Empoli, di GENNARO BARBIERI)
  • nota 93 Per ogni detenuto è importante il rapporto con il personale di P.P. In una delle ultime conversazioni con la D.ssa Mascolo è stato interessante il riferimento ad un detenuto che, in una lettera, elogiava il comportamento di un poliziotto: “Ho conosciuto una guardia, così gentile….anche senza aver fatto del male deve sopportare il freddo ed il caldo…si perché qui fa freddo e caldo…quando uscirò voglio essergli riconoscente…cambiare e non tornare mai più qui dentro…”.
  • nota 94 Si intendono le sezioni ove sono allocati i detenuti con disturbi dell’identità. In sostanza si tratterebbe delle ccdd. “sezioni protette”, dette anche precauzionali a ragione della finalità connessa soprattutto alle “anomale” condizioni fisiche del soggetto, oggetto di pregiudizi e di disgusto per i “consociati di detenzione”(E’ un pensiero rielaborato, durante questo studio, a seguito di diverse conversazioni con operatori del settore).
  • nota 95 Il counseling non è una terapia ma una relazione d’aiuto, rivolta alle persone che desiderano un momento di ascolto per comprendere meglio i loro problemi, compiere scelte, cambiare le situazioni problematiche della loro vita.