Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell'11 ottobre 2018 - Ricorso n. 55216/08 - Causa S.V. contro Italia

© Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli Affari giuridici e legali, traduzione eseguita da Rita Carnevali, assistente linguistico e rivista con la dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

PRIMA SEZIONE

CAUSA S.V. c. ITALIA
(Ricorso n. 55216/08)

SENTENZA

STRASBURGO
11 ottobre 2018

Questa sentenza diverrà definitiva nelle condizioni definite dall'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa S.V. c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita in una camera composta da:

  • Linos-Alexandre Sicilianos, presidente,
  • Kristina Pardalos,
  • Guido Raimondi,
  • Aleš Pejchal,
  • Ksenija Turković,
  • Armen Harutyunyan,
  • Pauliine Koskelo, giudici,
  • e da Abel Campos, cancelliere di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 18 settembre 2018,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 55216/08) presentato contro la Repubblica italiana con cui una cittadina di tale Stato, la sig.ra S.V. («la ricorrente»), ha adito la Corte il 13 novembre 2008 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»). Il presidente della sezione ha accolto la richiesta della ricorrente di non divulgare la sua identità (articolo 47 § 4 del regolamento della Corte).
2. La ricorrente è stata rappresentata dagli avvocati M. De Stefano e G. Guercio, del foro di Roma. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.
3. Il 20 marzo 2016 il ricorso è stato comunicato al Governo.
4. Il 19 settembre 2016, le organizzazioni non governative Alliance Defending Freedom e Unione Giuristi Cattolici Italiani sono state autorizzate ad intervenire congiuntamente nella procedura scritta (articolo 36 § 2 della Convenzione e articolo 44 § 3 del regolamento della Corte).

IN FATTO

I.  LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

5. La ricorrente è nata nel 1965 e risiede a Ostia Lido.
6. Alla nascita, la ricorrente fu iscritta nel registro dello stato civile come persona di sesso maschile e fu chiamata «L.». Tuttavia, secondo lei, la sua identità sessuale è sempre stata femminile. L'interessata ha quindi condotto una vita sociale come donna sotto il nome di «S.». Ad esempio, la ricorrente, impiegata dal 1999 come funzionario pubblico, è sempre stata chiamata «S.» dai suoi colleghi. Sulla fotografia della sua carta d'identità, rilasciata nell'agosto 2000, il suo aspetto è quello di una donna.
7. Nel 1999, nell'ambito del suo percorso di transizione sessuale, la ricorrente iniziò un trattamento ormonale femminilizzante.
8. Il 9 novembre 2000 presentò al tribunale civile di Roma una richiesta formulata in base all'articolo 3 della legge n. 164 del 1982 in cui dichiarava di voler concludere il suo percorso di transizione mediante la modifica definitiva dei suoi caratteri sessuali primari e chiedeva di essere autorizzata a ricorrere a una operazione chirurgica di conversione sessuale.
9. Con sentenza del 10 maggio 2001, il tribunale constatò che la ricorrente aveva avviato un percorso di transizione sessuale in modo responsabile e, preso atto della sua determinazione, l'autorizzò a ricorrere all'intervento chirurgico per armonizzare i suoi caratteri sessuali primari con la sua identità di genere femminile.
10. Il 30 maggio 2001 la ricorrente, mentre era in attesa di poter effettuare l'intervento chirurgico autorizzato dal tribunale, chiese al prefetto di Roma il cambiamento del suo nome in base all'art. 89 del DPR n. 396 del 2000. Sosteneva che, considerato il suo percorso di transizione sessuale, avviato da diversi anni, e tenuto conto del suo aspetto fisico, l'indicazione di un nome maschile sui suoi documenti di identità era un motivo di umiliazione e di imbarazzo continuo. Inoltre, affermava che i tempi di attesa per l'intervento chirurgico erano di circa quattro anni.
11. Con una decisione del 4 luglio 2001, il prefetto respinse la domanda della ricorrente in quanto, secondo il DPR n. 396 del 2000, il nome di una persona doveva corrispondere al suo sesso. Ora, secondo lui, in assenza di una decisione giudiziaria definitiva recante una rettifica dell'attribuzione del sesso ai sensi della legge n. 164 del 1982, il nome della ricorrente non poteva essere modificato.
12. La ricorrente impugnò la suddetta decisione dinanzi al tribunale amministrativo regionale (TAR) del Lazio. Nel suo ricorso chiedeva anche la sospensione cautelare della decisione del prefetto.
13. Il 23 luglio 2001 la ricorrente fu sottoposta ad una mammoplastica. Per quanto riguarda l'intervento chirurgico volto alla modifica dei suoi caratteri sessuali primari, il 6 settembre 2001 fu iscritta in una lista d'attesa della clinica universitaria di Trieste.
14. Il 21 febbraio 2002 le TAR respinse la richiesta di sospensiva della decisione del prefetto.
15. Il 3 febbraio 2003, mentre il procedimento dinanzi al TAR era ancora pendente nel merito, la ricorrente subì un intervento chirurgico per modificare i suoi caratteri sessuali, da maschili a femminili. Chiese poi al tribunale civile di Roma, in una data non precisata, il riconoscimento giuridico del cambiamento di sesso sulla base dell'articolo 3 della legge n. 164 del 1982.
16. Con sentenza del 10 ottobre 2003, il tribunale di Roma accolse la domanda della ricorrente e ordinò al comune di Savona di modificare l'indicazione del sesso da maschile a femminile e il nome di «L.» in «S.».
17. Con sentenza del 6 marzo 2008, depositata il 17 maggio 2008, il TAR respinse il ricorso proposto dalla ricorrente avverso la decisione del prefetto del 4 luglio 2001. Il TAR ritenne che l'articolo 89 del DPR n. 396 del 2000, relativo al cambiamento di nome, non fosse applicabile nel caso di specie, e che la questione rientrasse piuttosto nelle previsioni della legge n. 164 del 1982 sulla rettificazione di attribuzione di sesso. A tale riguardo, sottolineò che quest'ultima legge disponeva che la modifica dello stato civile di una persona transessuale doveva essere disposta dal tribunale che si pronunciava sulla conversione sessuale di tale persona. Pertanto, ritenne che il prefetto avesse correttamente respinto la domanda della ricorrente.
Quest'ultima non impugnò la suddetta sentenza.

II.  IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A.  La legge n. 164 del 1982

18. La legge n. 164 del 1982 stabilisce le regole per la rettificazione di attribuzione di sesso. Secondo questa legge, in vigore al momento dei fatti, la rettificazione dell'attribuzione di sesso è fatta in forza di una sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello indicato nel suo atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali dell'interessato (articolo 1). Quando è necessario, il giudice istruttore dispone con ordinanza l'acquisizione di una consulenza volta ad accertare le condizioni fisiche e psichiche dell'interessato. Con la sentenza che accoglie la domanda di rettificazione, il tribunale ordina all'ufficiale di stato civile del comune dove è stato registrato l'atto di nascita di procedere alla modifica nel relativo registro (articolo 2).
19. Peraltro, l'articolo 3 della suddetta legge prevede quanto segue:
«Il tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza. In tal caso il tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio.»
20. L’articolo 3 della legge n. 164 è stato in seguito modificato dall'articolo 31, comma 4, del decreto legislativo n. 150 del 2011 nel senso che non è più necessaria una seconda decisione in camera di consiglio per ottenere la rettificazione dell'attribuzione di sesso.
Il suddetto articolo 31, comma 4, recita:
«Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato.»

B.  Il decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000 e il regio decreto n. 1238 del 1939

21. Ai sensi dell'articolo 35 del decreto del Presidente della Repubblica del 3 novembre 2000 («il DPR n. 396»), il nome imposto ad un bambino deve corrispondere al sesso di costui. Secondo l'articolo 89 dello stesso decreto, fatte salve le disposizioni applicabili in materia di rettificazione dei registri di stato civile, la persona che desideri modificare il proprio nome o aggiungere un altro nome al proprio, o cambiare il cognome perché vergognoso o ridicolo o perché rivela la sua origine naturale, deve presentare una domanda al prefetto competente.
22. Prima dell'entrata in vigore del DPR n. 396, il potere di decidere sulle domande di cambiamento di cognome o di nome, allora disciplinato dagli articoli 158 e seguenti del regio decreto n. 1238 del 1939, era conferito al procuratore della Repubblica.
23. Con decisione n. 18 del 12 aprile 1999, il procuratore generale della Repubblica presso la corte d'appello di Roma accolse la domanda di modifica di nome presentata da un transessuale non operato, M.U., ai sensi dell'articolo 158 del regio decreto n. 1238. Dinanzi al procuratore, il richiedente, di sesso maschile, sostenne di avere sempre avuto una natura psicologica e un comportamento tipicamente femminili e dichiarò che il fatto di portare un nome maschile lo esponeva a problemi di integrazione sociale e a una grande sofferenza personale. Il procuratore ritenne ammissibile la domanda di M.U. e lo autorizzò a cambiare il nome.

C.  La giurisprudenza della Corte di cassazione

24. Con la sentenza n. 15138 del 20 luglio 2015, facendo tra l'altro riferimento ai principi enunciati nella giurisprudenza della Corte, la Corte di cassazione ha stabilito che era escluso che l'articolo 3 della legge n. 164 del 1982 potesse essere interpretato nel senso che obbligava una persona transessuale a ricorrere all'intervento chirurgico per ottenere il riconoscimento della sua identità di genere, poiché la corrispondenza tra orientamento sessuale e aspetto fisico poteva essere ottenuta attraverso trattamenti psicologici e medici che rispettino l'integrità fisica della persona. La Suprema Corte ha così posto fine alla divergente interpretazione in questa materia tra i giudici di merito.

D.  La giurisprudenza della Corte costituzionale

25. Con la sentenza n. 221 del 20 ottobre 2015, la Corte costituzionale ha respinto un'eccezione di incostituzionalità degli articoli 1 e 3 della legge n. 164 del 1982. Facendo riferimento, tra l'altro, alla sentenza n. 15138 della Corte di cassazione, essa ha affermato innanzitutto che le disposizioni legislative in questione rappresentavano il risultato di una evoluzione culturale e giuridica volta al riconoscimento dell'identità di genere come elemento costitutivo del diritto all'identità personale. Ha aggiunto, interpretando l'assenza di un'indicazione esplicita delle modalità di modifica dei caratteri sessuali alla luce dei diritti fondamentali della persona, che tale assenza portava ad escludere la necessità di un trattamento chirurgico per ottenere una rettificazione giuridica dell'attribuzione di sesso, essendo questo soltanto una delle possibili tecniche per realizzare la trasformazione dell'aspetto di una persona.

III.  IL DIRITTO INTERNAZIONALE

A.  Le Nazioni Unite

26. Nella sua relazione al Consiglio per i diritti umani del 17 novembre 2011 intitolata «leggi e prassi discriminatorie e atti di violenza di cui sono vittime delle persone a causa del loro orientamento sessuale o della loro identità di genere» (A/HRC/19/41), l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani rileva, in particolare, che la normativa in vigore nei paesi che riconoscono il cambiamento di genere spesso subordina, implicitamente o esplicitamente, tale riconoscimento alla sterilizzazione (§ 72). In particolare, raccomanda agli Stati (§ 84 h):
«Di facilitare il riconoscimento giuridico del genere scelto dalle persone transgender e di adottare delle misure per consentire il rilascio di nuovi documenti di identità in cui siano indicati il genere e il nome scelti, senza violare altri diritti umani.»

B.  Il Comitato dei Ministri e l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa

27. Il 31 marzo 2010 il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha adottato la raccomandazione CM/Rec(2010)5 sulle misure volte a combattere la discriminazione fondata sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere. Tale raccomandazione stabilisce in particolare che «gli Stati membri dovrebbero adottare le misure appropriate per garantire il pieno riconoscimento giuridico dell’avvenuto cambiamento del sesso di una persona in tutte le sfere della vita, in particolare rendendo possibili le rettifiche dei dati anagrafici nei documenti ufficiali in modo rapido, trasparente e accessibile; gli Stati membri dovrebbero inoltre vigilare, ove necessario, affinché i soggetti non statali riconoscano l’avvenuto cambiamento e provvedano alle rettifiche corrispondenti nei documenti importanti, quali i diplomi o i certificati di lavoro» (allegato, punto 21).
28. Nella risoluzione 1728 (2010), adottata il 29 aprile 2010, relativa alla discriminazione basata sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa invita gli Stati «a garantire nella legislazione e nella prassi, i diritti [delle persone transgender] (...) a ottenere dei documenti ufficiali che riflettano l'identità di genere scelta, senza obbligo preventivo di subire una sterilizzazione o altre procedure mediche quali una operazione di conversione sessuale o una terapia ormonale» (punto 16.11.2).

IN DIRITTO

I.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE

29. La ricorrente sostiene che il rigetto della sua richiesta di cambiamento di nome, motivato dal fatto che non aveva ancora effettuato l'operazione di conversione sessuale, ha leso il suo diritto al rispetto della vita privata garantito dall'articolo 8 della Convenzione, ai sensi del quale:
«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.»
30. La ricorrente invoca anche l'articolo 3 della Convenzione, così formulato:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»
31. Libera di qualificare giuridicamente i fatti, la Corte ritiene opportuno esaminare le affermazioni della ricorrente soltanto dal punto di vista dell'articolo 8 della Convenzione (A.P., Garçon e Nicot c. Francia, nn. 79885/12 e altri 2, § 149, CEDU 2017 (estratti) e Radomilja e altri c. Croazia [GC], nn. 37685/10 e 22768/12, § 126).

A.  Sulla ricevibilità

1.  Sulla qualità di vittima

32. La ricorrente ritiene di essere ancora vittima della violazione dedotta dinanzi alla Corte nonostante la sentenza del tribunale di Roma del 10 ottobre 2003 l'abbia autorizzata a cambiare nome.
33. Sebbene il Governo non abbia sollevato alcuna eccezione relativa alla qualità di vittima della ricorrente, nulla impedisce alla Corte di esaminare tale questione proprio motu dal momento che interessa la sua competenza (si vedano ad esempio Buzadji c. Repubblica di Moldavia [GC], n. 23755/07, § 70, 5 luglio 2016 e Orlandi e altri c. Italia, nn. 26431/12 e altri 3, § 117, 14 dicembre 2017).
34. La Corte rammenta che una decisione o una misura favorevole a un ricorrente è sufficiente, in linea di principio, per privarlo della qualità di «vittima» ai fini dell'articolo 34 della Convenzione, soltanto se le autorità nazionali hanno riconosciuto, espressamente o in sostanza, e poi riparato, la violazione della Convenzione (si vedano, ad esempio, Eckle c. Germania, 15 luglio 1982, § 66, serie A n. 51, Dalban c. Romania [GC], n. 28114/95, § 44, CEDU 1999 VI, Scordino c. Italia (n. 1) [GC], n. 36813/97, §§ 179-180, CEDU 2006‑V, e Gäfgen c. Germania [GC], n. 22978/05, § 115, CEDU 2010). È solo quando queste due condizioni sono soddisfatte che il carattere sussidiario del meccanismo di protezione della Convenzione preclude un esame del ricorso (Eckle, sopra citata, §§ 69 e segg.).
35. Nel caso di specie, le autorità nazionali hanno certamente adottato una decisione favorevole alla ricorrente accordandole l'autorizzazione richiesta per modificare il suo nome. Tuttavia, la Corte non può ignorare il fatto che la situazione lamentata che ha dato origine al presente ricorso, vale a dire l'impossibilità per la ricorrente di ottenere il cambiamento di nome a causa del rifiuto delle autorità giudiziarie, sia persistita per più di due anni e mezzo. La Corte ritiene che la ricorrente abbia direttamente subìto gli effetti di tale rifiuto nella sua vita privata durante questo periodo (si veda Y.Y. c. Turchia, n. 14793/08, § 53, CEDU 2015 (estratti). Del resto, la sentenza del 10 ottobre 2003 e le altre decisioni interne relative al caso della ricorrente non contengono alcun riconoscimento espresso di una violazione dei diritti tutelati dalla Convenzione. Di conseguenza, neanche l'autorizzazione accordata alla ricorrente può essere interpretata sostanzialmente come un riconoscimento di una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata (ibidem, § 53).
36. Si deve pertanto concludere che la ricorrente può dichiarare di essere «vittima» ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione.

2.  Sull'esaurimento delle vie di ricorso interne

37. Il Governo solleva un'eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in quanto la ricorrente non ha impugnato la sentenza del TAR dinanzi al Consiglio di Stato, sostenendo che il supremo tribunale amministrativo avrebbe potuto accogliere le argomentazioni della ricorrente e, quindi, annullare la decisione del prefetto.
38. La ricorrente replica che un ricorso dinanzi al Consiglio di Stato non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo, tenuto conto del diritto positivo in vigore in Italia, che impedisce qualsiasi modifica del nome prima della rettificazione dell'attribuzione di sesso decisa da un giudice. La ricorrente indica che, dall'entrata in vigore del DPR n. 396 del 2000, vale a dire dal momento in cui è stata devoluta al prefetto la competenza decisionale per le domande di cambiamento di nome, non è stata accolta nessuna domanda presentata da una persona transgender durante il periodo di transizione sessuale, cosa che, secondo lei, non avveniva in base alla prassi precedente, quando tale competenza era attribuita al procuratore della Repubblica. Nel suo ricorso, si avvale come prova di una decisione del 12 aprile 1999 emessa in un caso che ritiene simile al suo. La ricorrente indica, inoltre, che il Governo non ha dimostrato che un ricorso al Consiglio di Stato avrebbe dato luogo ad una decisione favorevole e che sarebbe stato quindi un rimedio da esperire.
39. La Corte rammenta che l'obbligo di esaurire i ricorsi interni impone ai ricorrenti di fare un uso normale dei ricorsi disponibili e sufficienti per consentire loro di ottenere un risarcimento per le violazioni denunciate. Questi ricorsi devono esistere con un sufficiente grado di certezza, in pratica come in teoria, altrimenti mancano loro l'effettività e l'accessibilità richieste (Akdivar e altri contro Turchia, 16 settembre 1996, § 66, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV). Inoltre, la regola dell'esaurimento delle vie di ricorso interne non consente un'applicazione automatica e non ha carattere assoluto: controllandone il rispetto, occorre avere in considerazione le circostanze della causa. Ciò significa, in particolare, che la Corte deve tener conto in modo realistico del contesto giuridico e politico in cui si inscrivono i ricorsi nonché della situazione personale dei ricorrenti. (Menteş e altri c.Turchia, 28 novembre 1997, § 58, Recueil 1997‑VIII, e Gas e Dubois c. Francia (dec.), n. 25951/07, 31 agosto 2010).
40. La Corte rammenta poi che, per poter essere considerato effettivo, un ricorso deve essere in grado di porre direttamente rimedio alla situazione lamentata e presentare ragionevoli prospettive di successo (Balogh c. Ungheria, n. 47940/99, § 30, 20 luglio 2004, e Sejdovic c. Italia [GC], n. 56581/00, § 46, CEDU 2006-II). Tuttavia, il semplice fatto di nutrire dubbi sulle prospettive di successo di un determinato ricorso che non è evidente che sia destinato a fallire non costituisce una ragione adeguata per giustificare il mancato utilizzo del ricorso in questione (Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, § 70, 17 settembre 2009).
41. Infine, la Corte rammenta che, per quanto riguarda l'onere della prova, spetta al Governo che eccepisce il mancato esaurimento convincerla che il ricorso era effettivo e disponibile sia in teoria che in pratica all'epoca dei fatti. Una volta dimostrato ciò, spetta al ricorrente dimostrare che il ricorso indicato dal Governo è stato di fatto utilizzato o che, per qualsiasi motivo, non era né adeguato né effettivo tenuto conto dei fatti della causa, oppure che alcune circostanze particolari dispensavano l'interessato dall'esperirlo (McFarlane c. Irlanda [GC], n. 31333/06, § 107, 10 settembre 2010, e Vučković e altri c. Serbia (eccezione preliminare) [GC], nn. 17153/11 e altri 29, § 77, 25 marzo 2014).
42. Nella presente causa, la Corte osserva che la ricorrente ha cercato di poter cambiare il suo nome presentando una domanda al prefetto, conformemente all'art. 89 del DPR n. 396 del 2000, entrato in vigore circa sette mesi prima. Dinanzi alla Corte, l'interessata sostiene, sulla base di un esempio di giurisprudenza, che, prima dell'entrata in vigore di detta disposizione, il procuratore generale della Repubblica, che all'epoca era competente per decidere, aveva regolarmente accolto le domande di cambiamento di nome presentate da persone transessuali, anche in assenza di una decisione giudiziaria definitiva che rettificasse l'attribuzione di sesso. Per contro, la ricorrente sostiene di non conoscere alcuna decisione favorevole adottata dal prefetto ai sensi del nuovo decreto presidenziale, vale a dire il DPR n. 396 del 2000.
43. Per quanto riguarda il Governo, la Corte rileva che quest'ultimo si limita ad affermare che un ricorso dinanzi al Consiglio di Stato avrebbe costituito una via di ricorso in grado di consentire alla ricorrente di ottenere una riparazione per l'asserita violazione, senza tuttavia corroborare quanto affermato indicando una giurisprudenza e una prassi consolidate.
44. Di conseguenza, alla luce degli elementi di cui dispone, la Corte ritiene che, sebbene la ricorrente avrebbe potuto prevedere che la sua domanda sarebbe stata accolta al momento della sua introduzione nel 2001 tenuto conto della prassi esistente prima dell'entrata in vigore del nuovo DPR n. 396, la stessa poteva anche legittimamente dedurre dal contesto giuridico esistente nel 2008 che un ricorso dinanzi al Consiglio di Stato sarebbe stato destinato a fallire. Pertanto, l'eccezione del Governo deve essere respinta.
45. Peraltro, constatando che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) della Convenzione e che non incorre in nessun altro motivo di irricevibilità, la Corte lo dichiara ricevibile.

B.  Sul merito

1.  Tesi delle parti

46. La ricorrente ritiene che il rifiuto delle autorità nazionali di consentirle di cambiare nome prima dell'operazione chirurgica di conversione sessuale abbia violato il suo diritto al rispetto della sua vita privata.
47. La ricorrente sostiene che, con sentenza del 10 maggio 2001, il tribunale civile di Roma l'ha ufficialmente riconosciuta come transessuale. Di conseguenza, il diritto al rispetto della sua identità di genere avrebbe meritato di essere tutelato, anche se la sua conversione sessuale non si era ancora conclusa con un intervento chirurgico. A tale riguardo, la ricorrente ritiene che il Governo abbia torto ad invocare il margine di apprezzamento degli Stati in questa materia, poiché, secondo lei, il sistema nazionale ha dimostrato rigidità nonostante la legge n. 164 del 1982 non abbia mai menzionato l'intervento chirurgico tra le condizioni per ottenere il riconoscimento dell'identità di genere delle persone transessuali. La ricorrente sostiene che le autorità hanno interpretato la normativa nazionale in modo restrittivo e sono quindi venute meno ai loro obblighi positivi inerenti al rispetto dell'articolo 8 della Convenzione.
48. Nelle sue osservazioni, la ricorrente precisa peraltro che le sue doglianze riguardano esclusivamente il rifiuto delle autorità di accordarle il cambiamento di nome e non mettono affatto in discussione il processo decisionale relativo alla rettificazione dell'attribuzione di sesso.
 49. Il Governo replica che, con la sua domanda di cambiamento di nome, la ricorrente aveva come unico obiettivo quello di farsi riconoscere una nuova identità sessuale senza subire un intervento chirurgico, e questo, a suo parere, in violazione delle disposizioni di legge vigenti. Il Governo sostiene che il diritto positivo italiano consente la rettifica del nome di una persona transessuale solo dopo che le autorità abbiano verificato il suo vero stato psicologico e il suo comportamento. A questo proposito, sostiene che la ricorrente ha ottenuto la rettifica del suo nome e del suo sesso nel 2003, dopo aver completato il suo percorso di transizione sottoponendosi all'intervento chirurgico autorizzato dal tribunale. Pertanto, il Governo ritiene che le autorità abbiano rispettato le pertinenti disposizioni di legge in vigore all'epoca dei fatti di causa e che le stesse abbiano consentito alla ricorrente di ottenere il riconoscimento della sua nuova identità sessuale.
50. Infine, il Governo sostiene che la legge n. 164 del 1982 prevede una procedura in grado di garantire il rispetto dell'identità di genere di ciascuno, consentendo così alle persone transessuali di ottenere la modifica del loro stato civile. Di conseguenza, a suo avviso, questo caso non è paragonabile ai casi in cui gli Stati hanno limitato i diritti garantiti dall'articolo 8 della Convenzione rifiutando di riconoscere le nuove identità sessuali di persone che avevano subito un intervento chirurgico genitale.

2.  Osservazioni di terzi

51. I terzi intervenienti, le organizzazioni Alliance Defending Freedom e Unione Giuristi Cattolici Italiani, dichiarano che il regime speciale previsto dalla legge n. 164 del 1982 per ottenere il cambiamento dello stato civile delle persone transgender non considera la chirurgia come una condizione necessaria, ma solo come una delle possibili opzioni che possono essere raccomandate nel contesto del percorso di transizione sessuale della persona interessata. Spetterebbe quindi alle autorità giudiziarie nazionali decidere caso per caso.
52. I terzi intervenienti ritengono che il fatto di impedire agli Stati di stabilire dei criteri oggettivi da prendere in considerazione in questo tipo di procedure equivarrebbe a conferire agli individui un potere di autodeterminazione incompatibile con gli interessi altrui.
53. Essi affermano che la giurisprudenza della Corte nel campo del riconoscimento dell'identità di genere si concentra sulla legalità delle restrizioni che lo ostacolano, e la Corte ha costantemente dichiarato che spetta agli Stati definire i meccanismi di tale riconoscimento tenendo conto dei diversi interessi in gioco. Aggiungono che ciò solleva questioni fondamentali di definizioni, che hanno ramificazioni nei campi dell'etica, della psicologia e della scienza medica, e per le quali deve essere dato un ampio margine di apprezzamento agli Stati. Indicano che il modo in cui gli Stati rispondono alla questione del transessualismo varia da un paese all'altro, a seconda delle specificità di ciascun ambiente nazionale: secondo loro, ogni Stato definisce delle regole volte a raggiungere un equilibrio tra interessi privati e interessi pubblici concorrenti che si presentano al suo interno. Secondo i terzi intervenienti, questo approccio è sostenuto dall'ampia divergenza che caratterizza le scelte legali degli Stati membri su tale questione.

3.  Valutazione della Corte

a)  Sull'applicabilità dell'articolo 8 della Convenzione

54. La Corte rammenta che la nozione di «vita privata» è una nozione ampia, che non può essere definita in modo esaustivo e che comprende non solo l'integrità fisica e morale della persona, ma talvolta anche alcuni aspetti dell'identità fisica e sociale di quest'ultima. Elementi quali, ad esempio, l'identità o l'identificazione sessuale, il nome, l'orientamento sessuale e la vita sessuale rientrano nella sfera personale tutelata dall'articolo 8 della Convenzione (si vedano, in particolare, Van Kück c. Germania, n. 35968/97, § 69, CEDU 2003-VII, Schlumpf c. Svizzera, n. 29002/06, § 77, 8 gennaio 2009, e Y.Y. c. Turchia, già citata, § 56, nonché i riferimenti ivi citati).
55. La Corte rammenta anche che la nozione di autonomia personale riflette un importante principio che è alla base dell'interpretazione delle garanzie dell'articolo 8 della Convenzione (Pretty c. Regno Unito, n. 2346/02, § 61, CEDU 2002-III), fatto che l'ha indotta a riconoscere, nel contesto dell'applicazione di questa disposizione alla situazione delle persone transessuali, che essa comporta un diritto all'autodeterminazione (Van Kück, § 69, sopra citata, e Schlumpf, § 100, sopra citata), di cui la libertà di definire il proprio orientamento sessuale è uno degli elementi essenziali (Van Kück, sopra citata, § 73). La Corte ha inoltre indicato che il diritto allo sviluppo personale e all’integrità fisica e morale delle persone transessuali è garantito dall’articolo 8 (si vedano, in particolare, Van Kück, § 69, Schlumpf, § 100, e Y.Y. c. Turchia, § 58, sopra citate).
56. Le sentenze pronunciate ad oggi dalla Corte in questo ambito riguardano il riconoscimento giuridico dell’identità sessuale delle persone transessuali che hanno subìto una operazione di conversione sessuale (Rees c. Regno Unito, 17 ottobre 1986, serie A n. 106; Cossey c. Regno Unito, 27 settembre 1990, serie A n. 184; B. c. Francia, n. 13343/87, 25 marzo 1992, seria A n. 232-C, Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], n. 28957/95, CEDU 2002 VI, I. c. Regno Unito [GC], n. 25680/94, 11 luglio 2002, Grant c. Regno Unito, n. 32570/03, CEDU 2006‑VII, e Hämäläinen c. Finlandia [GC], n. 37359/09, CEDU 2014), le condizioni di accesso ad una operazione simile (Van Kück, sopra citata; Schlumpf, sopra citata; L. c. Lituania, n. 27527/03, CEDU 2007 IV e Y.Y. c. Turchia, sopra citata), o ancora il riconoscimento giuridico dell'identità sessuale delle persone transgender che non hanno subìto un trattamento di cambiamento di sesso riconosciuto dalle autorità o che non desiderano sottoporsi a tale trattamento (A.P., Garçon e Nicot, sopra citata).
57. La Corte fa notare che la presente causa riguarda l'impossibilità per una persona transessuale di ottenere il cambiamento di nome prima del completamento definitivo del processo di transizione sessuale mediante l'operazione di conversione. Si tratta quindi di una problematica, che le persone transessuali possono incontrare, diversa da quelle che la Corte ha avuto l'opportunità di esaminare fino ad oggi.
58. Resta tuttavia il fatto che tale problematica rientra appieno nell'ambito del diritto al rispetto della vita privata e quindi ricade senza dubbio nell'ambito di applicazione dell'articolo 8 della Convenzione, come peraltro la Corte ha più ampiamente affermato nelle cause riguardanti la scelta o il cambiamento di cognomi o nomi di persone fisiche (si vedano, tra molte altre, Golemanova c. Bulgaria, n. 11369/04, § 37, 17 febbraio 2011, e Henry Kismoun c. Francia, n. 32265/10, § 25, 5 dicembre 2013)
59. Pertanto l'articolo 8 della Convenzione si applica al caso di specie sotto il suo profilo «vita privata», fatto che, del resto, il Governo non contesta.

b) Sull'osservanza dell'articolo 8 della Convenzione

60. La Corte ribadisce che, se l’articolo 8 della Convenzione ha essenzialmente lo scopo di premunire l’individuo contro il rischio di ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri, esso non si limita a imporre allo Stato di astenersi da simili ingerenze: a questo impegno negativo possono aggiungersi degli obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata o famigliare. Il confine tra obblighi positivi e negativi dello Stato ai sensi dell'articolo 8 non si presta ad una definizione precisa, ma i principi applicabili nel caso dei primi sono analoghi a quelli validi per i secondi. Per stabilire se esista un obbligo - positivo o negativo -, occorre tener conto del giusto equilibrio da mantenere tra l'interesse generale e gli interessi dell'individuo (si veda, tra altre, Söderman c. Svezia [GC], n. 5786/08, § 78, CEDU 2013).
61. Peraltro, la Corte riafferma che, nell'ambito della regolamentazione delle condizioni necessarie per cambiare i nomi delle persone fisiche, gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento. Pur ricordando che vi possono essere reali motivi che inducono un individuo a voler cambiare nome o cognome, la Corte ribadisce che alcune restrizioni legali di tale possibilità possono essere giustificate dall'interesse pubblico, ad esempio per garantire una precisa registrazione della popolazione o per salvaguardare i mezzi di una identificazione personale e per collegare a una famiglia coloro che portano un determinato cognome (Golemanova, sopra citata, § 39, e Henry Kismoun, sopra citata, § 31).
62. Detto ciò, per quanto riguarda l'equilibrio degli interessi concorrenti, la Corte ha sottolineato la particolare importanza che assumono le questioni relative ad uno degli aspetti più intimi della vita privata, ossia il diritto all'identità sessuale, nel quale gli Stati contraenti godono di un limitato margine di apprezzamento (Hämäläinen, sopra citata, § 67, e A.P., Garçon e Nicot, sopra citata, § 123).
63. La questione principale che si pone nel caso di specie è stabilire se, tenuto conto del margine di apprezzamento di cui disponeva, l'Italia abbia mantenuto un giusto equilibrio nel ponderare l'interesse generale e l'interesse privato della ricorrente a che il suo nome corrisponda alla sua identità di genere.
64. La Corte osserva anzitutto che la legge italiana consente il riconoscimento giuridico dell'identità di genere delle persone transessuali tramite la modifica del loro stato civile conformemente alla legge n. 164 del 1982 (paragrafo 18 supra).
65. La Corte prende atto della posizione della ricorrente, che sostiene di aver dovuto attendere di sottoporsi all'operazione chirurgica di conversione sessuale per ottenere l'autorizzazione a modificare il suo nome. Essa osserva, inoltre, che l'interessata non sostiene di essere stata indotta a sottoporsi all'intervento chirurgico contro la sua volontà e al solo scopo di ottenere il riconoscimento giuridico della sua identità sessuale. Al contrario, dai documenti della procedura interna risulta che la stessa desiderava ricorrere alla chirurgia per armonizzare il suo aspetto fisico con la sua identità sessuale e che era stata autorizzata a farlo dal tribunale. Di conseguenza, a differenza della causa A.P., Garçon e Nicot (sopra citata, § 135), nel presente caso non è in gioco una violazione dell'integrità fisica della ricorrente contraria all'articolo 8 della Convenzione.
66. La Corte è pertanto chiamata a valutare se il rifiuto delle autorità di autorizzare la ricorrente a cambiare nome durante il processo di transizione sessuale e prima del completamento dell'operazione di conversione costituisca una violazione sproporzionata al diritto di quest'ultima al rispetto della sua vita privata.
67. La Corte rileva che, a seguito alla sentenza del tribunale del 10 maggio 2001, che aveva autorizzato l'intervento chirurgico, alla ricorrente è stato rifiutato il cambiamento del suo nome per via amministrativa, in quanto qualsiasi modifica del registro di stato civile di una persona transgender doveva essere ordinata da un giudice nell'ambito della procedura di rettificazione di attribuzione di sesso. Di conseguenza, la ricorrente, conformemente all'articolo 3 della legge n. 164 del 2000, nella versione in vigore all'epoca, ha dovuto attendere che il tribunale constatasse che l'operazione era stata effettuata e si pronunciasse definitivamente sulla sua identità sessuale, fatto avvenuto solo il 10 ottobre 2003.
68. La Corte sottolinea che il suo compito non è quello di sostituirsi alle autorità nazionali competenti per definire la politica più opportuna in materia di regolamentazione dei cambiamenti del nome delle persone transessuali, ma di valutare dal punto di vista della Convenzione le decisioni che esse hanno preso nell'esercizio del loro potere discrezionale.
69. Essa di per sé non rimette quindi in discussione la scelta del legislatore italiano di affidare all'autorità giudiziaria piuttosto che all'autorità amministrativa le decisioni relative al cambiamento del registro di stato civile delle persone transessuali. Inoltre, la Corte riconosce pienamente che il mantenimento del principio dell'indisponibilità dello stato delle persone, della garanzia dell'affidabilità e della coerenza dello stato civile e, più in generale, dell'esigenza di certezza del diritto è di interesse generale e giustifica l'introduzione di procedure rigorose allo scopo, in particolare, di verificare le motivazioni profonde di una richiesta di cambiamento legale di identità (si veda, mutatis mutandis, A.P., Garçon e Nicot, sopra citata, § 142).
70. Tuttavia, la Corte può solo constatare che il rigetto della domanda della ricorrente è stato basato su argomenti puramente formali che non tenevano affatto conto della situazione specifica dell'interessata. Pertanto, le autorità non hanno tenuto in considerazione il fatto che la stessa aveva intrapreso da anni un processo di transizione sessuale e che il suo aspetto fisico, così come la sua identità sociale, era già femminile da molto tempo.
71. Nelle circostanze del caso di specie, la Corte ha difficoltà a comprendere quali ragioni di interesse generale abbiano potuto impedire per più di due anni e mezzo di adeguare il nome che figurava nei documenti ufficiali della ricorrente alla realtà della sua situazione sociale, nonostante fosse stata riconosciuta dal tribunale civile di Roma nella sentenza del 10 maggio 2001. A questo proposito, ribadisce il principio secondo il quale la Convenzione tutela dei diritti che non sono teorici o illusori, ma concreti ed effettivi.
72. Al contrario, la Corte rileva in ciò una rigidità del processo giudiziario di riconoscimento dell'identità sessuale delle persone transessuali in vigore all'epoca dei fatti, che ha posto la ricorrente per un periodo di tempo irragionevole in una situazione anormale che le ha ispirato sentimenti di vulnerabilità, umiliazione e ansia (si veda, mutatis mutandis, Christine Goodwin, citata sopra, §§ 77-78).
73. La Corte fa riferimento alla Raccomandazione CM/Rec(2010)5 sulle misure volte a combattere la discriminazione basata sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere, nella quale il Comitato dei Ministri ha raccomandato agli Stati di consentire i cambiamenti di nome e di genere nei documenti ufficiali in modo rapido, trasparente e accessibile (paragrafo 25 supra).
74. Inoltre, la Corte rileva con interesse che il decreto legislativo n. 150 del 2011 ha modificato l'articolo 3 della legge n. 164 del 1982, in quanto non è più necessaria una seconda decisione del tribunale nei procedimenti di rettificazione di attribuzione di sesso riguardante persone che sono state operate, poiché la rettificazione dello stato civile può essere ordinata dal giudice nella decisione che autorizza l'operazione (paragrafo 20 supra).
75. Di conseguenza, alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che l'impossibilità per la ricorrente di ottenere la modifica del suo nome per un periodo di due anni e mezzo per il motivo che il suo percorso di transizione non si era concluso con un'operazione di conversione sessuale costituisca, nelle circostanze del caso di specie, una violazione da parte dello Stato convenuto del suo obbligo positivo di garantire il diritto dell'interessata al rispetto della sua vita privata.
Pertanto vi è stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione.

II.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE

76. La ricorrente denuncia una violazione dell'articolo 14 in combinato disposto con l'articolo 8 della Convenzione.
77. La Corte, constatando che questa parte del ricorso non è manifestamente infondata ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità, la dichiara ricevibile. Ritiene, tuttavia, tenuto conto di quanto constatato in merito all'articolo 8 (paragrafo 74 supra), che non si debba esaminare se nel caso di specie vi sia stata violazione della disposizione invocata (A.P., Garçon e Nicot, sopra citata, § 158).

III. SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

78. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A. Danno

79. La ricorrente chiede 10.000 euro (EUR) per il danno morale che ritiene di avere subìto.
80. Il Governo contesta tale richiesta.
81. La Corte ritiene che, nelle circostanze del caso di specie, la constatazione di violazione dell'articolo 8 della Convenzione alla quale essa è giunta sia di per sé un'equa soddisfazione sufficiente.

B. Spese

82. La ricorrente chiede anche 1.200 EUR per le spese sostenute dinanzi ai tribunali nazionali e 10.000 EUR, o qualsiasi altra somma che la Corte ritenesse equa, per quelle sostenute per il procedimento svoltosi dinanzi ad essa.
83. Il Governo non ha presentato osservazioni al riguardo.
84. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella fattispecie, tenuto conto dei documenti di cui dispone e della sua giurisprudenza, la Corte considera ragionevole la somma complessiva di 2.500 EUR per tute le spese e la accorda alla ricorrente.

C. Interessi moratori

85. La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

  1. Dichiara il ricorso ricevibile;
  2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione;
  3. Dichiara non necessario esaminare il motivo di ricorso relativo all'articolo 14 della Convenzione;
  4. Dichiara che la constatazione di una violazione fornisce di per sé un'equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subìto dalla ricorrente;
  5. Dichiara
    1. che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, la somma di 2.500 EUR (duemilacinquecento euro), più l’importo eventualmente dovuto dalla ricorrente a titolo di imposta per le spese;
    2. che a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  6. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto l'11 ottobre 2018, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte

Abel Campos    
Cancelliere

Linos-Alexandre Sicilianos
Presidente